I Giorni del Vindro

Prologo

Uno degli effetti collaterali di un lungo giro che ho fatto in Patagonia è stato, al mio ritorno in Italia, quando, tramite Nanni, ho avuto l’occasione di conoscere alcuni suoi amici, appassionati dello scialpinismo, provenienti dal mondo SUCAI, un ambiente ben noto tra gli scialpinisti, del quale conoscevo alcuni istruttori o che incontravo in concomitanza di qualche gita del loro gruppo, che aveva, e ha tuttora, la fama di essere assai numeroso.

Ma torniamo ai personaggi di cui ho avuto modo di fare la conoscenza, personaggi che diventarono ben presto carissimi amici con i quali ho condiviso, e talvolta condivido, delle gite indimenticabili e percorsi di vita quotidiana. Tre sono i più emblematici: Alberto, dal fare pacato e determinato; dà sicurezza affrontando con calma i tratti difficili ed in discesa giù con sciata impeccabile ed armoniosa su qualsiasi tipo di neve; Paolo-Popino, che all’epoca in cui lo conobbi era alle prime esperienze, ma ben presto si trasformò in un macinatore di dislivelli e in un grande realizzatore di discese ripide, spesso in montagne appartate, un fantasista a cui si associa una gran dose di entusiasmo. Infine ecco il Vindro, personaggio carismatico, dalle prorompenti idee e dall’entusiasmo con cui le sviluppa, grande esperienza nel mondo dell’alta montagna, intraprendente nel cercare e trovare soluzioni per risolvere al meglio i passaggi scabrosi, che inevitabilmente si presentano nel corso di un raid.

L’occasione di incontro fu il progetto di un raid scialpinistico nel cuore del Delfinato, il possente massiccio montano nelle Alpi dell’Ovest, interamente in territorio francese e noto anche come gli “Ecrins”. Col termine “raid”, dall’accezione piuttosto bellicosa, si cela quella che credo sia la massima espressione dello scialpinismo, ossia un percorso di più giorni in cui si attraversano cime, colli, ghiacciai. Un continuo divenire di spazi quasi infiniti, di salite e discese che si susseguono senza tornare indietro, se non con lo sguardo stupito di vedere da dove si è partiti, con l’incognita di sapere dove ci si andrà a cacciare. L’individuazione poi di un percorso fuori da itinerari collaudati e classici aggiungeva ulteriore interesse. Un viaggio in sci totalizzante negli ambienti innevati e glaciali dell’alta montagna.

Ero rimasto affascinato da uno dei primi libri editi sullo scialpinismo, che riprendeva i raid del GSA, il Gruppo Scialpinistico del CAI Uget di Torino, dal titolo “Raid in sci”. Un libro che apriva ad idee ed immaginazione, stimolo per cimentarsi in altre bianche avventure.

Insieme a questi amici e ad altri scialpinisti, mi ritrovai per tre anni consecutivi a partecipare a tre raid, che definirei esplosivi, ideati appunto dal Vindro. Li elenco nell’ordine cronologico:

  • Delfinato
  • Valpelline
  • Oberland Bernese

 Delfinato

Delfinato non è solo un nome geografico, ma è anche il sinonimo di grandiosità, di complessità. Montagne che balzano imponenti su vallate lunghe e quasi infinite, in fondo alle quali, forse, si trova un rifugio. In parole povere è sinonimo di “grandi fondelli”. Chi si addentra tra quei monti sa che deve confrontarsi con tutti gli elementi dell’alta montagna e con le fatiche dei lunghi e spesso complicati percorsi.

Nel tardo pomeriggio di un giorno di fine primavera e di quasi estate scendiamo dal Col del Lautaret, giù per la strada che porta a La Grave sino al punto in cui confluisce una valle laterale che si inoltra negli anfratti solitari e selvaggi del mondo degli Ecrins. Siamo all’imbocco del Vallon du Villar d’Arene, un vallone assai lungo, di cui avremo modo di apprezzare lo sviluppo qualche giorno dopo! Nel frattempo ci aspetta un inizio di tutto riposo: un’oretta a piedi e sci in spalla per arrivare con un percorso quasi piano al Refuge de l’Alp du Villar d’Arene, poco oltre i 2000 metri d’altezza.

Se l’inizio è stato conciliante e privo di fatiche non così sarà il giorno seguente, che si rivelerà come uno dei percorsi più ardui e complicati. Dopo una partenza antelucana, alle 4 e mezza, arriveremo alla meta della giornata, la Cabane des Ecrins, alle 20,30. In questo intervallo avremo macinato un dislivello in salita di oltre 2300 metri, mio record personale. Ma questo è nulla se non si descrivono le peripezie intercorse nell’arco di quelle ore: uno sci alpinismo a tutto campo, nella sua massima accezione.

L’alba ci trova già in cammino in un lungo tratto di fondovalle che abbandoniamo per arrancare su per i pendii che ci porteranno al Glacier Superieure d’Arsine. E’ l’ora di calzare gli sci ed inoltrarsi su per il ghiacciaio sino ad un colletto dal quale dobbiamo scendere in corda doppia e planare sul Glacier du Casset. Ripelliamo e risaliamo il ghiacciaio sin dove le pendenze si impennano. Ci aspetta una ripida salita con piccozza e ramponi. Raggiungiamo un’insellatura tra due delle cime degli Agneaux. Gli sguardi si affacciano sul versante opposto che presenta un altro ripido pendio. Fissiamo due corde per agevolare la discesa. Dove la pendenza diminuisce calziamo gli sci e divalliamo sul Glacier du Monetier. Il percorso già complicato di suo si complica ulteriormente con l’arrivo di nuvolaglie, che riducono la visibilità e rendono incerta la discesa al Col du Monetier, che comunque individuiamo. Dal colle diparte la “Cengia di Monetier”, unico passaggio che consente di affacciarsi sul bacino del Glacier Blanc. Trovato il passaggio ci rimettiamo gli sci in spalle e ci leghiamo in cordata. La cengia è innevata ed esposta su salti rocciosi. Mi lego con Popi con una certa apprensione, poiché non conoscevo ancora questo nuovo amico. Con reciproci atti di fiducia le nostre cordate si incamminano lungo questo esposto passaggio. Man mano che procediamo la parete sottostante diminuisce di altezza fino al punto in cui la cengia si raccorda al ghiacciaio. Eccoci nuovamente cogli sci ai piedi e con lo scorcio confortante, giù in basso, del Refuge du Glacier Blanc. Una bella discesa ci conduce nei pressi della capanna. E’ già tardo pomeriggio e il rifugio potrebbe essere un ottimo fine tappa. La tentazione di fermarsi è forte ma resta una pura illusione: dobbiamo proseguire verso il Refuge des Ecrins (allora Caron). Posizioniamo gli attacchi in modalità salita, e, rimesse le pelli, lasciamo il rifugio a malincuore. Ci aspettano ancora due buone ore e un notevole spostamento chilometrico per arrivare al rifugio. Questa struttura sita a 3172 metri offre il riparo a chi effettua gite nell’alta conca del Glacier Blanc dominata dalla Barre des Ecrins. Il rifugio è pieno e al nostro gruppetto viene riservato un locale più simile a una topaia. Nemmeno la cena riesce ad alleviare le fatiche della giornata, vista la brodaglia che sembra sia un must dei rifugi francesi. Ma siamo stanchi e tutto va bene.

Iniziamo la terza tappa salendo dritti, alle spalle del rifugio. I ripidi pendii e la neve portante ci consentono di raggiungere il Col Emile Pic dove lasciamo gli sci per salire il pendio e qualche roccetta che conduce sulla cima del Pic de Neige Cordier a 3614 metri. Guido si è portato gli sci sulla cima per scendere direttamente il pendio terminale; il resto della compagnia ritorna al colle. Sul versante opposto a quello di salita iniziamo la discesa spettacolare sul Glacier des Agneaux: 1200 metri di dislivello giù da un pendio canale con tratti a 45°. Discesa selvaggia tra barre rocciose e seracchi. La neve è ottima e ci consente di godercela tutta questa discesa. Raggiungiamo il fondo del vallone principale a 2300 metri. Possiamo finalmente riposarci prima di intraprendere la salita sul versante opposto della valle. Ci attendono 800 metri di dislivello per giungere alla meta di quel giorno. Intanto incominciano ad arrivare le nuvole che sempre più ci avvolgono e ci accompagnano sino alla soglia del Refuge Adele Planchard a 3169 metri. Il rifugio è incustodito; entriamo che già incominciano a scendere fiocchi di neve. Avere un rifugio tutto a nostra disposizione è un vero lusso ed è l’ideale per ritemprarsi dalle fatiche e passare la serata in racconti di gite passate e di progetti futuri.

Nella notte avviene un miracolo: è nevicato. Quando apriamo la porta un sole splendente fa capolino dietro lo slanciato profilo delle Roche Meane. L’intonso manto di 30 centimetri di neve fresca è un luccichio continuo. Dalla capanna osserviamo il percorso per raggiungere la nostra meta: la Grand Ruine 3765 m, una delle più belle montagne del Delfinato. Non ci par vero potere fare la traccia in questo inizio di giugno. Ci incamminiamo solcando il pendio in un ambiente grandioso con un lungo traverso ascendente. A un centinaio di metri sotto la cima lasciamo gli sci. Con picca e ramponi superiamo tutti quanti il ripido pendio sommitale. Non c’è una nuvola e siamo circondati da miriadi di monti imbiancati, ghiacciai sospesi e picchi rocciosi. Il morale è alle stelle e già ci immaginiamo il godimento per la discesa che ci attende: 1600 metri di dislivello su farina leggerissima che, man mano che perdiamo quota, si trasforma nel classico firn primaverile. Tornati sul fondo del vallone, tra scampoli di neve e la fioritura di crocus e bucaneve ci lasciamo alle spalle il mondo dell’alta montagna, immergendoci nella primavera ritrovata.

Valpelline

Altro giro, altro raid: impegno e difficoltà sono analoghi a quelli dell’anno precedente, con la differenza che dormiremo nei bivacchi e quindi dovremo essere autonomi per alcuni giorni. Siamo in aprile; è ancora buio quando lasciamo la città per giungere in Valpelline, valle aspra, selvaggia e solitaria. Alle case di Ferrera, frazione di Bionaz, inizia la nostra avventura sciistica, anche se il primo tratto lo facciamo a piedi e sci in spalla. Intanto iniziamo in discesa per attraversare il ponte sul Buthier. Oltre ci alziamo sul sentiero che consente di superare agevolmente lo scalino che dà accesso al Vallone di Montagnaya. Verso i 2000 metri calziamo gli sci e ci avviamo sul fondo del vallone dove, sulla destra, si allineano le impervie e poco frequentate cime del gruppo Aqualou-Invergnaux, monti affascinanti per il nome e per la loro solitudine. Il nostro itinerario scorre fluido e tranquillo sino al Colle di Montagnaya 2903 m. E qui viene il bello! Se il percorso che finora abbiamo seguito è di stampo classico, di tutt’altro genere è la discesa sull’altro versante, quello di Saint Barthelemy. Un ripido canalone precipita per quasi 1000 metri in mezzo ad una forra cupa e impressionante.

Al colle sostiamo, un po’ titubanti. In fase di preparazione Guido aveva contattato personaggi locali tra i più disparati: scialpinisti, guide, cacciatori, bracconieri e così via, al fine di avere informazioni su questo passaggio: nulla di fatto. Sta a vedere che saremmo i primi! Iniziamo la ripida discesa al cardiopalma, derapando nei primi metri sia per capire com’è la neve sia perché abbiamo gli zaini pesanti. Cercando di non guardare troppo il fondo facciamo una bella infilata di curve controllate. L’obbiettivo è quello di trovare sulla sinistra il pendio che porta al Colle della Terra.  Tolti gli sci risaliamo il ripido lenzuolo sino al colle oltre il quale si distendono le conche del Lago Luseney, che raggiungiamo con facili scivolate e, soprattutto, fuori da pendii esposti. Eccoci al Bivacco Nebbia, meta di questa prima giornata (adesso il Nebbia ha traslocato nella valle di Cogne, al suo posto c’è un rifugio incustodito, il Remoulaz). Il bivacco è il classico a semibotte; ha 6 cuccette … peccato che noi siamo in sette! Uno si sacrificherà ad adagiarsi sul pavimento. Per prendere l’acqua imitiamo gli esquimesi facendo un buco nel ghiacciato Lago Luseney, dove immergiamo le borracce per riempirle.

Nonostante l’affollamento la notte passa senza grossi problemi. Al mattino siamo pronti per salire all’estetica Becca di Luseney 3504 m. Il tempo è bello e la neve è trasformata. La salita si divide in due parti. La prima consiste nell’arrivare al Colle Luseney 3162 m. e per raggiungerlo si supera un canale-pendio a 45°. Il secondo tratto è un perfetto lenzuolo che conduce alla vetta. Saliamo il pendio sino dove diventa ripido. Levati gli sci, con piccozza e ramponi raggiungiamo la cima. La Luseney è una montagna isolata e di bella forma triangolare, quindi la vista spazia oltre l’immaginabile. Enrica e Guido, che si erano portati gli sci sino in cima, scendono i 45° del tratto sommitale per riunirsi al resto della compagnia. Arriviamo tutti quanti al Colle Luseney. Siamo entusiasti del posto e della neve ma un velo di malinconia ci coglie quando, in quattro, come da programma, ci salutano e scendono sul versante Nord-Est nel Vallone d’Arbieres. Siamo rimasti in tre, Enrica, Guido ed io. Questo distacco un po’ ci sconforta: sia per gli amici che se ne vanno sia per ciò che ci attende. Intanto imbocchiamo il ripido canale-pendio sotto il colle. Con una straordinaria neve primaverile scendiamo il pendio del Colle Luseney sino alle ampie conche sottostanti. La bella discesa e una confortevole sosta sotto un caldo sole ci ricaricano; godiamo di una solitudine assoluta. Ripelliamo e ripartiamo su un percorso più agevole rispetto a quello che ci eravamo immaginati vedendolo da lontano. Transitiamo dalla Finestra di Cian e poi con un percorso altalenante eccoci al Bivacco Cian 2489 m. Qui ci raggiungono tre nostri amici, Anna, Andrea e Mec.

La terza tappa è un susseguirsi di ambienti solitari ed arcani nei quali ci inoltriamo con il piacere e lo stupore di scoprire via via angoli di grande suggestione. Saliamo al Col Chavacour a quasi 3000 metri; oltre ci raccordiamo ai pendii che ci portano al Colle Cian a 3200, da cui proseguiamo per metter piede sulla calotta che forma la cima del Dome di Cian. Arriviamo sul punto più alto dove ci godiamo il grandioso panorama col Cervino lì a due passi: sembra di essere sospesi. Per puro caso questa cima l’ho salita per la Parete Nord, per la rocciosa Parete Sud lungo la Via Bazzi e ora come meta scialpinistica. Tornati al Colle Cian scendiamo il pendio canale fino alle alte conche del bacino di Cignana. Cerchiamo di non perdere troppa quota con un traverso che ci porta sotto il Col de Fort dove è sito il Bivacco-rifugio Rivolta, il posto tappa. Anche qui siamo solo noi sei, quindi abbiamo a disposizione il rifugio. Ci sistemiamo, abbiamo tutto il tempo per rilassarci, per fondere la neve, preparare te e liquidi in abbondanza da riempire anche le borracce. Non resta che goderci un tramonto infuocato ed infilarsi nel sacco a pelo.

L’ultima tappa ha le caratteristiche della precedente: ambienti grandiosi e di grande suggestione. Iniziamo con una bella scivolata sino alle conche alte di Cignana, costeggiamo le Cime di Balanselmo fino a transitare dal Bivacco Manenti a 2780 m. Continuiamo sino al Col di Voifrede con l’idea di salire sullo Chateaux de Dames. La vetta non la raggiungiamo: il tratto finale non ci sembra sicuro, siamo a 3250 m. Ci prepariamo per divallare verso il Colle di Bellatsa. La neve è un perfetto firn primaverile; il vallone che discende sulla valle principale offre spazi a dismisura e neve trasformata al punto giusto. E’ la conclusione perfetta di questo viaggio in sci. Arriviamo a Prarayer dove ci spaparanziamo sull’erba che ha già preso il posto alla neve e facciamo un pediluvio rigeneratore. Ci resta solo più da costeggiare il lago di Place Moulin; una piccola penitenza per chiudere questa splendida traversata.

Oberland Bernese

Il paradosso è che il giro in Oberland è risultato come ripiego di un raid nelle Lepontine, che abbiamo dovuto accantonare a causa di condizioni metereologiche decisamente avverse. Non che in Oberland la meteo fosse migliore, ma c’era la possibiltà di incappare in qualche sprazzo di sereno.

La logistica è stata abbastanza semplice. Lasciamo le auto all’imbocco della Loetschental, nel punto in cui dovremmo chiudere il nostro giro. Con una serie di treni e trenini, l’ultimo dei quali è quello famosissimo che si inoltra nelle viscere dell’Eiger, arriviamo ai 3462 metri dello Jungfrau Joch, punto di partenza. Un primo tratto di facile percorso ci porta sotto la cima del Monch. Per raggiungere questa vetta ci leghiamo in cordata, io con Nanni. Saliamo l’erto pendio fino all’affilata cresta, che percorriamo fino alla cima a 4107 m, prestando estrema attenzione alle cornici. Purtroppo il panorama viene celato dalle nuvole che ora avvolgono le alte montagne. Ritornati al punto dove avevamo lasciato gli sci, seguiamo l’evidente traccia che ci porta alla Monsjoch Hut a 3658 m. La mattina successiva il tempo non è migliorato affatto, siamo avvolti dalle nuvole e nevica. Nonostante ciò partiamo per scendere i pendii sino al vasto altopiano glaciale di Konkordiaplatz. E qui succede un episodio che potrebbe avere avuto un esito tragico.

Partiamo in discesa dalla Monsjoch Hutte nella nebbia uno a fianco all’altro quando io mi sento portare via senza alcun modo di controllare gli sci. Percepisco di essere sulla sommità di un seracco formata da una calotta di ghiaccio vetroso. Sono in balia degli eventi, ben presto mi ritrovo in aria e precipito nell’ignoto: quanto sarà alto questo seracco? Finirò in qualche crepaccio? Sono pochi istanti in cui non ho tempo di far scorrere la mia vita, l’unico pensiero che mi viene in mente è “vediamo di morire con dignità”, così cerco di tenere gli sci uniti. Gli istanti corrono veloci: atterro su una cengia di neve dura dopo un salto di una decina di metri. Gli sci si svirgolano, ma non impediranno di continuare la traversata, gli occhiali invece si rompono, il duro atterraggio mi fa battere la faccia sulla neve. Mi sento miracolato. In breve gli amici mi raggiungono. Per superare lo choc ritorniamo al rifugio dove mi rianimo con un grog bollente.

Nonostante la visibilità sia ancora nulla, decidiamo di scendere. A fare la traccia va avanti Guido, il resto della compagnia lo segue e scende legata, il che è un bell’impiccio. Nel frattempo altri gruppi di scialpinisti ci osservano per capire se possono sfruttare la nostra traccia. Fortunatamente il tempo migliora, le nubi si sfrangiano e squarci di sereno si ampliano lasciandoci ammirare la grandiosità dell’ambiente. Senza altri patemi arriviamo al Konkordiaplatz, l’altopiano glaciale più vasto delle Alpi, da cui si origina il più esteso ghiacciaio delle Alpi, l’Aletschglacier. Attraversiamo l’altopiano avviandoci in direzione della Finsteraarhorn Hutte, dove pernotteremo. La tappa successiva inizia con un’alba gelida e serena, percorriamo il vallone glaciale dei Fiescherhorn puntando allo Hinter Fiescherhorn 4025 metri, che raggiungiamo. Scendiamo ad un colletto che scavalchiamo. La prima parte è un ripido pendio che scendiamo con picca e ramponi e faccia a monte. Con una bella scivolata raggiungiamo le tracce che avevamo fatto il giorno precedente, che ci consentono di ritornare al Konkordiaplatz. Stavolta prendiamo la direzione opposta per salire alla Hollandiahutte 3240 m. Il tempo si è messo nuovamente sul brutto e così è anche nel giorno successivo, l’ultimo. Abbandoniamo l’idea di salire un’altra cima, così  raggiungiamo il passo che ci consente di scendere nella Loeschental. Iniziamo una lunga discesa di quasi 2000 metri di dislivello fino al punto dove abbiamo lasciato l’auto. Intanto il sole fa capolino e ci scalda nei preparativi del ritorno.

Ancora con il ricordo e le immagini di queste maestose montagne e dei grandi flussi glaciali, il pensiero va verso nuove mete e nuove avventure.

Lorenzo Barbiè      

 Personaggi ed interpreti (in ordine sparso):
Guido-Vindro, EnricaF, NanniV, PaoloM-Popi, CarloC-Charlie, ChiaraG, GiorgioM, GuidoM-Mec, CarloG, CarloR, LauraM, AnnaC, AndreaG, MarcoV, LorenzoB

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