Madri o non madri?

Dalle amiche Linda Cottino e Ingrid Runggaldier, in occasione della Festa delle Donne di venerdì 8 marzo, ecco un bell’articolo su un tema poco frequentato ma sempre di estrema attualità.
Si tratta di uno degli interventi presentati al convegno “Alpiniste, genitorialità e rischio” promosso da Laboratorio Donne con il Centro Studi Interdisciplinare di Genere del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento, che si è svolto nell’ambito del Trento Filmfestival 2023. Una sintesi del convegno è già stata pubblicata, a cura di Riccarda de Eccher, sul numero autunno-inverno 2023-24 della rivista Le Alpi Venete.

I figli invisibili delle prime alpiniste
di Linda Cottino e Ingrid Runggaldier

Il tema della genitorialità è un capitolo della storia dell’alpinismo femminile ancora ben poco studiato. In particolare, il periodo delle pioniere, attive dagli anni ’60 dell’Ottocento fino ai primi del Novecento, fu assai ricco di imprese di alto livello, ma è purtroppo ancora coperto da una nube di non-conoscenza, e rimanendo l’azione alpinistica delle donne per lo più nell’ombra, è comprensibile che ancor meno si abbiano notizie di eventuali figli. Sembra che l’avere o non avere figli non influenzasse molto le donne nella loro azione in montagna. Certo, le prime alpiniste, pare, che non ne avessero avuti. Basti pensare a Henriette d’Angeville, la sposa del Monte Bianco, che nel 1838, all’età di quarant’anni e nubile, lo scalò come seconda donna.L’alpinismo poteva comunque essere favorito dal contesto famigliare; infatti, se padri, fratelli o mariti vanno in montagna, è assai probabile che i figli, e talvolta anche le figlie, vi si appassionino. E benché il protagonista assoluto sia sempre l’uomo, le donne comprimarie sono incoraggiate a svolgere l’attività praticata dai maschi di famiglia. Un esempio per tutti Lucy Walker, figlia di Frank, uno dei fondatori dell’Alpine Club di Londra, e sorella di Horace, nonché prima donna a salire il Cervino appena sei anni dopo la conquista di Whymper e Carrel. In altri casi, invece, fu proprio la mancanza di legami famigliari a lasciare alle donne la libertà di seguire le proprie inclinazioni; si pensi ad Amelia Edwards, a Beatrice Tomasson, prima assoluta sulla Sud della Marmolada, per le quali fu proprio la non presenza ovvero lontananza dei genitori da un lato e l’assenza di figli dall’altro a permettere loro di seguire la passione per la montagna.

Della scarsa influenza che l’esistenza dei figli esercitava sulle scelte delle prime alpiniste abbiamo ulteriori esempi. Alessandra Boarelli, che nel 1864 salì sul Monviso, era già madre di due figlie, le quali vennero affidate in tutta naturalezza a un’amica per otto giorni, l’intera durata della “spedizione”. Un’altra fortissima, che svolse attività alpinistica di punta negli anni ‘80-‘90 del XIX secolo, fu Elizabeth Main ovvero Burnaby ovvero Aubrey Le Blond – dai tanti cognomi si evince l’esistenza di altrettanti mariti, ma di figli ne ebbe uno solo, tale Arthur, che non viene quasi mai menzionato. Ma prima ancora ci fu Jane Freshfield, scrittrice e alpinista, anche lei madre di un unico figlio, che avviò alla montagna e divenne il noto Douglas William Freshfield. Non dimentichiamo poi Isabella Charlet Straton, autrice della prima invernale al Monte Bianco, che sulla cima più alta d’Europa portò i propri figli poco più che bambini.

La prima domanda che emerge in questo contesto è come mai nei resoconti e nei frammenti di storia dell’alpinismo che riguardano le pioniere non si fa cenno alla maternità. Una risposta potrebbe essere inquadrata nel rapporto tra genitori e figli: all’epoca adulti e bambini abitavano mondi separati, che poco o nulla comunicavano tra loro; in particolare, le classi agiate che praticavano l’alpinismo usavano mandare i propri figli in collegio oppure li lasciavano alle cure di governanti e precettori. Un esempio è Jeanne Immink che, mentre negli anni ’80 dell’Ottocento arrampicava sulle Dolomiti aprendo con le sue guide difficili vie anche invernali, sapeva i suoi figli bene accuditi in collegio.

Un secondo aspetto concerne la percezione del pericolo e del rischio che nell’Ottocento era molto diversa rispetto alla società securitaria in cui siamo immersi oggi. Era normale essere sorpresi dal buio o dal maltempo e bivaccare senza alcun riparo, rimanere a lungo senza cibo, e così via. E chi praticava l’alpinismo ne era perfettamente cosciente, incluse le “signore” a cui, effettivamente, in articoli sulle riviste e nei manuali di alpinismo l’andare in montagna veniva puntualmente sconsigliato perché a dire dei vari medici le camminate troppo lunghe e faticose avrebbero rovinato la sana costituzione e la salute delle ragazze di buona famiglia, fino al punto da renderle addirittura sterili o incapaci di portare a termine una gravidanza.

Da quel che si evince dagli archivi, il tema in generale non veniva trattato – né dalle alpiniste medesime, né da chi scriveva delle loro ascensioni, solitamente altre alpiniste che si interessavano a chi le aveva precedute. Le donne, alpiniste e non, di solito non pubblicavano ciò che scrivevano di sé, dei propri pensieri nonché delle proprie emozioni e imprese – e se lo facevano la cosa non solo non era vista di buon occhio, ma recava addirittura scandalo, poiché in epoca di rigida suddivisione dei ruoli ciascuno doveva rispettare il proprio; nel loro caso quello di angelo del focolare. Non ultimo, il corpo era un supremo tabù, non se ne parlava, men che meno in relazione alla maternità e al parto: non erano argomenti che potessero essere discussi in pubblico.

Una delle prime alpiniste fra tutte a farlo fu la socia del Cai Torino Carolina Palazzi-Lavaggi, in una conferenza tenuta nel 1882. Palazzi-Lavaggi, che di figli ne aveva ben sei, tutti già avviati da lei alla montagna, volle insistere sulla necessità per le donne di acquisire il controllo del proprio corpo: solo rinvigorendolo nell’aria salubre dell’alta quota, avrebbero potuto esprimere quell’energia fisica e morale – «che di certo non manca alle donne» – necessaria a praticare l’alpinismo. La montagna per sé stesse, ma anche per distogliere figli e figlie da una vita troppo sedentaria, nociva alla salute. Le considerazioni di Carolina Palazzi-Lavaggi sono da intendersi come il tentativo di opporsi alle opinioni correnti sulla salute delle ragazze che, per quanto diffuse, erano del tutto prive di fondamento scientifico. Come verrà ampiamente dimostrato.

Rimane il fatto che il compito primario della donna era quello di sposarsi e avere figli. Ed è la prima ragione per cui le loro carriere erano più brevi di quelle degli uomini: al momento del matrimonio molte cordate si scioglievano. Il sodalizio delle tre sorelle Grassi di Udine, per esempio, durò finché due di loro si sposarono e la più giovane proseguì per un certo tempo da sola rinunciando al matrimonio; lo stesso accadde alle inglesi Pigeon, le sorelle Anne ed Ellen, oppure a Isabella Straton e Emmeline Lewis Lloyd.

Non stupisce quindi che le alpiniste attive nonostante i figli non si soffermassero, le rare volte in cui scrivevano delle loro imprese, sul tema della maternità: per le più emancipate, infatti, sarebbe equivalso a ridurre sé stesse al ruolo di madri, un ruolo da cui cercavano piuttosto di evadere; e inoltre volevano evitare che il parlarne le esponesse a critiche che le avrebbero richiamate al loro posto. Dichiararsi madri, infine, poteva contribuire a sminuirle da un lato in quanto alpiniste rispetto agli uomini, e dall’altro in quanto donne rispetto alla società patriarcale.

Chiudiamo con una considerazione finale. Al contrario di quel che accade oggi, con il dominio della specializzazione e l’ossessiva suddivisione in categorie, l’epoca delle pioniere accettava l’esistenza di contesti dai contorni sfumati. Benché le donne fossero escluse da molte attività e confinate in ruoli predefiniti, i ceti sociali più elevati potevano decidere in libertà infischiandosene delle convenzioni. Un privilegio che imponeva in ogni caso di non sovvertire apertamente le regole.

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