Linda Cottino: L’alpinismo delle donne al tempo di Alessandra Boarelli

Con la postfazione del suo libro NINA DEVI TORNARE AL VISO (Fusta Editore 2019) l’amica, giornalista e scrittrice,  Linda Cottino, ci racconta l’alpinismo delle donne, intorno alla metà dell’ottocento, nell’epoca d’oro della conquista delle cime, quando anche le donne, in compagnia di padri, fratelli e mariti, iniziarono a frequentare le montagne.

Estate 1863. Una settimana prima che la comitiva guidata da Quintino Sella giunga in cima al Monviso, un gruppo di alpinisti anticipa il tentativo italiano alla vetta. Con loro c’è anche una 25enne di Verzuolo. Si chiama Alessandra Re Boarelli. Il maltempo e l’indecisione della guida arresteranno il tentativo. Ma se la salita fosse andata per il verso giusto, una donna avrebbe preceduto sulla vetta i fondatori del Club Alpino. E probabilmente la storia dell’alpinismo italiano organizzato avrebbe
avuto un inizio diverso da quello che tutti conosciamo.
Ad Alessandra, donna colta e libera, il Monviso è comunque entrato nel sangue. E il 16 agosto 1864, un anno dopo il precedente tentativo, riesce a calcare la vetta della montagna. 

Ma chi era davvero la giovane pioniera del Viso? Tra storia e narrazione romanzata, questo libro getta un po’ di luce sulla vita, sulla personalità della protagonista e sull’ambiente culturale in cui la donna maturò la decisione di salire sul Re di pietra.

Buona lettura!

Il 4 settembre del 1838,  lo stesso anno di nascita di Alessandra Boarelli, all’una e mezza pomeridiane una nobildonna francese metteva piede sulla cima del Monte Bianco. Quella donna era Henriette d’Angeville. Aveva la bella età di 44 anni e abitava a Ginevra, dove si era stabilita dopo che il Terrore aveva inghiottito quasi per intero la sua famiglia; da lì, nelle giornate terse, vedeva luccicare in lontananza la cupola bianca e glaciale del Monte Bianco, una montagna che all’epoca era “italiana”, in quanto parte dei territori del Regno di Sardegna.
Un primo giro di perlustrazione d’Angeville l’aveva compiuto in luglio, giusto il tempo per dare forma al progetto e dedicarsi ad alcune salite di allenamento – il Mont Joly, affacciato sul Bianco dalla parte di St Gervais, il Jardin de Talèfre con marcia sulla Mer de Glace fino al Couvercle, e la Tête Noire, un ripiego per non aver potuto raggiungere il Brévent a causa del cattivo tempo. Negli appunti presi sul fido Carnet Vert prima di entrare nel vivo dell’azione, Henriette annota lo sconcerto di chi assiste ai suoi preparativi e vorrebbe dissuaderla da un’impresa tanto azzardata e inopportuna per una gentildonna. «I visitatori cominciarono subito a mettersi in cammino per venire a scampanellare alla mia porta a qualunque ora; dapprima per verificare la veridicità della notizia, poi per sottopormi al supplizio di un interrogatorio vero e proprio. “Perché questa inclinazione per i viaggi?”; “Rientraste or ora da Chamonix e volete riandarci?”. “Perché?”: è una parola piccola ma molto indiscreta quando a pronunciarla sia altri che un buon amico; tuttavia proverò qui a rispondere a tutti i perché rivoltimi a proposito della mia spedizione al Monte Bianco. Così al primo perché rispondo: è in relazione con i bisogni dell’anima, e con quelli del corpo, diversi da individuo a individuo; voler enunciare al proposito leggi generali è altrettanto irragionevole che voler sottoporre persone di costituzione debole allo stile di vita dei forti, o viceversa». Spiega poi che domandare a qualcuno perché ama i viaggi è altrettanto insensato che chiedere a chi predilige la vita appartata perché resta a casa. E aggiunge che la scelta del Monte Bianco ha a che fare anch’essa con l’inclinazione spirituale «che spinge ciascuno a scegliere un modo di vita peculiare: è nuovamente un modo di affermare l’individualità. Io sono fra coloro che alle scene pittoresche e graziosissime che la natura sa offrire preferiscono gli spettacoli grandiosi… Ecco perché ho scelto il Monte Bianco».

Se teniamo conto del fatto che in pochissimi al suo tempo ne avevano compiuto l’ascensione, ancor meno quelli che ne avevano scritto, e che il modo di sentire femminile è ben differente da quello maschile e che «quando sono andata sul Monte Bianco, questo non era ancora stato visitato da una donna capace di valutare le sue impressioni», ecco che la sfida raccolta dalla contessa d’Angeville assume una non trascurabile rilevanza. Bisogna assecondare la curiosità che le salite precedenti hanno stimolato, pensava Henriette. A maggior ragione se la montagna non dista da Ginevra più di «venti leghe, e in casi simili la vicinanza ha qualche valore: non toglie nulla al piacere del viaggio e ne diminuisce lunghezza e fatica». Et voilà. La contessa prenota per corrispondenza la guida più nota di Chamonix Joseph-Marie Couttet come capo della spedizione, e cinque altre guide. Si fa cucire un vestito adatto e prepara i bauli. Che conterranno molti capi d’abbigliamento (addirittura un boa, non sappiamo se di struzzo!) ma anche ogni bendidio, imprescindibile per il buon esito della scalata – dai polli arrosto alla crema di latte, alle bottiglie di vino e champagne, compresa una gabbietta con piccione viaggiatore, che all’arrivo in cima avrebbe dovuto essere liberato per portare in paese la lieta novella.

D’Angeville sa benissimo che trent’anni prima la giovane Marie Paradis l’ha preceduta su quella cima con successo. Benché non fosse «una donna capace di valutare le sue impressioni», aveva comunque avuto un’idea brillante: quanti touristes in più, si era chiesta la chamoniarda Marie, avrebbero varcato la soglia della sua locanda per ammirare dal vivo la prima conquistatrice dell’ambitissima cima? Molti, senz’altro. Che fosse arrivata in vetta stremata dalla fatica e dalla quota, trascinata di peso dalle guide, non le avrebbe impedito di sventolare il vessillo di primo gentil piede posato sull’eterea cupola glaciale. Aiutata, per giunta, da un nome “paradisiaco”. E così in effetti andò, almeno per tre decenni, finché Henriette non si impose con l’autorevolezza della sua impeccabile spedizione. Henriette, un’alpinista consapevole, la prima. Con e senza apostrofo. A ben pensarci, infatti, i signori uomini avevano ancora bisogno della scienza per giustificare le loro courses in montagna, lei invece lo fece per puro piacere dell’avventura e della sfida, per bisogno di libertà, per determinazione individuale.

Alessandra aveva dunque sette mesi quando l’impresa si compì. Ed è interessante notare che a conquistarsi un posto d’onore nel firmamento alpinistico della seconda metà dell’Ottocento furono molte sue coetanee, o di poco più giovani. Tutte insieme formano una nutrita schiera, benché gli storici dell’alpinismo non abbiano voluto accorgersene. Cancellandole di fatto dalla storia. Invisibili, inesistenti. Ringraziamo Alessandra Boarelli e la sua zampata vincente al Monviso che ci dà l’opportunità di nominarle, qualcuna se non tutte, per restituire loro l’onore di aver compiuto un’opera grandiosa, dalle valenze molteplici: senz’altro quella di avventurarsi su terreni impervi e pericolosi, mettendo in gioco se stesse in un ambiente talora estremo; ma sopra ogni altra cosa per la volontà di imporre il proprio ardimento e la propria capacità di giudizio a dispetto delle asfissianti convenzioni sociali. È facile andare in montagna quando l’intera comunità ci sprona, e i successi sulle cime diventano la carta del prestigio sociale da giocare nella vita quotidiana. Tutt’altra cosa quando l’orizzonte dell’agire è circoscritto al recinto domestico – e non sempre dorato – dove dipanare una vita fatta di pochi e indiscutibili elementi: la cura del marito, dei figli, della casa e, se di classe agiata, della propria persona. Così era nella seconda metà dell’Ottocento e almeno fino alla Prima guerra mondiale.

Ecco dunque il florilegio di tanti invisibili talenti, di cui ora è bello scandire i nomi e le date di nascita, come in un rituale di memoria storica. Nello stesso anno di Alessandra, il 1838, venne al mondo l’inglese Isabella Straton, poi naturalizzata francese e più nota col doppio cognome Charlet-Straton; tredici anni prima, nel 1825, era nata l’americana Meta Brevoort, zia e mentore di quel monumento dell’alpinismo che sarebbe stato William Brevoort Coolidge; nel ’31 Amelia Edwards, autrice di un fortunatissimo libro sulla sua esplorazione delle Dolomiti, Untrodden Peaks and Unfrequented Valleys, mentre nel ’32 e nel ’36 erano nate le sorelle Anna ed Ellen Pigeon; nel 1835 Lucy Walker, futura presidente del Ladies Alpine Club e prima donna a scalare il Cervino; nel ’37 Elizabeth Fox Tuckett, sorella maggiore del secondo alpinista sul Monviso Francis Fox Tuckett, che fu un’artista apprezzata, autrice delle famose storie illustrate Zigzagging amongst Dolomites. Aggiungiamo ancora altre fortissime: Margareth Jackson del 1843, dieci anni più giovane Jeanne Immink, l’olandese resa celebre dalle fotografie di Theodor Wundt; Katy Richardson del ’54 e la sua compagna di cordata Mary Paillon del ’48. Nel 1850, dall’altra parte dell’oceano, a Providence, era nata Annie Peck, prima assoluta sull’Huascaran, la cima più alta delle Ande peruviane; del ’59, sempre negli Stati Uniti, era Fanny Bullock Workman, facoltosa esploratrice himalayana che si contese proprio con Peck il primato della quota più alta raggiunta da una donna.

Tra il 1855 e il 1859 nacquero anche tre italiane, le sorelle Angelica, Minetta e Annina Grassi di Tolmezzo, che realizzarono la loro impresa più eclatante scalando per prime l’impegnativo Monte Sernio, sulle defilate Alpi Carniche – cosa che mise di pessimo umore i colleghi alpinisti della zona, battuti sul tempo. Il 1859 fu l’anno di nascita anche dell’inglese Beatrice Tomasson, che firmò due prime ascensioni al top: sull’immensa parete sud della Marmolada e sulla Nord est del Gran Zebrù; dell’ungherese Hermine Tauscher Geduly non si conosce l’anno di nascita, ma solo che si dedicò a un alpinismo di alto livello nel ventennio 1860-80. Non possono mancare alcune fuoriclasse che coglieranno i frutti migliori della loro attività a Novecento inoltrato, respirando un’aria ormai cambiata: Elizabeth Aubrey LeBlond, nata proprio l’anno della vittoriosa salita al Monviso da parte di Alessandra Boarelli, il 1864; May Norman-Neruda che nacque nel ’67; le sorelle ungheresi Ilona e Rolanda Eotvos, nel ’78 e ’80; stessi anni rispettivamente dell’austriaca Cenzi Sild, che partecipò al tentativo all’Ushba nel Caucaso, e della tedesca Eleonore Noll Hasenclever. E siamo agli sgoccioli del secolo, quando nel ’98 nacque l’americana Miriam O’Brien, divenuta famosa per aver compiuto in cordata con la francese Alice Damesme, nel 1929, una delle ascensioni più difficili e ambite del suo tempo, l’Aiguille du Grépon.

«Ich bin eine Bergsteigerin», io sono un’alpinista. Rispondeva così Eleonore Hasenclever con la foga dei suoi sedici anni alla madre che l’aveva sorpresa alla stazione del treno, di ritorno dalla montagna, vestita e attrezzata di tutto punto, con una sigaretta tra le labbra. Superato lo sconcerto, la madre avrebbe acconsentito a lasciarle la montagna, ma il fumo no, quello non era tollerabile. Si doveva arrivare agli anni ’90 del XIX secolo per sentir pronunciare una frase tanto piena di forza e consapevolezza. Eleonore, che realizzò le sue ascensioni più brillanti a cavallo tra Otto e Novecento, si sarebbe rivelata un’alpinista di primordine, allieva e figlia in spirito della celebre guida svizzera Alexander Burgener. Fu lui a un certo punto ad ammettere di non avere più nulla da insegnarle, lanciandola a briglia sciolta sulle montagne. Dove ella infatti si mosse abitualmente da capocordata, talora anche con sole donne, e fu fermata all’improvviso da una slavina al Bishorn nel 1925, il che le diede il triste primato di essere la prima scalatrice a morire in montagna. Quel che sappiamo di lei lo dobbiamo al marito Johannes Noll, che dopo averla sepolta a Zermatt, come gli alpinisti migliori, ne recuperò i diari, curandone la pubblicazione nel 1937 e rendendo in tal modo possibile conoscere un personaggio altrimenti consegnato all’oblio, una donna vulcanica e affascinante, che nella sua frequentazione della montagna unì alle capacità tecniche una gran gioia di vivere.

Aria frizzante e un approccio libero e consapevole, per lo meno a nord delle Alpi, lo trasmette l’articolo che il settimanale tedesco Die Woche pubblicò nel 1901 a firma di Maud Wundt, alpinista lei stessa e moglie dell’ufficiale Theodor Wundt (autore di celebri fotografie scattate all’olandese Jeanne Immink sulla Cima Piccola di Lavaredo, vestita da uomo). L’articolo s’intitolava Berhümte Bergsteigerinnen, Alpiniste famose, e prendeva in considerazione le migliori scalatrici dell’epoca, di area tedesca: ben 27! Un risvolto interessante per noi è l’esistenza di una traduzione italiana di questo articolo, o meglio della sua sintesi commentata, “una variazione sul tema”, come ebbe a definirla il suo autore, Edmondo De Amicis, il quale, già da qualche anno conquistato al fascino della montagna, si incuriosì al testo. Una curiosità nata probabilmente dall’incontro con i Wundt ai piedi del Cervino durante una delle sue villeggiature estive. «Strana coppia di sposi» scrive De Amicis. «Passarono veramente le prime notti della dolce luna nelle rozze capanne delle Alpi, a oltre tremila metri sopra il mare, in mezzo ai ghiacci e alle nevi, dove forse non s’erano mai due creature umane scambiato un bacio d’amore». E, per fugare ogni dubbio sul possibile deficit di femminilità della “conquistatrice di montagne”, aggiunge: «Per tutti la sua apparizione fu un disinganno gratissimo, poiché c’eravamo raffigurata una donna di robustezza virile, d’una fierezza di guerriera, un po’ somigliante al marito nell’aspetto, come nella fibra. Nella statura soltanto gli somiglia: altissima, ma di forme minute, e snella: una piccola testa bionda un po’ inclinata sopra un collo grazioso, un viso di lineamenti delicati, con gli occhi vivi e dolci, e un sorriso di giovinetta poetica, dolcissimo; al quale corrisponde mirabilmente la voce armoniosa, quasi di bambina».

Non potrebbe esservi contrasto maggiore tra la modernità dell’approccio della signora Wundt e i clichés di cui sono intrisi i commenti di De Amicis. La versione offerta dal nostro scrittore risente in pieno dei pregiudizi che permeano la società italiana, intellettuali compresi; tanto che non resiste a esprimere considerazioni del tipo: «Vi sono certo degli sforzi, come le ascensioni che richiedono due giorni di fatiche continuate, dai quali le donne è bene che si astengano, e che soltanto qualcuna, di fibra eccezionale, può compiere». Oppure, il gustoso consiglio da dare a «signore e signorine nervose di dedicarsi alla montagna, dove troveranno un prosaico appetito e un buon sonno pacificatore, da cui torneranno a casa rifatte anche di spirito».

Possibile che lo scrittore italiano fosse del tutto all’oscuro delle imprese che fin dagli anni ’60 dell’800 le alpiniste, soprattutto britanniche, andavano realizzando? Possibile che non avesse udito parlare di quel best seller che aveva indotto molte ragazze a frequentare la montagna e che datava ormai del 1859? A Lady’s Tour Round Monte Rosa di Eliza Cole aveva infatti riscosso grande successo tra il pubblico femminile, anche perché non dimenticava di fornire svariati consigli in materia di accessori e abbigliamento. Per esempio questo: «Non portate niente che non sia indispensabile. Troppi bagagli vi fanno ritardare la marcia e irritano il resto del gruppo. Portate un cappello a larghe falde che renderà superfluo l’ombrellino da sole; portate anche un vestito di lana leggera che potrà asciugare facilmente. Fissate dei piccoli anelli all’interno delle cuciture della sottana, in modo da farvi passare un cordone per poter rialzare il vestito all’altezza voluta. Portate con voi uno o due plaid scozzesi e una mantellina impermeabile con cappuccio. La cosa più importante di tutte è avere delle solide scarpe ferrate, qualcosa del tipo delle calzature da caccia per uomo».

Con ogni evidenza, al di qua delle Alpi la situazione restava immobile. Tant’è vero che ancora nel 1887, al Club Alpino di Torino, la socia Carolina Palazzi Lavaggi aveva tenuto un’accorata conferenza sulla necessità (a buon diritto legittima) dell’esercizio fisico per le donne, soprattutto all’aria aperta e in particolare in montagna. Bisognava ancora insistere, pensava l’alpinista torinese, bisognava ripeterlo forte e chiaro:

«Perché, o Signori, non si deve incoraggiare la donna a percorrere la montagna? Forse che la costituzione nostra non ci permetta questo esercizio? È vero che per andare per più giorni in montagna v’ha bisogno di non poca energia, tanto fisica che morale per lottare contro l’assoluta mancanza di comodi, tanto necessari (così si dice) alla più parte delle donne. Ma consideriamo le cose; io invece credo che questo esercizio sia salutare sia fisicamente che moralmente. Non è egli vero, o Signori, che molti mali e molte infermità del nostro sesso, che chiamano debole (ma che io non credo tale), provengono dalla mancanza di esercizio? Non si vedono ogni giorno giovanette languire d’anemia, e fanciulli intisichire, le prime per l’assurdo uso di tenerle troppo imprigionate in casa, ed i secondi per lunghe e continuate ore chiusi in iscuola. Lassù tutti i muscoli, tutte le fibre del corpo sono in moto; la respirazione per la salita si fa più frequente; la circolazione del sangue si accelera; il calore si diffonde sino alle estremità; il sudore gronda; sembra provarsi momentaneamente una sofferenza, ma il formidabile appetito che ne succede, per cui ogni rozzo alimento riesce squisito, dimostra che l’organismo ha vantaggiato. Necessariamente bisogna essere forti per sopportare una lunga fatica, e la forza in generale si nega alle donne. Ma chi oserebbe parlare di debolezza, quando si rifletta che esse hanno pur la forza di sostenere la fatica di tutta una notte di ballo, in mezzo ad una atmosfera viziata, strette in abiti tutt’altro che comodi? Non potranno quindi sostenere e resistere alla fatica delle escursioni alpine allorché esse aspireranno a pieni polmoni l’aria pura e vivificante della montagna?».

Per tutti, uomini e donne, concedersi il piacere inutile dell’alpinismo richiedeva abbondanti mezzi economici. Ma in più le donne ci dovevano mettere determinazione e volontà, spirito critico, ambizione e una buona dose di energia, necessaria a reggere la collisione con l’unico modello ritenuto valido per il genere femminile, quello che le identificava con il ruolo biologico della riproduzione, e lì le inchiodava. Tutto ciò che di bello si poteva mettere in opera – la fantasia, la creatività, l’azione avventurosa – era prerogativa maschile. L’alpinismo, dunque, con i suoi tratti di ardimento, tenuta psichica, fatica, resistenza… che cosa c’entrava mai con le donne?

In qualche modo c’entrava, visto che la pratica andava nei fatti sempre più sconfessando la teoria. Ma era meglio che quell’attività in montagna rimanesse nel vago, nel cono d’ombra di quel che raccontavano i signori uomini. In mancanza di narrazione, però, è come se l’alpinismo le donne non l’avessero mai praticato. Ed è proprio quel che accadde, poiché esse non scrivevano che di rado, certamente non récits d’ascension, e se lo facevano firmavano con pseudonimi oppure con il nome del marito, del fratello o del nipote. È il caso di Meta Brevoort, che scrisse tra gli altri un gustoso A Day and a Night on Bietschhorn, sull’eccitante ascensione del quasi-quattromila vallesano compiuta nel 1865, con tanto di bivacco in grotta: la firma è naturalmente di William Coolidge. Non tutte si chiamavano George Sand e potevano essere invitate a scrivere sul bollettino del club alpino francese pur non realizzando particolari imprese!

Quando le alpiniste decidevano di uscire allo scoperto rendendo pubblico un successo e assumendosi la responsabilità delle proprie affermazioni, venivano credute a stento o per nulla. Come accadde alle sorelle Pigeon per la relazione della prima femminile del Sesia Joch nel 1869. Quel che era avvenuto durante la lunga e impegnativa traversata del Monte Rosa da Zermatt ad Alagna parve inverosimile ai colleghi alpinisti: la guida aveva perso l’orientamento e una delle due sorelle aveva dovuto prendere il comando per trarre d’impiccio la cordata; la gita si era complicata e allungata oltre misura ed era stato necessario bivaccare. Poiché il Sesia Joch era stato attraversato una sola volta, nel 1862, da due soci dell’Alpine Club, ed era ritenuto uno degli exploit più temerari delle Alpi, le due sorelle furono chiamate a dimostrare la veridicità delle loro affermazioni; l’Alpine Club condusse delle indagini che si conclusero con la ratifica dell’avvenuta ascensione. In sette anni, ci ricorda la studiosa dell’alpinismo Cicely Williams, Anne e Ellen Pigeon scalarono 63 cime e attraversarono 72 passi. «Erano resistenti e coraggiose; spesso dormivano all’aperto, anche a quote elevate. I loro diari iniziavano sovente con “Dormito fuori al Gabelhorn”, “Dormito fuori al Weisshorn”». Furono tra le prime alpiniste a scrivere delle proprie imprese, tanto che nel 1885, a carriera ormai conclusa e pienamente riconosciute nel loro valore, raccolsero in un volumetto intitolato Peaks and Passes i diari delle ascensioni compiute tra il 1869 e il 1876, sette magici anni di grande alpinismo.

Anche sulla montagna-calamita dell’epoca le donne fanno il loro gioco, senza risparmiarsi e puntando in alto. Parliamo naturalmente del Cervino con il suo irresistibile fascino, cresciuto man mano che i molteplici tentativi andavano tramutandosi in una corsa spasmodica senza successo, quasi un incantesimo lo rendesse inaccessibile. Tra la fine degli anni ’50 e la prima metà degli anni ’60, infatti, la conquista della cima è oggetto delle brame dei migliori alpinisti, e innanzi a loro è schierata una platea che ne segue ansiosamente l’azione. Ma l’incantesimo sembra tramutarsi in maleficio quando la salita vittoriosa degli inglesi, il 14 luglio 1865, è pagata col denaro sonante di vite umane: quattro componenti della compagnia di Edward Whymper precipitano in discesa, tra cui l’eccelsa guida di Chamonix Michel Croz (lo stesso che aveva guidato i primi inglesi sulla cima del Monviso). Nel Regno Unito lo shock è tale da spingere la regina Vittoria a mettere al bando l’alpinismo; naturalmente invano. L’ultimo capitolo dell’appassionante vicenda è scritto dagli italiani di Jean-Antoine Carrel, che il giorno successivo salgono dal versante del Breuil e toccano anche loro la cima. Nonostante la tragedia, le donne non tardano a farsi coinvolgere. Solo due mesi dopo il disastro, l’americana Meta Brevoort si presentò a Zermatt in compagnia del nipote, allora un ragazzino malaticcio. Nei suoi piani, per rimettere in forma il ragazzo, bastava farlo appassionare alla montagna. A posteriori possiamo dire che il risultato ha senz’altro superato le aspettative. Da lì in avanti, stagione dopo stagione, Meta e William collezionarono ascensioni prestigiose, sempre in compagnia della guida svizzera Christian Almer e della cagnetta Tschingel, unico essere vivente di genere femminile ad essere ammesso all’Alpine Club di Londra.

Galeotta fu quella prima visita al Cervino, dove la zia Meta però non riuscì a tornare che nell’estate del 1871. Ci teneva troppo a salire quella estetica e intrigante montagna. Peccato che i suoi preparativi fossero giunti alle orecchie della fortissima Lucy Walker, la quale, radunata in fretta e furia una compagnia, la precedette a Zermatt tentando subito la cima. L’ascensione di Walker fu baciata dalla fortuna, e si narra che incontrandosi poi in hotel l’americana non mancasse di fare “cavallerescamente” i complimenti alla rivale inglese. Negli stessi giorni, per nulla demoralizzata dallo scacco subìto, Meta Brevoort realizzò la prima traversata femminile Zermatt-Breuil, portandosi alla cresta dell’Hornli e da lì ricollegandosi alla via italiana.

Di quegli anni è da ricordare un tentativo femminile al Cervino che, se fosse riuscito, avrebbe riportato al di qua del confine la gloria di una prima ascensione firmata da una fanciulla: nel settembre 1867 la diciottenne di Valtournenche Félicité Carrel arrivò a non più di 100 metri dalla vetta, dove fu obbligata ripiegare per il maltempo. Come riportava il bollettino del Cai del secondo semestre del 1868, Félicité disse di non aver trovato la salita così difficile come aveva temuto ma – volle precisare – «chi non osa tuffare il proprio sguardo negli abissi senza fondo senza battere ciglio non ci deve andare».

Dicevamo quindi di Lucy Walker, che senz’altro possiamo considerare la prima a praticare con regolarità e sistematicità l’alpinismo, fin da quando, ragazzina, scendeva ogni estate sulle Alpi e lì con la famiglia si muoveva instancabilmente in base ai progetti alpinistici del padre e del fratello, soci dell’Alpine Club fin dalla fondazione. Pionieristica fu l’ascensione “famigliare” del Balmenhorn, il Quattromila del massiccio del Rosa noto per il Cristo delle Vette sulla sommità. Lucy scalava semplicemente perché le piaceva – e rigorosamente in gonna, anzi, con una voluminosa tunica chiara che s’inzuppava alla prima pioggia diventando uno scafandro pesantissimo. La montagna divenne parte della sua vita e con la guida svizzera Melchior Anderegg, in più di vent’anni di attività compì 98 ascensioni, tra cui numerose prime assolute. Il potere del Cervino, dopo la vittoriosa ascensione del 20 luglio 1871, la rese l’eroina della sua generazione; prima dell’impresa, infatti, nessuno aveva mai sentito parlare di lei benché fosse un’alpinista già esperta e affermata. Solo a posteriori si scoprirono le sue salite sui quattromila più prestigiosi, per esempio il Weisshorn e i Lyskamm in prima femminile. A suggello della sua celebrità rimane la nota incisione di Edward Whymper che ritrae il gruppo dei soci dell’Alpine Club riuniti all’hotel Monte Rosa di Zermatt: in quel consesso solo maschile, vi è anche lei, unica donna.

Negli anni 70 altre due inglesi si distinsero in particolar modo, Emmeline Lewis-Loyd e Isabella Straton. Due fortissime che vengono inspiegabilmente considerate, per lo meno in Inghilterra, le prime ad aver salito il Monviso. Il che sappiamo non essere vero. Era dunque un’ascensione prestigiosa il Monviso, una montagna degna di curriculum! Il che aumenta il valore dell’impresa compiuta da Alessandra Boarelli. Ma torniamo alle due alpiniste. Per nulla frenate da complessi di inferiorità, misero a segno un’ascensione importante, quella all’Aiguille du Moine, nel cuore del massiccio del Monte Bianco. Com’era in uso all’epoca, la salita fu compiuta con la guida, il chamoniardo Jean Charlet. Se digitiamo Aiguille du Moine su wikipedia, la prima ascensione è attribuita proprio a lui, ed è curioso. Siamo certi, infatti, che se il buon Charlet fosse salito con uno qualunque dei tanti alpinisti uomini che scorrazzavano sulle Alpi in quel periodo, il nome del cliente sarebbe riportato per primo. Invece compare solo Jean Charlet-Straton. Una “colpa” dalla quale si emendò in seguito. Infatti, quando Emmeline decise che era venuto il tempo di vestire i panni della buona moglie e madre e sciolse la cordata, Isabella, ormai irrimediabilmente stregata dalle montagne, proseguì da sola con Armand Charlet; i due compagni di avventure divennero anche compagni di vita e si sposarono, unendo i rispettivi cognomi in Charlet-Straton, un modo per rimarcare l’uguaglianza del contributo dato da entrambi alle loro imprese. Tra le ascensioni di alto livello compiute nel massiccio, Isabella è nota soprattutto per la prima assoluta invernale della cima del Monte Bianco, che nell’arco della sua vita alpinistica salì svariate volte, portandoci persino i figli di 13 e 11 anni.

Ma a raccogliere per prima l’eredità di Lucy Walker, proprio a partire dal 1871, arrivò colei che i francesi soprannominarono “l’immortale Miss Richardson”. Quando vide le Alpi per la prima volta, Kathleen aveva solo sedici anni e se ne innamorò perdutamente. Di aspetto fragile, era in realtà molto resistente e assolutamente instancabile. Una delle sue guide diceva di lei che «non dorme, non mangia e cammina come un diavolo»: tanto per capirci, nell’estate del 1882 rimase in quota un’intera settimana concatenando, senza mai scendere a valle, Zinal Rothorn, Weisshorn, Cervino e Monte Rosa. Ma fare qui l’elenco delle sue imprese è impossibile, oltre che noioso, dato che in soli dodici anni il suo curriculum riporta ben 116 ascensioni ritenute “maggiori”, di cui 6 prime assolute e 14 prime femminili. Ne scrisse persino il Morning Post: «La palma del 1888 va a una signora, Miss Richardson, che con Emile Rey e J-B Bich ha salito l’Aiguille de Bionnassay, traversando poi per la cresta Est fino al Dôme du Goûter, impresa finora ritenuta impossibile». Non passarono molti giorni che compì la traversata delle cinque punte dei Grands Charmoz, dopodiché si precipitò in Delfinato in quanto le era giunto all’orecchio che un’alpinista stava progettando l’ascensione della Meje. Ma lì l’attendeva una sorpresa: quell’alpinista era lei. Era stata preceduta dalla sua stessa fama! Si preparò così a compierne la prima femminile, naturalmente in velocità com’era nel suo stile: in giornata da la Bérarde, il che non è propriamente una passeggiata. Ed è in quell’88 carico di successi, che la forte Katy fece l’incontro della vita con la francese Mary Paillon; da quel momento le due donne scalarono sempre insieme e condivisero fino alla morte la loro vita quotidiana. Tra le imprese firmate Richardson-Paillon, vi sono la traversata del gruppo di Belledonne nel rigido inverno 1890-91, la Punta Meridionale d’Arves dove, dopo aver rischiato la vita per una pietra che la colpì in testa, Katherine pare si fermò a un passo dalla cima e rivolta a Mary le disse: «Io ho già avuto la Meje, ora l’Aiguille d’Arves tocca a te»; nel ’93 fu la volta della Meje orientale e nel ’97 del Pelvoux, dove esiste anche una Punta Richardson. Una portentosa cavalcata a cui le due donne misero fine di comune accordo, quando Mary iniziò ad accusare problemi alla vista. Da lì in poi la montagna si trasformò nel luogo delle passeggiate condivise e della pittura ad acquerello per Katy, mentre Mary continuò a scrivere e a tenere rapporti con l’ambiente alpinistico.

Considerato che Paillon visse fino al 1946, raggiungendo la considerevole età di 98 anni (Richardson era morta nel 1927), ed essendo stata socia del Ladies Alpine Club, ebbe senz’altro occasione di conoscere Elizabeth Aubrey Le Blond, che di quel sodalizio fu tra le fondatrici nel 1907 nonché prima presidente. “Lizzie” fu una donna vulcanica, che ebbe tre mariti e altrettanti cognomi – ragione per cui, a parte l’impronunciabile Hawkins-Whitshed della famiglia d’origine, la si trova come Aubrey Le Blond, come Main e come Burnaby.  Proprio dal primo marito, il capitano Fred Burnaby, ebbe il suo unico figlio Harry. Quando iniziò a frequentare la montagna per cercare rimedio a una salute cagionevole, nell’ambiente dell’aristocrazia londinese la presero tutt’altro che bene. È rimasta famosa l’invettiva della prozia Lady Bentinck, dei duchi di Portland imparentati con la casa reale, alla vista della giovane nipote abbronzata al rientro da Chamonix: «Impediscile di scalare le montagne!» tuonò rivolta alla madre di Lizzie. «Sta scandalizzando tutta Londra e sembra un pellerossa!». Anni dopo, lei scriverà invece di avere un «grande debito di gratitudine verso le montagne, che mi hanno permesso di liberarmi dalle catene delle convenzioni sociali». In campo alpinistico fu talmente apprezzata da far parte della commissione d’esame delle guide alpine in Engadina; scrisse numerosi libri, anche di tecnica alpinistica e tutti di buon successo, organizzò sette spedizioni in Lapponia e Norvegia, dove esplorò le Alpi del Lyngen e salì numerose cime inviolate, di cui si legge in Mountaineering in the Land of the Midnight Sun. Appassionata di sport invernali, in particolare di pattinaggio su ghiaccio e tobogan, realizzò una decina di filmati; ma soprattutto si dedicò alla fotografia, studiando la neve e il ghiaccio con dedizione quasi maniacale. Nelle ascensioni portava sempre con sé la macchina fotografica, ritraendo panorami in quota di cui non esistevano immagini ravvicinate, poi a valle procedeva con lo sviluppo e la stampa. Facendo leva sulla comune passione per l’alpinismo, riuscì persino ad agganciare il maestro Vittorio Sella, che trascinò in alcune escursioni didattiche. Le sue fotografie fecero il giro del mondo, vennero utilizzate per illustrare libri di vari autori o date in premio a competizioni sportive, oppure vendute per beneficienza.

Nel suo rifugio preferito, in Engadina, strinse amicizia con Conan Doyle e con il pittore Segantini, insieme al quale si concedeva piacevoli passeggiate. L’irrefrenabile vitalità la portò anche a intraprendere un viaggio in bicicletta da St. Moritz a Roma, con tutto il bagaglio appresso. Si racconta che essendo la sua bici priva di freni, per rallentarla in discesa legasse spezzoni di tronchi alla ruota posteriore. Si distinse anche durante la Prima guerra mondiale, quando organizzò il British Ambulance Commettee in terra francese e in seguito si adoperò per portare sollievo ai reduci con letture serali e proiezioni con la sua lanterna magica. A guerra conclusa, mise addirittura in piedi una fondazione per ricostruire la cattedrale di Reims, bombardata dai tedeschi; un impegno grandioso che il governo francese premiò con la Legion d’onore.

A lanciarla nell’empireo dell’alpinismo fu l’attività svolta nei due decenni 1882-1903, dal Delfinato al Vallese, dall’Oberland alle Dolomiti: 130 grandi salite, tra cui ovviamente varie ascensioni al Monte Bianco e sulle Grandes Jorasses, una traversata Zermatt-Breuil con Alexander Burgener, una serie infinita di Quattromila nelle Alpi svizzere, come il Weisshorn salito nel tempo record di 4 ore o lo Zinalrothorn, salito due volte nello stesso giorno. Lizzie nutrì una speciale passione per le invernali, inusuali all’epoca e ancor più per una donna, oltre che faticosissime per le guide, costrette a intagliare con la piccozza centinaia di gradini nel ghiaccio. Ma Aubrey Le Blond è stata una rivoluzionaria anche nella scelta dei compagni, che non di rado erano alpinisti più giovani, meno esperti, a cui lei faceva da guida, e non mancavano le donne: nel 1898, per esempio, guidò Evelyn McDonnel nella traversata del Piz Palù. In omaggio alla sua prima assoluta sulla cima orientale del Bishorn le fu dedicata una Punta Burnaby. «Spesso mi viene chiesto perché si sale una montagna» ebbe a dire. «Ed è una domanda a cui è difficile rispondere in modo soddisfacente. È sempre una battaglia tra la montagna e l’alpinista, e con perseveranza, abilità, esperienza e coraggio si può cogliere una vittoria, anche se la lotta può essere lunga e si possono impiegare anni prima che una cima ti permetta di metterci piede sopra. L’alpinismo come scienza richiede un lungo perfezionamento».

Elizabeth Burnaby Main Aubrey Le Blond fu indubbiamente la più famosa alpinista del suo tempo. Molto scrisse, per riviste inglesi e americane, e molto scrissero di lei. Alla domanda di cosa pensasse della condizione della donna, rispose con aplomb aristocratico: «Donna? Credo debbano avere gli stessi diritti degli uomini. Certo… odio tutte le dimostrazioni rumorose». A guardarla, ritratta nel settembre 1896, seduta al limitare di un bosco a fianco della guida di Zermatt Joseph Imboden, accenna un sorriso soddisfatto e ha l’aria impeccabile della lady britannica, elegante ma sobria nel suo lungo tweed con maniche a sbuffo e cappellino. Contraltare a un paio che la immortalano come alpinista in azione, in pieno inverno con racchette da neve al Piz Morterasch e su una cima non ben identificata, vestita con giacchetta di tweed e immancabile cappello, ma con alpenstock in mano e gonna al ginocchio a coprire ben più comodi pantaloni. Tutte foto normali a paragone delle sue scattate in quota, a loro modo straordinarie. Esprimono tutta la forza della natura di montagna, in particolare quelle dei ghiacciai. Ingrid Runggaldier nel suo immenso lavoro Frauen im Aufstieg ne pubblica un paio, sul Morterasch e sul Ghiacciaio dei Forni: quest’ultima, ingentilita dalla surreale presenza umana di un uomo e una donna che si sporgono sul ciglio di un crepaccio, ha qualcosa di immanente e trascendente insieme, e ci conquista.

Quante le protagoniste di questa Golden Age dell’alpinismo. Tante davvero, e come abbiamo visto dense furono le loro vite, animate da temperamento indipendente, avventuroso, teso alla sfida con sé stesse e a godere di quel particolarissimo benessere fatto di gioia, soddisfazione e libertà che dà il salire le montagne, a dispetto della fatica, dell’asprezza del clima e dei pericoli. È ancora Elizabeth Aubrey Le Blond a sintetizzare al meglio questo sentire, che certo non è prerogativa di un genere, ma universale: «L’entusiasmo della lotta è ciò che rende la vita degna di essere vissuta; e in nessun luogo come la montagna ci si trova nel fitto della mischia, dove mente e corpo, insieme, devono esplicare le loro migliori energie per vincere le opposizioni della natura». Meglio non si sarebbe potuta polverizzare la presunta legittimità di tutti i limiti fisiologici e psichici sbandierati dai detrattori dell’alpinismo femminile.

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