Grandes Jorasses

Anche l’amico Igi Salza ci regala il bel racconto di una sua grande impresa alpinistica. Buona lettura …

Le Grandes Jorasses, annoverate tra le più belle montagne del mondo, possiedono un magico potere di attrazione e sono avvolte da un’aura di grande prestigio. Chi, aspirante alpinista medio, come il sottoscritto, non serba almeno qualche reminiscenza di lettura delle storiche conquiste che si sono realizzate sugli scoscesi versanti e sulle arcigne creste delle Grandes Jorasses? Così per me la salita della via normale alla cima Walker ha costituito per anni una delle massime ambizioni, degna di figurare a coronamento di un’intera stagione.
Dopo mesi di progetti e un po’ di allenamento su cime minori, Ettore ed io partiamo un venerdì di inizio Agosto diretti a Planpincieux, corroborati dalla consultazione dei sacri testi, la Guida Vallot e la Guida dei Monti d’Italia. Mangiamo un panino in un bar di Planpincieux col naso all’aria puntato alle Jorasses, su cui biancheggia una sfarinata di neve fresca. E poi ci incamminiamo. La monotona e cadenzata sequenza dei passi, la pineta, la pietraia con radi cespugli, l’attraversamento del torrente glaciale gonfio d’acqua, il ripido passaggio culminante in un breve tratto attrezzato. Poi la lunga morena, punteggiata qua e là di cardi e genziane, vera passerella sulle seraccate grigie e azzurre del Ghiacciaio di Planpincieux, e infine il Rifugio Boccalatte, aggrappato alla modesta superficie di uno spalto roccioso, il cui accesso è facilitato dalla presenza di provvidenziali corde fisse. Il piccolo rifugio è piuttosto frequentato per i suoi 30 posti.

Sveglia all’1 e partenza un’ora dopo, sotto una piccolissima falce di luna. Purtroppo Ettore sin dalla partenza lamenta un leggero malessere che, anziché dissolversi, peggiora col passare del tempo. Procediamo lentamente, finché, giunti alla base del Reposoire, egli desiste, dicendo che preferisce non essermi di ostacolo: non che mi induca a salir da solo, il che non sarebbe nelle mie capacità, bensì mi sprona a trovar qualcuno con cui legarmi e proseguire, mentre lui scenderà pian piano appena farà chiaro. Rinuncio anch’io, gli dico, seppure rodendomi l’anima, ma non riesco a immaginare una situazione simile. Ettore, con senso pragmatico, insiste perché almeno ci provi. Tra l’altro, mi ricorda, a tavola ieri c’erano almeno un paio di persone che erano salite, senza dubbio, da sole.

Alcune cordate ci han già superato, cercando di tener dietro ad una guida col suo cliente. A mano a mano ci raggiungono nel buio altre luci puntiformi, annunciate dal mordere regolare dei ramponi. Certo, sono roso dai dubbi e dai brutti pensieri. Rinunciare anch’io o tentare la sorte, così, letteralmente, al buio? Tutto dipende da chi trovo e da quanto l’intuito, l’istinto, mi suggerirà. Notiamo una luce approssimarsi isolata. Ettore la ferma e sento che parlottano in francese. E’ un solitario che accetterebbe volentieri di legarsi a me. Il fascio delle nostre frontali si incrocia e fa la sua apparizione Pierre. La comunicazione sulle prime non è delle più semplici: io mastico poco il francese e lui niente affatto l’italiano. E’ belga, squadrato, rubicondo, non ha casco né corda né martello, ma ha il sacco pieno di attrezzatura fotografica. Mostra una grinta d’acciaio nonostante i suoi sessant’anni. Certo è una scommessa. Uno che sale così per affrontare le Josasses… o è uno forte o è un cretino. Per rincuorarmi mi dico che certi incontri alla luce delle frontali devono essere per forza forieri di successo. Supero l’empasse e decido di tentare, proponendomi di valutare qui sopra, alle prime difficoltà sul Reposoire, le capacità del compagno che, legandosi alla mia corda, mi delega con totale fiducia la conduzione della salita.

Attacchiamo buoni ultimi mentre le altre luci sono già misteriosamente scomparse alla nostra vista. Qualche passo scabroso al buio non aiuta a rilassarmi. Non vedo Pierre, c’è soltanto la corda che scorre. Pierre, col quale mi intendo con pochi termini tecnici imparati in fretta, in effetti va al mio passo, non si lamenta, anzi ogni tanto per rassicurami, e magari per rassicurasi, urla che è ok, che va tutto bene. Dopo lo zoccolo iniziale lo sperone si abbatte. Nonostante l’apparente superficialità con cui pensava di salire la montagna da solo, devo constatare che Pierre sembra a suo agio. E’ attento, sale con precisione e calma. Sono sollevato. Alla sommità dello sperone ricalziamo i ramponi per attraversare il largo ed esposto couloire Whymper fino al gran diedro-canale alla base degli omonimi Rochers. Ci sono delle buone tracce, la neve è durissima e tutto tiene. Sta schiarendo. Possiamo vederci in faccia e sorriderci.

Pierre sei un grande! I massicci alle nostre spalle si accendono di rosa e di arancio, mentre la valle, 2000 metri più in basso, è ancora avvolta nella notte. Il plateau del Ghiacciaio delle Jorasses, sotto il famoso seracco pensile, ci concede un lungo momento di relax. Raggiungiamo alcune delle comitive che ci precedono. La cresta finale di misto, che inizia poco sopra i 3900 m, è abbastanza facile e conduce rapidamente alla candida calotta sommitale, sospesa sulla vertiginosa muraglia della nord, dove ci riuniamo con il resto delle cordate. Sono le 8.

Impieghiamo più di sei ore a scendere. Le comunicazioni con il mio compagno, tutt’altro che laconico, mi impegnano quanto i movimenti, in un ambiente reso ora infido dalla neve molle. Scomoda manovra per calzare i ramponi alla base dei Rochers Whymper, in bilico contro una lastra di ghiaccio, assicurati ad un unico chiodo a cui appendiamo attrezzi e sacco. Il traverso del canalone Whymper è difeso da due crepacci ora un po’ delicati. Al Repoisoire mettiamo giù due doppie nei punti critici.
Il lungo ghiacciaio che fiancheggia La Bouteille, nonostante le evidenti tracce, conserva le insidie di piccoli buchi coperti di neve molle. Chiedo ora a Pierre, piuttosto robusto, di mettersi lui dietro, pronto a sostenere una mia eventuale scivolata. Difatti, di lì a poco, non scivolo, ma entro con tutta la gamba in un buco che mi si è aperto d’improvviso sotto i piedi. Pierre mi tiene. Non penso che mi ci sarei infilato del tutto, tuttavia la corda tesa mi aiuta non poco a venirne celermente fuori.
Poco sopra il rifugio incontriamo Ettore venutoci incontro. Si è ripreso, sta molto meglio. Alle 15,30 siamo in rifugio. Mi levo di dosso il sacco e la ferraglia e li abbandono sul ballatoio della capanna. Mangio qualcosa, abbraccio Pierre, con cui ci siamo scambiati gli indirizzi e che prosegue subito la discesa, e mi butto su una cuccetta, dove mi addormento all’istante. Mi sveglia Ettore poco prima delle 17. Ho dormito appena un’oretta, ma dobbiamo ancora scendere a Planpincieux. Dalla ferraglia è sparito il bel martello giallo da roccia e ghiaccio. Pazienza. Un tributo all’impresa.

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