Montagna scuola di vita

In questo articolo d’opinione, Carlo Crovella espone le fondamenta ideologiche della sua più che cinquantennale passione per la montagna, con l‘auspicio che il messaggio possa rifiorire anche ai giorni nostri, maggiormente caratterizzati dall’approccio “sportivo” alle montagne

Chi prima chi poi, ad un certo punto dell’esistenza si scavalca uno spartiacque esistenziale, oltre il quale la tendenza a stilare bilanci prende il sopravvento sulla propensione ad elaborare nuovi programmi. Molteplici sono le variabili che determinano il timing di questo evento e l’età anagrafica non sempre è quella determinante.
I miei recenti problemi di salute, con relativa fermata ai box, hanno creato le condizioni per un lungo periodo di riflessioni. In realtà più che stilare bilanci, in questa fase ho messo in ordine i concetti, li ho ripuliti dalle incrostazioni dovute al tempo, provando un rinnovato piacere a ponderare su alcuni temi.

Quando si spolverano gli scaffali della libreria, capitano in mano libri letti molto tempo fa: immediato riemerge lo stimolo a riaprirli, a scorrere l’indice, a soffermarsi su pagine particolari.
Chi mi conosce sa che, essendo nato in una famiglia di appassionati di montagna, sono stato spinto prestissimo verso l’alpinismo (inteso come frequentazione della montagna a 360 gradi) e così, a ridosso dei 60 anni anagrafici, posso dire di aver accumulato cinquant’anni abbondati di ininterrotta esperienza sui monti.

Con mio padre Umberto, il mio primo Maestro di montagna, alla Cima del Bosco, primissimi anni ’70 (Foto Arch. C. Crovella)

A volte con gli sci, a volte senza, per sentieri, ghiacciai, pietraie ed anche su rocce verticali, lungo cascate ghiacciate o dentro ai torrenti. Ho dormito in baite abbandonate, nei prati, sulle morene, in bivacchi incustoditi ed anche in rifugi gestiti.
Non mi considero un top climber, anche se a cavallo dei miei 25-30 anni ho realizzato qualche performance di rilievo, sia con gli sci (discese di canali nell’ambito dell’allora nascente sci ripido) che su roccia e ghiaccio.
Dalle Calanques marsigliesi fino alla vetta del Monte Bianco non mi sono fatto mancare proprio nulla.

Con Walter Bonatti (il primo a sn) e mio padre Umberto Crovella, in una convention del CAI, metà anni ’70 (Foto Arch. C. Crovella)

Ora che, fermo ai box, dispongo di tempo per lucidare i concetti (come se fossero dei pomelli di ottone), mi sono chiesto in che cosa consista veramente l’importanza della montagna nella mia vita.
Nell’attività atletica? Certo, ma ho praticato anche molti altri sport (dalla scherma al canottaggio), che mi hanno fatto gioire mentre sentivo i muscoli tirare e riempirsi di acido lattico.
Nella soddisfazione per le performance realizzate? Non nego che scendere un canale ripido o innalzarsi per una parete verticale si siano spesso tradotti in una notevole autogratificazione, ma non è ancora questo il punto nodale.
Nella condivisione con gli amici di belle giornate all’aria aperta? Anche questo risvolto ha la sua importanza, ma una cena o una bel giro in bici possono rispondere adeguatamente alle esigenze ricreative e sociali, senza scomodare la montagna.
Sarà dunque la vena esplorativa, quel voler girare dietro l’angolo per metter il naso in un nuovo vallone, su una parete, in un canale? Ovvio che il gusto della scoperta ha per me una notevole importanza, ma non è l’unica ambizione di pregio.
Ancora: sarà forse il risvolto culturale, cioè il saper conoscere le montagne da ogni lato, apprendere la loro storia, scrivere e leggere su di loro e sui personaggi che le hanno frequentate? Indubbiamente è un elemento tutt’altro che secondario, ma non è l’essenza chiave.
Forse il coinvolgimento nella natura e il rispetto dell’ambiente? Anche questo fattore esiste nella mia vita, ma – ancora una volta – non è il motore principale della “mia montagna”.
Potrebbe forse essere il piacere di aver insegnato a decine di allievi in quarant’anni abbondanti di attività didattica intrapresa in scuole diverse sia per attività (alpinismo, scialpinismo, canyoning…) che per contesti umani? Non nego che sia un indiscutibile piacere veder crescere fra le proprie mani le nuove generazioni, ma non è l’unico valore del mio frequentare i monti.
La mia passione per le montagne coinvolge tutti questi aspetti, mixandoli a dovere, ma il cuore pulsante è ancora un altro.
Per approssimazioni successive sono infine arrivato a focalizzare che la frequentazione della montagna ha per me un’importanza così rilevante perché attraverso l’esperienza della montagna ho potuto costruire una marcata personalità caratteriale, che ha segnato tutta la mia esistenza.
Ecco, questo è ciò che io definisco il senso etico della montagna. Montagna intesa come scuola di vita, come terreno psicofisico dove acquisire elementi, qualità, valori che si estendono poi all’intero nostro stare al mondo.

Carlo ed Elena in vetta alla Ramière (Foto Arch. C. Crovella)

La vita mi ha proposto alcune difficoltà di rilievo. Tali difficoltà avrebbero potuto rivelarsi anche più numerose e molto più provanti, ma possiamo già dire che lo sono state in misura significativa.
Ebbene la tenacia, la caparbietà, la determinazione, grazie alle quali ho affrontato le difficoltà del vivere, si sono formate in me durante le esperienze vissute in montagna. Quando, seppur esausto, ho imparato a stringere i denti per giungere in vetta, proprio allora si sono forgiate quella tenacia, quella caparbietà, quella determinazione.
Ma l’esperienza della montagna aiuta anche in risvolti della vita non necessariamente tragici o impegnativi. Per esempio ho imparato a scegliere a tavolino l’itinerario coerente con le condizioni del momento, a saperlo seguire sul terreno, modulandolo però sulla base dei messaggi che lanciava la montagna. In parole semplici ho imparato ad alternare desiderio (di completare la gita) e lucidità (di saper valutare freddamente la situazione).
L’abilità di condurre adeguatamente la barca, dalla programmazione alla realizzazione delle gite, aiuta sensibilmente nella vita di tutti i giorni.
Parallelamente ho imparato a fare lo zaino, calibrando il compromesso ottimale fra la necessità di disporre di un adeguato contenuto (anche a fronte di eventi imprevisti, come un bivacco non programmato) e l’antitetico obiettivo di non gravare troppo sulle spalle.
Saper ipotizzare le situazioni di emergenza, avendo con sé gli strumenti per fronteggiarle, mi è servito moltissimo nella mia vita professionale, quando per esempio ho preparato le riunioni di lavoro oppure ho impostato trattative di ogni tipo.
Avere già in testa un “piano alternativo”, da sfoderare all’occorrenza (in più sapendolo modulare in base ai feedback della situazione in corso), inevitabilmente deriva dall’approccio mentale affinatosi con l’esperienza della montagna.

Quanta strada in questi 50 anni abbondanti… (Foto Arch. C. Crovella)

Anche sapermi adattare a contesti disagevoli è un’eredità del mio andar per monti: quando, imberbe adolescente, mi sono trovato a dormire in una baita abbandonata o in una truna scavata nella neve, ho imparato a saper affrontare, il giorno dopo, un bel “gitone”, avendo alle spalle solo una cena con minestra Knorr confezionata sul Camping Gas ed una colazione con il tè riscaldato nel pentolino non lavato.
Durante le mie avventure sui monti, sia con gli sci che su roccia e ghiaccio, ho anche imparato a cogliere i messaggi che mi fornivano, di volta in volta, il mio fisico e la mia psiche, arrivando a gestire la mia “macchina” in modo ottimale rispetto alle condizioni di quel particolare momento.
Da allora applico un approccio analogo in ogni mia giornata, di lavoro, di svago, di impegni vari.
Tutto ciò (e molto altro ancora) costituisce quell’arricchimento personale che si può ottenere grazie alla montagna.
Per questo mi riconosco perfettamente nel detto “Montagna scuola di vita”. Anzi mi riconosco a tal punto che, senza voler cancellare l’importanza degli altri risvolti, ritengo che questo specifico aspetto rappresenti il valore più profondo dell’alpinismo.
La montagna è un contesto bellissimo, ma dove non si può sgarrare né bluffare, perché le regole le stabilisce la montagna stessa. Imparare a non trassare è il vero insegnamento etico della montagna.
Per acquisire tutti questi elementi e recepirli nella quotidianità non è necessario che la frequentazione dei monti si sviluppi su elevati livelli di impegno e di rischio.
In altri termini non sono solo i top climber che riescono a costruirsi una personalità di spicco grazie alla montagna. Anzi, proprio la mia esperienza personale è una conferma che anche l’attività da alpinista “medio” permette di evolversi in questa direzione. Ovviamente ci deve essere la disponibilità individuale in tal senso, se non addirittura la ricerca prioritaria di questo obiettivo.

Sul Monte Rosa (Foto Arch. C. Crovella)

E qui giungono le note dolenti: l’attuale società che ci circonda esprime (in tutti i settori) l’ambizione di garantire il massimo del divertimento con il massimo delle sicurezza e del comfort.
In pratica il perno basilare è la deresponsabilizzazione individuale: c’è sempre qualcun altro che provvede alla tua sicurezza o al tuo comfort, tu devo solo pensare a divertirti al massimo.
Tralascio l’analisi delle cause che spingono l’intera società in tale direzione, ma per la montagna sono brevemente sintetizzabili: più persone euforiche corrispondono a più consumi (di materiale, di abbigliamento, di oggetti innovativi…) e questo “spinge” inesorabilmente in una certa direzione.
Anche il modo di trascorrere le giornate in montagna è notevolmente virato verso livelli consumistici: ormai quasi nessuno si porta i viveri nello zaino ed anzi la cucina “stellata” è diventata un’attrazione dei rifugi più importanti.
Di conseguenza chi, di recente, si avvicina alle montagne lo fa con uno stile “mordi e fuggi”, uno stile che inevitabilmente comporta un minor coinvolgimento esperienziale e, quindi, esistenziale.
Ovviamente non è colpa di qualcuno in particolare se la società negli ultimi decenni si è modificata nella direzione descritta. Ma tutto ciò comporta una differenza profonda nel rapporto con i monti: per molti alpinisti quello di oggi è un semplice sport, non è più una passione che dura tutta la vita.
L’approccio sportivo alla montagna è assolutamente legittimo, se ragioniamo in termini di libere scelte individuali, ma stride agli occhi di chi, come me, nelle montagne vede l’origine della propria visione etica.
Se da un lato sarebbe antistorico contrapporsi all’evoluzione dei tempi, dall’altro riproporre la montagna come scuola di vita trova una profonda giustificazione proprio nel fatto che raramente, oggi come oggi, la si presenta in tale veste: magari, fra le persone che di recente si sono avvicinati ai monti, qualcuno si sarebbe anche riconosciuto in tale impostazione, se solo avesse avuto l’occasione di imbattersi in qualche proposta del genere.
Nell’odierno contesto sociale, quella descritta sembra una sfida perdente, ma io non smetterò mai di riproporla, perché coltivo la speranza che qua e là il seme possa di nuovo germogliare e rifiorire in pieno.

Val Thuras innevata: silenzio e solitudine (Foto Arch. C Crovella)

(già pubblicato su Monti e Valli, maggio 2019)