Franco Perlotto: Le campane di Sant’Andrea

Anche l’amico Franco Perlotto,  alpinista scrittore e tanto di più, ci regala alcuni racconti per trascorrere piacevolmente questi momenti in cui #IoRestoaCasa  … Ecco qui il primo, buona lettura!

Franco Perlotto

Il sole picchiava a perpendicolo sulle teste ricurve degli uomini, ricoperte dai cappelli di paglia, come in ognuna delle estati degli ultimi dieci anni. Sui campi in pendenza a luglio di solito c’era poco da fare. Passato il raccolto del grano, non restava che attendere la vendemmia che lassù era comunque tardiva. Il sole era così forte in quei giorni che gli uomini furono costretti ad uscire fino al pozzo vecchio, che sprofondava per trenta metri in mezzo agli arbusti di sorgo, rinsecchiti dalla canicola. Le crepe nella terra disegnavano fulmini tra nubi marroni di un temporale che tutti attendevano come un dono del cielo. Ma in quell’estate nulla fece supporre che si volesse assopire l’angoscia dell’esasperante lentezza dell’erba che ormai non poteva più crescere. Il sudore scivolava lento dentro ai solchi scavati sui volti tesi dei montanari, oppressi dallo sforzo di caricare in schiena i tubi dell’acqua, attraverso l’arso dei campi, su fino agli orti, dove perfino le zucche avevano tentato di appassire.

Quando il sole sarebbe calato, gli uomini avrebbero dovuto irrigare gli orti, altrimenti sarebbe morto tutto. Il comune aveva proibito di usare l’acqua pubblica: ce n’era così poca, che bastava appena per la sete dei cristiani. Quando alla cascina era arrivato l’acquedotto comunale, tutti avevano pensato di aver risolto le fatiche di mille anni. Per fortuna, a nessuno era passato per la testa di chiudere il vecchio pozzo collettivo, che si infilava sotto terra, proprio al centro delle proprietà. La famiglia dei Marana, per pura prudenza montanara, aveva conservato la pompa a mano che si usava da prima della guerra. I tubi di profondità c’erano già, installati da almeno cinquant’anni. Era bastata un po’ di stoppa e una ditata di grasso per riuscire ad avvitarli all’attacco vecchio della pompa.

Un secco come in quei giorni non si era mai visto. Negli ultimi tempi, anno dopo anno, il clima era peggiorato. L’aria era diventata così secca che il sudore bruciava negli occhi come l’acido per lucidare gli ottoni.

“Colpa del lavoro in fabbrica”, aveva detto Piero Scorlon. “La pelle assorbe i veleni e poi li ributta fuori”. Tutti lavoravano in fabbrica e avevano scelto la rotazione dei turni. Così bene o male restavano sempre quelle quattro o cinque ore al giorno per portare avanti il lavoro dei campi.

“Don, don, don”, si sentì all’improvviso rimbombare giù per le colline.

“E’ già mezzogiorno”, sbraitò Leone Berton. “Alle due comincio il turno. Devo andarmene”.

“Don, don, don”, continuò a riecheggiare per i campi pendenti.

Leone Berton infilò una mano in tasca dei pantaloni e tirò fuori l’orologio a cipolla. Lo fissò per un lungo istante e mormorò:

“Non sbaglia mai un secondo”. Si portò la mano sotto al cappellaccio e grattò frettolosamente i capelli fradici di sudore. Poi tornò a mormorare tra sé.

“Povero ragazzo”, disse, “non sbaglia mai un secondo”.

Dal cortile affollato di galline in quel meriggio incandescente, Mario Grumo urlava lo scampanìo come ad ogni mezzogiorno esatto di ogni giorno dell’anno.

“Don, don, don”, gridava. La lingua fuori dallo sforzo, gli occhi sbarrati, la bocca tirata in una smorfia.

“Come farà?”, disse Bepi Marana. “Come farà?”, ripeté subito dopo con più mestizia.

“Non sbaglia mai un secondo”, fece eco ancora una volta Leone Berton. Poi, con un gesto delle spalle si scosse dal tormento. Prese nei polmoni tutto il fiato che poté e gridò:

“Basta. Non ne posso più di ascoltarti”.

“Don, don, don”, gli fece eco Mario, senza nemmeno sentirlo.

La mano ruvida di Bepi Marana s’appoggiò sulla spalla di Leone, mentre dalla bocca non uscì nemmeno un respiro. Gli occhi di Leone brillarono all’improvviso, gonfi come una nube di quel temporale che ormai tutti sognavano. L’uomo si scosse la mano di dosso e a passo veloce infilò la stradina di sassi che portava su verso il capitello di Sant’Andrea, poco sotto il cortile della cascina. Gli altri uomini lo seguirono con passo cadenzato, senza emettere una parola.

Da trent’anni ormai, Mario Grumo gridava il suono delle campane tutte le mattine alle sei in punto, tutti i mezzodì e tutte le sere all’ora del vespro. Aveva dieci anni quando all’improvviso s’era messo a strillare nell’aria. Non aveva mai avuto un orologio e da lassù nemmeno poteva sentire i rintocchi del campanile del paese. Come facesse ad essere così preciso, se l’erano chiesto in tanti. L’avevano portato dai dottori. Da quelli della mutua, perché col lavoro dei campi e con i turni in fabbrica non si potevano permettere altro in contrada. Avevano contribuito tutte le famiglie per cercare di guarire quel piccolo. Il più prodigo di tutti era stato lo zio Leone. Ma non erano riusciti a combinare nulla. Alla clinica avevano detto che non era pericoloso, ma che sarebbe stato così per tutta la vita.

Mario era felice, o almeno lo sembrava. Aiutava la vecchia madre a mantenere in ordine la casa e collaborava ai lavori della stalla. Spesso le aveva detto:

“Sono contento di stare con te. So che mi vuoi bene. Anch’io ti voglio bene”. La vecchia si ripiegava allora ancora di più sulle spalle cadenti sotto il peso degli anni e lo abbracciava. Ma non riusciva nemmeno a buttargli le braccia al collo, tanto lui era grande e lei ormai rimpiccolita dal tempo e dalla sofferenza.

Mario girovagava per le contrade con le braccia penzoloni che scendevano nodose dalle spalle larghe. Tutti lo conoscevano e tutti lo salutavano. In fondo tutti gli volevano un po’ di bene. Era alto poco meno di due metri e quando passava per i campi la sua mole sovrastava chiunque. Ogni tanto s’incaricava di fare qualche lavoro. Andava a raccogliere la legna o aiutava a girare il fieno. Ma poi, all’improvviso, gli veniva in mente di andare a fare qualcos’altro e partiva con la testa ciondolante tra le spalle, immerso in chissà quali pensieri. Gli uomini avevano provato a gridargli dietro, a dirgli di stare lì con loro.

“Un po’ di fatica farebbe bene anche a lui”, aveva commentato Leone.

Mario non si sentiva addosso il giogo di quelle campane che gridava puntuale tra le colline e nemmeno quello dei volti di compassione dei vicini, quando contorceva la faccia in beate espressioni di felicità. Lui si sentiva appagato, mentre seguiva la madre in giro per l’aia cercando di aiutarla nei lavori più inutili. S’intristiva soltanto quando c’era da tirare il collo a qualche gallina. Non ne aveva mai voluto sapere di assistere al rito della domenica. Non avrebbe mai ucciso una gallina e nemmeno un altro animale, per nessuna ragione al mondo.

Da qualche tempo aveva preso ad andare su fino al paese. Scendeva sotto il capitello di Sant’Andrea e tagliava per i campi, così i chilometri diventavano tre invece dei cinque della strada. All’inizio i fratelli si erano preoccupati, ma dopo averlo seguito un paio di volte si erano tranquillizzati. Si fermava per un po’ alla pietra miliare all’incrocio con la strada vecchia, poi passava per la contrada dei Cereda e saliva ansimando fino alla chiesa parrocchiale. Stava lì sul sagrato a guardarsi un po’ in giro e poi se ne tornava a casa. Da qualche mese, la frequenza di quel vagare s’era infittita, ma nessuno s’era più preoccupato.

Su dai Cereda c’era una fontana, dove le lavandaie, inginocchiate sulla pietra a sbattere i panni, erano sempre indaffarate in eterne chiacchiere. Mario Grumo qualche volta s’era seduto sul bordo della vasca per osservarle e ascoltarle. Tutte conoscevano quell’omone e di tanto in tanto sentivano il suo scampanio nell’aria arrivare fino a loro. Di lì si poteva sentire anche il campanile del paese che spesso batteva le ore in ritardo. Così da anni ai Cereda la gente si regolava con l’ora di Mario, la più precisa. Le donne facevano sempre volentieri due chiacchiere con lui. “Ciao. Come stai? Dove stai andando?”. Gli parlavano come fosse un loro figlio di quattro anni. Ma poi i lavori di casa le costringevano a rientrare, mentre lui se ne tornava a vagare per i campi.

Regina invece aveva più tempo delle altre e talvolta si gingillava a conversare con lui. Forse perché avevano la stessa età, forse perché lei non aveva mai parlato con un uomo che non fosse stato suo fratello o suo padre. Regina non era una donna brutta, ma non aveva mai fatto nulla per sembrare bella. Le linee dolci del viso erano arrotondate qua e là da qualche chilo di troppo, ma non era grassa. Gli occhi risaltavano dal volto come l’onda della fontana sollevata dallo sciacquare dei panni, quando questa andava a rispecchiare il cielo. Regina non si era mai vestita bene, non si era mai sciolta i capelli in pubblico, nemmeno quando se ne stava ore e ore a lavare alla fontana. Così gli uomini non l’avevano mai guardata.

Col passare dei giorni fu sempre di più il tempo che Mario passava a chiacchierare alla fontana con Regina. Quando lui arrivava, le altre donne a poco a poco raccoglievano i loro panni e li lasciavano da soli. Dopo quasi un mese che alla fontana le visite di Mario s’erano infittite, Regina venne presa in disparte da suo padre.

“E’ matto, non dargli troppa corda”, le disse. “Nessuno sa come possa comportarsi quel povero ragazzo”.

“Ho quarant’anni, papà. So come arrangiarmi nella vita”. A quella risposta il padre capì di colpo che c’era qualcosa di più che una pura simpatia.

Mario suonava le campane più a lungo in quei giorni. A mezzogiorno in particolare lo scampanio gli usciva dalle labbra per oltre mezz’ora, facendo impazzire i vicini di rabbia e di compassione. Un mattino di quell’estate, dopo lo scampanio delle sei, come non accadeva da anni ormai, Mario vide salire sul fienile la vecchia madre. La vide trascinarsi su per la scala a pioli, appoggiandosi ai travi, mentre cercava con gli occhi la sagoma tozza del figlio. Sapeva che lassù c’era il suo nascondiglio preferito e vi si inerpicò lenta, guardinga per non cadere. Quando la donna giunse a calpestare il fieno, Mario s’innervosì per l’improvvisata. La madre gli sorrise e lui si calmò subito.

“Ieri sera è venuto qui Luciano Cereda, con suo padre Domenico”, disse la vecchia, mentre deglutiva inutilmente la saliva. “Ai Cereda non piace che ti fermi troppo a chiacchierare con Regina”. La donna cercò di addolcire ogni espressione del viso per non ferire il cuore del figlio. Ma la circostanza le imponeva di essere ferma e decisa.

“Mario, fai il bravo”, gli disse piegando la testa da un lato. “Non disturbare più Regina, quando lava alla fontana”.

Mario abbassò lo sguardo e lasciò penzolare la testa incassata tra le spalle enormi. Poi sussurrò:

“Le voglio bene”.

La madre non lo vide nemmeno in volto. Distinse soltanto le spalle massicce che emergevano dal mucchio di fieno nel quale s’erano infossate, mentre si piegavano sempre di più, curvandosi in loro stesse. Le si spezzò il cuore e credette di morire.

“Voglio crepare,” mormorò. “Ora”. Ma nessuno la sentì.

Passò qualche giorno, prima che Regina si accorgesse che Mario non passava più di lì. Poi capì tutto. Trascorse ancora una settimana, dove ogni dubbio le offuscò la mente, finché una certezza si fece strada nel cuore. Le lavandaie non avevano più osato parlarle, lasciando che il trascorrere dei giorni dissolvesse il dolore che era in lei. Ma non passò molto tempo, che la videro sorridere di nuovo. Gli occhi le brillarono all’improvviso, come il riflesso della rugiada sugli aghi di mugo. Non disse nulla, nemmeno col cuore, ma le altre donne avevano capito già.

In quei giorni Mario aveva continuato ad allontanarsi da casa nelle ore che correvano tra i rintocchi dell’alba e quelli di mezzogiorno. S’era spinto oltre la piazza della chiesa e più volte era salito da solo sulla cima dello scoglio di roccia, dove svettava il campanile. Gli piaceva ascoltare il suono dell’orologio e il tocco della mezz’ora tanto diverso da tutti gli altri. C’era un giovane che frequentava quei posti. Un ragazzo alto e slanciato che andava ad allenarsi sulla roccia sotto al campanile per le scalate sulle montagne. Mario l’aveva osservato bene, mentre si librava leggero volteggiando da un appiglio all’altro, avanti e indietro per la parete strapiombante. Lo aveva guardato entusiasta ed era rimasto incantato per ore ad osservarlo. Più di una volta, quando era sceso dalle rocce, il ragazzo gli aveva sorriso. Mario aveva sempre abbassato gli occhi e aveva fatto ciondolare la testa di qua e di là. Poi se n’era andato.

Il campanile non aveva ancora finito di battere i nove rintocchi del mattino che il sole già bruciava nell’aria. Gli uomini erano già sui campi per spostare i tubi verso un altro orto, in attesa di poterlo innaffiare quando, di sera, la calura scemava. Mario era con la testa penzolante da un lato, sotto la roccia del campanile a rimirare lo strapiombo stagliato contro le foschie del mattino. L’eccitazione gli fece muovere le braccia intorno al corpo, rapide come i seggiolini di una giostra delle catenelle. Poi riabbassò la testa e infilò la strada per tornare verso casa. Appena fatti tre passi, come preso da un sussulto, sollevò lo sguardo. In fondo alla via di sassi, come la luna quando di notte esce all’improvviso dal crinale del monte dietro alle baite, vide apparire Regina con un sorriso disteso incastonato nel volto. Fece quattro passi indietro e dalla paura andò a sbattere di schiena contro la parete di roccia. Regina avanzò verso di lui e gli sussurrò:

“Passavo di qua”.

“Non posso parlare con te”, rispose Mario con le braccia aperte e le spalle appoggiate alla roccia.

“E’ tanto che non ti vedo”, disse titubante. “Come va l’arsura nei campi?”.

“Stiamo pompando dal pozzo vecchio”, replicò Mario spaurito.

“Le mucche stanno mangiando il fieno. Come d’inverno”, bisbigliò Regina.

“Sono felice”.

“Perché?”, chiese la donna.

“Perché parlo con te”, disse Mario. Ma si vergognò di ciò che aveva detto e si girò di scatto verso la roccia.

All’improvviso, s’allontanò di un passo dalla parete e guardò la pietra intensamente con gli occhi che ne scrutavano ogni piega. Poi appoggiò tutte e due le grandi mani sulla roccia e iniziò a salire.

“Cosa fai?”, chiese Regina spaventata.

“L’ho visto fare da un ragazzo”, rispose Mario con un filo di voce.

“Non farlo”, implorò Regina, “torna giù”.

“E’ molto bello. Lo faccio per te”.

“Scendi, ti prego”, urlò la donna. Ma di colpo il fiato le si fermò in gola e non poté più parlare. Mario ormai non la sentiva più. Tutto il corpo era concentrato a sollevare i piedi e le mani nei posti esatti dove sapeva che c’erano gli appigli. L’aveva visto fare da quel ragazzo e non poteva sbagliare. La roccia era alta diciotto metri e Mario puntò dritto verso la cima, dove s’apriva una spaccatura profonda. Saliva lento muovendo qua e là il corpo possente. Aveva movimenti coordinati, in un’armonia che Regina nemmeno immaginava in lui.

L’urlo di Regina fece uscire la perpetua dalla canonica della chiesa parrocchiale. Appena la donna vide Mario arrampicarsi già a metà della parete, iniziò a urlare come una pecora abbandonata dal gregge.

“C’è il matto che scala”, gridava. “Si ammazzerà, si ammazzerà”.

Il prete uscì di corsa e con lui il sagrestano.

“Presto, presto”, belò la perpetua. “Mario Grumo è sulla roccia. Quello s’ammazza”.

Regina fu paralizzata dallo spavento e dalla vergogna. Se non fosse andata a cercarlo, Mario non l’avrebbe fatto di scalare la roccia del campanile, pensò. Piangeva, ma non riusciva più nemmeno a dirgli di tornare giù. Mario, in fondo, stava scalando proprio per lei e nessuno aveva mai fatto nulla di importante, soltanto per lei. L’uomo si arrampicava lento, barcollante nella mole immensa. Le mani si aggrappavano alla roccia con una forza che non pareva nemmeno sua. Il volto di Regina si impietrì. Le labbra le si sollevarono in una smorfia di sorriso, come in una di quelle espressioni che spesso l’angoscia impone.

Alla base della spaccatura della roccia c’era una sporgenza grande come un comodino. Le mani di Mario vi si appoggiarono sopra, ma il grande corpo ebbe uno scatto improvviso, come se volesse staccarsi dalla parete. Regina nemmeno deglutì. Poi Mario, piano piano riuscì a sedersi sopra. Quando si rese conto che stava guardando i dieci metri che aveva già scalato, si girò di nuovo verso la roccia e fece per prendere un appiglio sul bordo della spaccatura. Ma non ci riuscì. Allora tornò a guardare verso valle e preso da sgomento cercò di accovacciarsi meglio che poté sul piccolo ripiano, mentre le gambe gli caddero a penzoloni.

“Fermo, non muoverti”, gli ordinò il prete. In quell’istante comparve il sacrestano con la scala. L’appoggiò alla roccia, ma non raggiungeva nemmeno un terzo della parete che Mario aveva scalato. Pochi minuti dopo arrivarono i carabinieri. Era stato il parroco a farli chiamare. Dalla loro macchina scese il ragazzo che scalava, con uno zaino di corde e moschettoni.

“Vengo a prenderti”, gridò il ragazzo. “Non preoccuparti”.

Mario era bloccato sul terrazzino e non emetteva un solo respiro. Aveva sgranato occhi grandi che nemmeno Regina aveva mai immaginato. La donna era muta e immobile nel vestito da passeggio che s’era messa per l’occasione. Lo scalatore scomparve tra le acacie del bosco per raggirare la roccia e calare una corda dall’alto. In quell’istante arrivò la madre di Mario, accompagnata dai fratelli. Guardò la roccia e la voce le si bloccò in un soffio lieve.

“Mario”, disse.

Appena la vecchia donna vide Regina, le andò vicino e l’abbracciò con tutte le forze che le erano rimaste. Poi entrambe assunsero lo sguardo di pietra della paura. Nella stradina era arrivata anche un’ambulanza e gli infermieri s’erano avvicinati ai carabinieri a parlottare sottovoce.

Ad un tratto lo scalatore comparve in cima alla roccia e iniziò a scendere lungo la parete. Tutti si zittirono. In quattro salti veloci lungo la corda il ragazzo raggiunse il terrazzino dov’era Mario. Senza lasciare passare nemmeno un minuto, gli annodò la corda intorno alla vita, fece un’asola e l’agganciò con un moschettone ad un chiodo che c’era appena sopra, già piantato nella roccia.

“Ho paura”, mormorò Mario.

“Con me sei al sicuro”, lo incoraggiò il ragazzo con un fruscio della voce. Poi gli dette una leggera pacca di solidarietà sulla spalla.

Tutti erano ammutoliti, giù sotto la roccia. Il ragazzo era svelto nelle manovre e dopo aver ritirato la corda dall’alto, si mise rapido ad ancorarla sopra al terrazzino. Poi, piano piano, si vide il corpo di Mario, con le mani aggrappate alla fune che lo stringeva sotto le ascelle, scendere lento verso la base della parete. I piedi toccarono terra che il campanile iniziò a battere mezzogiorno. Mario non suonò quel giorno e se ne rimase ammutolito dritto in piedi alla base della roccia, mentre uno dei carabinieri gli slegava la corda da sotto le braccia. Nessuno parlò. Il parroco gli si avvicinò e gli mise una mano sopra alle spalle. Poi lo accompagnò per qualche passo verso la strada. Quando fu ad un metro dall’ambulanza un infermiere aprì la porta, mentre l’altro accompagnò le lunghe braccia di Mario dietro alla schiena. Dopo un istante lo fecero sedere sulla lettiga e tutti si accorsero che le mani gli erano state legate. Mario alzò gli occhi e li puntò sbarrati in cerca di quelli di Regina e di sua madre. Le due donne sentirono scorrere sulla schiena la paura che lo terrorizzava. Più ancora di quando, poco prima, era seduto a metà della parete di roccia. Una sola voce uscì dal loro fiato, come fosse un unico fruscio del vento:

“Mario”, dissero. Poi d’istinto si toccarono la mano.

L’ambulanza partì lenta lungo la strada, senza neppure accendere la sirena. Per Mario Grumo, non c’era più nessuna urgenza. Una goccia di sudore scivolò dai capelli di Regina, bagnati da quell’estate infernale, fino a scorrerle lenta dentro agli occhi. Poi si unì ad altre gocce che piano piano andarono ad infilarsi tra le labbra già salate. Sulle colline incandescenti il sole bruciava ogni cosa, ma le campane di Sant’Andrea non suonavano più.

Lascia un commento