Enrico Camanni: Il Rocciamelone, un voto di settecento anni fa

Altra puntata con la pubblicazione di brani tratti dai libri dell’amico, giornalista e scrittore, Enrico Camanni …. E’ la volta di questo tratto da “Di roccia e di ghiaccio. La storia dell’alpinismo in 12 gradi”, Laterza 2013

Molto è stato scritto a proposito, e soprattutto a sproposito, della salita di Bonifacio Rotario d’Asti al Rocciamelone, nel 1358. Spesso la leggenda e la fantasia hanno prevalso sulla storia e su quei pochi documenti che certificano, e solo in parte spiegano, la seconda impresa «alpinistica» del Trecento su una cima molto più alta del Ventoso del Petrarca, e anche più impegnativa.

Il cognome corretto del protagonista non è Rotario ma Roero, di nome Bonifacio. Il giovane apparteneva alla casata dei Rotarii, già presenti ad Asti dalla seconda metà del dodicesimo secolo. Il medievista Renato Bordone scrive che

il padre di Bonifacio, Daniele, aveva esercitato il prestito del denaro nella città fiamminga di Gand e anche il figlio appare impegnato nei Paesi Bassi in tale attività… Alternando gli interessi all’estero con quelli in patria, Bonifacio negli anni Cinquanta del Trecento compare come vassallo del vescovo di Asti in guerra contro il milanese Galeazzo Visconti, intenzionato a sottomettere al suo dominio i castelli della Chiesa tenuti dai Roero. Probabilmente in quegli anni Bonifacio si avvicinò ad Amedeo VI di Savoia, il Conte Verde, che controllava Susa ed era ostile ai Visconti, e a lui restò sempre fedele… Per i Roero i rapporti con la Valle di Susa dovevano essere consueti perché ne percorrevano la strada commerciale diretta in Francia e anche a ciò vanno forse riferiti i legami con il Rocciamelone.

Dunque abbiamo una bella montagna, un nobile possidente e un conflitto imminente, il che rende discutibile che – come invece si è scritto e fantasticato per secoli – Bonifacio abbia scalato il Rocciamelone per sciogliere un voto alla Madonna contratto in una prigione turca, durante una sanguinosa crociata in Terra Santa. Secondo Bordone la spiegazione logica è molto più vicina a casa. Anche in considerazione degli anni, tra il 1356 e il 1358, Bordone ritiene più ragionevole che il voto si riferisse alla minaccia dello «straniero» sulla città di Asti e a una preghiera per la liberazione dall’ombra dei Visconti, che con gran sollievo del Conte Verde e della famiglia Roero arrivò nel 1356, quando i milanesi dovettero cedere la città al Marchese di Monferrato.

È certo che per ringraziare la Madonna, di una liberazione o dell’altra, Bonifacio attraversa le Alpi e raggiunge la città di Bruges, dove commissiona a una bottega di incisori fiamminghi il Trittico del Rocciamelone. E qui finalmente parliamo di cosa nota, della straordinaria opera orafa giunta fino a noi. Il Trittico è un altarolo portatile di ottone inciso in dimensioni ridotte: poco più di mezzo metro in altezza e larghezza; al centro compare la Vergine coronata con il Bambino in braccio che le accarezza il mento, a sinistra san Giorgio a cavallo nell’atto di uccidere il drago, a destra lo stesso Bonifacio d’Asti inginocchiato in preghiera e affiancato da un santo scalzo. Sono cinque figure dolci e pacificanti, d’intensa umanità; perfino san Giorgio uccide la bestia con il sorriso.

Probabilmente il devoto Bonifacio aveva già in animo di portare l’incisione in punta al Rocciamelone, perché ne aveva ammirato la vela bianca durante i suoi viaggi attraverso il Moncenisio e la riteneva la montagna più alta delle Alpi. Aveva pensato che una cima così bella e visibile dalla pianura torinese, dalla collina, anche dal Monferrato astigiano nelle giornate di vento, fosse il posto giusto per metterci ad abitare la Madonna e il Bambino, e per essere venerato come un santuario. Solo il triangolo ipnotico del Monviso è più domestico e caro ai piemontesi, ma non era sulle rotte commerciali e devozionali del Trecento, e soprattutto era una scalata inimmaginabile per un «alpinista» del Medioevo.

Il paragone storicamente rilevante resta quello con il Mont Ventoux di Francesco Petrarca, che è una cima molto comoda in confronto al Rocciamelone; oggi si sale in automobile ed è certo più famoso per il Tour de France e la tragedia di Tommy Simpson che per le imprese del proto alpinismo. Né il Ventoux né il Rocciamelone presentano difficoltà alpinistiche, ma sono due escursioni ben diverse per altezza e dislivello. Il Roc maol, che vuol dire semplicemente «sommità», separa la Valle di Susa dalla Maurienne con una cresta che raggiunge i 3538 metri. La roccia friabile e quasi sempre tappezzata di neve, il profilo affilato, il disegno a triangolo con la cornice di ghiaccio che talvolta sborda dal versante della Maurienne ne facevano una montagna severa e apparentemente irraggiungibile. Per un certo tempo il Rocciamelone era stato effettivamente ritenuto la cima più elevata delle Alpi. Nell’antichità era un luogo venerato, temuto e proibito. La Cronaca di Novalesa di un anonimo monaco dell’undicesimo secolo racconta che nessun montanaro era autorizzato a scalare la cima del Mons Romuleus, cioè del mitico re di Roma; erano stati inutili anche i tentativi di due valligiani e del marchese Arduino di Torino, alla testa di una processione armata di croce, acqua benedetta e litanie sacre. Secondo la leggenda di Susa, la bella città romana da sempre dominata, quasi schiacciata dalla mole del Rocciamelone, la verginità del monte era voluta e difesa dallo stesso re Romolo che ci aveva nascosto il suo favoloso tesoro.

Oggi è una cima molto frequentata dagli escursionisti e dai pellegrini, soprattutto sul versante di Susa. Si può salire in auto oltre i duemila metri, sui pascoli alti e assolati, poi un sentiero che sembra un camminamento porta le comitive al rifugio e sulla vetta, con qualche passaggio esposto ma senza difficoltà di arrampicata. L’itinerario della via normale sale il ghiaioso pendio meridionale, a picco sulla città e la sua valle, con lunghi traversi e dolci pendenze. Le rocce che precedono la vetta sono innocue e sicure, anche se l’altezza si fa sentire – specie da chi è salito in un solo giorno – e si respira l’aria sottile dell’alta montagna.

Al tempo di Bonifacio, uomo di pianura, era una storia completamente diversa. Da Susa alla cima erano tremila metri secchi di dislivello e non esistevano punti di appoggio intermedi. I sentieri finivano con le terre dissodate e bisognava avventurarsi sui ghiaioni senza tracce umane e segni di passaggio, fidando nel fiuto, nella fortuna e nella fede. Probabilmente i primi salitori si fecero accompagnare dai servi con le vettovaglie e da qualche montanaro che conosceva le pendici della montagna, e forse si era avvicinato alla cima per riacciuffare una capra o rincorrere un camoscio.

Roero compie due tentativi nella tarda estate del 1358, quando il versante si è liberato dalla neve e i nudi detriti di pietra promettono maggiori probabilità di successo. Il primo tentativo si arresta a 2800 metri, dove un provvidenziale slargo nella roccia invita alla contemplazione e al riposo prima del balzo finale. Lì Bonifacio pone una base per la devozione e il ristoro, senza immaginare che quel balcone affacciato sulle Alpi Cozie e sul Delfinato, dal Monviso allo Chaberton alle guglie calcaree del Briançonnais, abbracciando in un solo colpo d’occhio gli spazi geografici e culturali della giovane repubblica alpina degli Escartons, di lì a poco quel balcone sarebbe diventato il primo rifugio delle Alpi: la Ca’ d’Asti.

«Torneremo» promette Bonifacio ai suoi. «Adesso conosciamo il cammino e la fatica sarà più lieve».

Ritornano il primo di settembre, quando il cielo ha spurgato i vapori dell’estate e si può star fuori da mattina a sera senza temere la furia dei temporali. Le ombre lunghe accompagnano i viaggiatori sui monotoni diagonali che precedono la cresta, dove bisogna disegnare dei cammini obliqui per guadagnare quota conservando gambe e fiato. Il sudore cola dalle spalle dei portatori che recano le pesanti tavole del Trittico fiammingo, forse sorretti da qualche corda di fortuna. L’impresa si conclude felicemente sulle rocce di vetta dove viene scavata una piccola grotta, la prima cappella del Rocciamelone, e nella grotta si solleva una pietra a guisa di altare, e sull’altare si appoggia la Madonna con il Bambino, al riparo.

Il Trittico rimarrà sulla cima più di trecento anni, meta di quasi ininterrotte processioni estive di pellegrini. Alcuni duchi di Savoia si sobbarcano le nove ore di cammino dalle mura romane di Susa alla grotta del Rocciamelone per pregare la Madonna delle Nevi, finché nel 1673 un contadino di Novaretto, per risparmiare la salita a Carlo Emanuele II, fa la cosa più semplice e sacrilega che si potesse concepire: sale sulla cima, si carica la Madonna sulle spalle e la porta nel Castello di Rivoli, alla portata di sudditi e re. Se Maometto non va alla montagna…

Oggi il Trittico è custodito nel Museo diocesano d’Arte sacra di Susa, mentre Bonifacio è sepolto in qualche posto senza gloria. Il nobile astigiano restò fedele al Conte Verde anche dopo il definitivo passaggio di Asti ai Visconti nel 1379. Nel 1382 fece testamento a Carignano, proprio in faccia al Monviso, e lì morì qualche tempo dopo da esule dimenticato. Del suo delicato omaggio alla Vergine resta poco sul monte di Susa: le tavole sono state rimpiazzate da ben più ingombranti oggetti di culto. Attualmente in cima al Rocciamelone si trovano il santuario più alto d’Europa dedicato a Nostra Signora, una gigantesca statua in bronzo della Madonna realizzata nel 1899 grazie alla sottoscrizione di 130.000 bambini d’Italia, il rifugio Santa Maria costruito nel 1923 con i contributi del Papa e della famiglia reale, un busto di Vittorio Emanuele II. Centinaia di messe sono state celebrate con il bello e il cattivo tempo, anticipando e poi rinnovando l’insegnamento che l’abbé Henry, nel 1924, indirizza agli alpinisti cattolici della Giovane Montagna:

Voi dovete portare l’alpinismo alla purezza della sua sorgente: portare l’uomo sulla montagna per avvicinarlo a Dio. Voi che portate le croci sulle cime dei monti, che intonate lassù canti religiosi, che celebrate prima delle ascensioni, siete anche una scuola di moralità, tanto che vi seguono diverse donne e molti genitori vi affidano i figli, fiduciosi.

Le montagne «sacre» come il Rocciamelone ci ricordano quanto l’alpinismo italiano, prima ancora di nascere, sia stato influenzato dalla tradizione cattolica, a differenza delle regioni protestanti dove le cime non hanno mai avuto bisogno di attestati di fede perché Dio abita dappertutto.

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