Attilio Eusebio, già presidente della Sezione tra il 2007 ed il 2009, avrebbe dovuto presentare il suo libro, fresco di stampa, “Terre di Confine” nel nostro salone lo scorso 16 marzo. Purtroppo l’emergenza corona virus non ce l’ha permesso.
Sono oltre 130 pagine di avventure speleologiche e speleosubacquee raccontate dal protagonista: quarant’anni di attività raccolte in un volumetto corredato da immagini e ricordi dei vari protagonisti. “Ho selezionato una ventina di episodi della mia vita speleologica e speleosubacquea” – dichiara l’autore – “Alcuni hanno fatto parte della storia della speleologia, altri forse meno, ma tutti sono stati, almeno per il mio vissuto, formativi e comunque passi importanti nella mia evoluzione. Ho cercato di tracciare e di caratterizzare in queste pagine oltre quarant’anni di attività.
Momenti di esplorazione chiaramente documentati ma anche di riflessione interiore. Chi ha compiuto queste avventure aveva venti anni e ora ne ha sessanta, ma le motivazioni che lo hanno spinto per oltre quaranta anni a cercare sempre qualcosa di nuovo, a esplorare dentro e fuori di sé sono le stesse: un esasperato, egoistico e trascendente bisogno di cercare qualcosa di nuovo. Naturalmente nel tempo tutto si è evoluto; all’esuberanza giovanile si è sostituita una ricerca più matura, più intima e consapevole. Ma lo spirito non è cambiato”
Qui vogliamo presentarvi uno di questi episodi … buona lettura!
Hagengebirge
Why do we travel to remote locations? To prove our adventurous spirit or to tell stories about incredible things?
We do it to be alone amongst friends and to find ourselves in a land without man.
The Wildest Dream: The Biography of George Mallory (2001)
Siamo nel 1985, nel gioco della speleologia i litigi tra gruppi speleo sono all’ordine del giorno: possono essere divertenti, stimolanti, utili o distruttivi, dipende anche dai vari personaggi. C’è chi li prende sul serio e chi li fa diventare una questione di onore, chi ci ride sopra. Ma nessuno è immune o perlomeno lo è stato in un periodo della sua vita, e naturalmente nel tempo gli schieramenti possono anche cambiare, mutevoli come gli umori e gli interessi degli uomini.
Se si vuole collaborare tra gruppi, non tra individui dove tutto è forse più semplice, bisogna cercare un terreno neutro o vergine, nessuno accetta veramente che qualcuno venga a raccogliere frutti pregiati a casa propria.
Ora con il tempo questa problematica si affievolita, tutti sembrano diventati aperti alle collaborazioni, ma nella realtà queste funzionano bene ora come funzionarono nei tempi passati sol in due circostanze: la prima quando non si hanno le forze necessarie per fare le esplorazioni da soli e quindi si ha bisogno di qualcuno con cui condividere, la seconda è farlo fuori dell’orto di casa propria. Esistono certamente eccezioni, esistono gli inviti agli amici, è sicuramente tutto vero ma altrettanto vero che ognuno vuole essere quello che conduce il gioco a casa propria. Se invece siamo dall’altra parte del mondo tutto diventa fattibile, tutti partiamo dalle stesse posizioni e le gelosie personali si affievoliscono assai.
Così fu con i francesi prima e con gli imperiesi poi; sul Marguareis vi erano già, prima della nostra generazione, dei confini reali tra Italia e Francia e dei confini non scritti che spesso erano oggetto di contrasto.
Per cercare di collaborare cercammo così un campo neutro, nelle fasi che alternano pace e guerra in quel momento volevamo essere amici, collaborare anche come gruppi e non solo come singoli: una spedizione in terra straniera era l’ideale.
Il campo di gioco scelto fu l’Austria che però ci rifiutò i permessi di accesso, ma ci andammo lo stesso passando dalla Germania. Per tutti quelli che pensano che senza Europa si starebbe meglio: la libera circolazione è un privilegio che fino a poco tempo fa era sconosciuto, se avessimo voluto fare speleologia in Austria avremmo dovuto chiedere il permesso e se te lo avessero negato avremmo dovuto stare a casa.
Il massiccio conteso era l’Hagengebirge, posto al confine tra i due paesi asburgici, terra ideale perché due forti gruppi speleo (Torino e Imperia) unissero le forze per cercare di lasciare qualcosa nella storia della speleologia non solo nazionale.
Avevamo molti motivi per andarci, uno dei quali era evitare un ennesimo campo estivo sul Marguareis.
Poi le solite argomentazioni che suonavano come un mantra relative alla necessità di allargare gli orizzonti, vedere altre zone carsiche, sfogare in altri luoghi una forza esplorativa notevole. L’idea fu imperiese, Luigi Ramella buon’anima il promotore; un giro effettuato nelle Alpi Salisburghesi l’anno precedente aveva portato gli speleo di Imperia a mettere il naso sul massiccio. Rapida prospezione, tanto da intravedere ottime possibilità di “buone profondità”, poi il rientro e la proposta, allargata all’armata torinese. Il lavoro organizzativo inizialmente blando portò con facilità relativa alcuni sponsor e la documentazione necessaria. Le carte ci dissero che ampie zone del massiccio erano prive di abissi e la deduzione più che ovvia fu che era ora di rimediare. Una lettera al gruppo speleo di Salisburgo provocò la catastrofe.
Era un mezzo per assicurarsi che non vi fossero formalità da sbrigare: la risposta negativa che giunse con cinque mesi di ritardo fu agghiacciante. Gentilmente ci comunicarono che la nostra richiesta era in ritardo perché la domanda, in funzione del nuovo regolamento in vigore a Salisburgo, doveva essere inoltrata l’anno precedente, e doveva precisare se si volevano scendere grotte conosciute e quali, oppure se cercarne di nuove, e che I’Hagengebirge era un parco nazionale e che era difficile che spedizioni straniere ottenessero il permesso e che per entrare in Austria serviva una parola d’ordine e che se volevamo potevamo trovarla per tentativi.
Comunque ci auguravano buone profondità.
Ecco lo spirito europeo di libera circolazione che trovava applicazione nella più banale delle attività ovvero andare in montagna e in grotta. La reazione piemontese fu al solito violenta: invadere l’Austria per farne una repubblica socialista modello Albania, radere al suolo Salisburgo, costruire al suo posto un parcheggio gestito da neri in risposta alle tendenze nazi-xenofobe dei nostri colleghi. Poi a freddo si ipotizzarono da un lato ripiegamenti su altri massicci, dall’altro tecniche da guerriglia e microcampi da montare a sera e smontare al mattino. Comunque fu deciso: si andava lo stesso passando per la Germania, così prese forma l’aggiramento. I tedeschi ci scrissero che la porzione di massiccio sul loro territorio era Parco Nazionale, ma non era soggetta a speciali regolamenti speleologici. Più tardi, di persona ci comunicheranno che il famoso regolamento salisburghese non era ancora in vigore e che la parte austriaca non era un parco ma una riserva di caccia. In altre parole la risposta degli speleo di Salisburgo era una manipolazione per mettersi al riparo dagli invasori stranieri e celare la propria nullità speleologica.
Da parte nostra ci furono molti errori di valutazione, la presenza di molti sistemi di grotte che si spingevano fino a -1000 ci indusse a credere che le difficoltà fossero minime e legate solo al peso delle corde da portare in esplorazione (qualche centinaio di chili). Le altre relazioni dicono il contrario e la storia delle esplorazioni lo dimostra. Polacchi, inglesi, belgi, francesi, giunsero a grandi profondità in anni di dure e lunghe esplorazioni e anche le annate infruttuose non furono infrequenti, come nella speleologia di tutto il resto del mondo.
Era il 12 agosto, il primo scaglione partì alla volta della montagna proibita. No niente Nepal, solo Austria, Hagengebirge, bastava dirigersi qualche chilometro verso est, poi altri a nord e la questione era risolta. Teoricamente.
Come accade sempre ci vuole fortuna ma bisogna accompagnarla da tanto lavoro e molta caparbietà, oltre certamente alla capacità di sognare, di avere una visione.
Ma quest’ultima non ci mancava, forse ci mancava, come sempre, un po’ di umiltà. Comunque noi facemmo il possibile: faticammo molto, cercammo grotte su prospettive diverse da quelle consuete senza trovare nulla, camminando di notte dentro a temporali terribili con i mitici fulmini globulari che ci rincorrevano, valicando creste cariche di elettricità da far rizzare i capelli. Sconforto, delusione, frustrazione furono le uniche presenze costanti, con pioggia e nebbia, quelle saltuarie la neve. Poi come nei migliori movie americani apparve l’abisso, così come doveva essere: pozzi, lunghi, larghi, facili: ma ecco ancora pioggia e neve a renderlo irraggiungibile. L’ingresso era a tre ore di cammino dal rifugio e non era raggiungibile in quelle condizioni, si doveva infatti percorrere una cresta esposta ai fulmini (esperienza già vissuta con terrore qualche giorno prima) e poi vagare in un altopiano disseminato di lapiaz: impossibile con la neve al suolo, troppo alto il rischio di infilare un arto in un buco calcareo e ritrarlo spezzato sotto il peso di uno zaino da 30 kg.
Il tempo a nostra disposizione stava finendo ci restava una sola finestra temporale per scendere 250 metri di pozzi sotto cascata e vedere che proseguiva.
Ci toccò aspettare un anno per ritornare zitti zitti con una spedizione ultraleggera, l’abisso aveva già un nome “Alverman il magico” ma non aveva ancora un fondo.
Dopo l’epica punta dell’estate si voleva tornare in settembre-ottobre per proseguire le esplorazioni, ma la precoce neve, la pioggia e la mancanza di grinta al momento giusto decisero per noi e si perse l’attimo. Si dovette attendere fino a fine luglio 1986 quando in mille si salì sulla montagna sacra alla ricerca dell’abisso perfetto.
L’idea di fare tutto in un fine settimana allungato fu in realtà perlomeno stupida ed avventata, anche se corretta, tanto che vale la pena di essere narrata perché in essa si sublimava la superbia e la dabbenaggine di una buona parte degli speleo almeno d’occidente.
Il tempo in effetti era sufficiente, bastava non dormire quasi mai, era necessario partire il venerdì sera finito di lavorare, viaggiare fino all’alba (750 chilometri) da Torino, salire al rifugio, mettersi in cammino, farlo per tre ore, entrare in grotta, uscirne al mattino di lunedì, ritornare con altre tre comode ore al rifugio, mangiare, scendere a valle e dirigersi a Torino arrivando nella notte tra lunedì e martedì. Martedì, docciati e doloranti si poteva andare al lavoro.
Questo era il contesto e già affioravano perplessità sulla stoltezza degli attori, si ricordi poi che costoro entravano in grotta senza i permessi delle autorità asburgiche. L’ultimo problema infine era che eravamo in uno più di mille. Tutti credevano che sarebbe stata la passeggiata verso la fama eterna così l’intera speleologia italiana più qualche oriundo era pronta ad entrare in grotta, anche senza essere stati invitati.
Il cospicuo numero di partecipanti ci costrinse a fare più squadre, a me toccò l’ultima o la penultima, quella che avrebbe dovuto andare nel posto più lontano, in fondo all’abisso e riportare fama imperitura per tutti, con noi avevamo 1000 metri di corda, se ci fossimo dovuti fermare non era certo per mancanza di materiali.
Invece intorno ai -400 incontrammo gli altri che stavano risalendo, la grotta era più complicata di come avremmo voluto, si erano arrestati su un pozzo di 30 metri. “Non importa” pensai “abbiamo energie e voglia di scendere altri mille metri” e intanto continuammo a scendere, pozzi, pozzetti e finalmente un torrentello di acqua gelida (intorno ai 3-4 gradi) emerse nel meandro che stavamo percorrendo e ci accompagnò subdolamente. La grotta tendeva a infognarsi, il meandro si abbassava, diventò un cunicolo mezzo allagato in cui bisognava strisciare, un mezzo sifone si frappose tra noi e l’ignoto. Decidemmo che Carlo Curti, compagno di follie da sempre, e il sottoscritto si trascinassero nell’acqua cercando di bagnarsi il meno possibile, al di là del cunicolo per vedere se proseguisse. Infatti, la grotta si riallargava, un pozzetto ci tagliava la via, si ritornò a chiamare gli altri, intanto un nuovo pozzo più profondo, da 25 metri questa volta, ci sbarrava la strada. La discesa fu un’agonia, battuto dall’acqua gelida il pozzo si avvitava a spirale con acqua dappertutto e soprattutto condusse ad una strettoia, lunga e sospesa ancora su un saltino, ma non si passava.
Troppo stretto, passava l’aria, passava l’acqua, sentivamo una cascatella ma noi non passavamo. Eravamo fradici. Tutta la nostra boria si era dissolta nell’acqua gelida. Massima profondità raggiunta meno 440m, altro che memo mille, una frustata di freddo ci ricondusse alla realtà, eravamo fradici a molte ore dall’uscita, in una grotta con temperature prossime allo zero. L’esplorazione era finita compari, ora c’era la parte meno nobile della storia, risalire, ricuperare tutto, portarlo al rifugio, da qui alle auto, e con le auto a casa. Una storia di fatica e di freddo, una infinita fatica che terminò il lunedì notte, ma allora avevo 28 anni e il martedì ero regolarmente al lavoro, sperando che arrivasse presto la sera.