Accadde in settembre

L’amico Andrea Mellano ci ha regalato questo bell’articolo scritto per la rivista del CAI, Scandere, nel 1964. Un articolo già ripreso lo scorso anno da Alessandro sul suo quotidiano online Gognablog

Cosa ci vuole per compiere la scalata di una famosa parete? Innanzi tutto ci vuole la parete. E questa c’era perbacco: nientemeno che la Nord-est del Pizzo Badile.

Poi ci vogliono almeno un paio di individui muniti di una capoccia che riesca a ragionare e di gambe e braccia che al momento opportuno riescano abbastanza utili. E anche questi c’erano (forse non corrispondenti ai requisiti richiesti, ma c’erano) e non solo due ma tre, anzi, quattro. Infine una macchina super veloce, un po’ di materiale, un pizzico di fortuna, due etti di bel tempo e: «voilà», la parete è fatta. Facile no? Bene, sentite un po’ come andò a finire.

Andrea Mellano

Che si pensi di compiere una scalata nelle valli limitrofe piemontesi, in due giorni da Torino, è cosa abbastanza normale; ma che si possa pensare di scalare la parete nord-est del Badile nello stesso lasso di tempo, via, mi pare un po’ azzardato. Invece questa convinzione era profondamente radicata nella testaccia di quelli che d’ora in avanti chiameremo i quattro eroi del racconto.

L’idea era sorta nella mente non sempre lucidissima di uno dei tre — per ora solo in tre, il quarto apparirà a metà racconto — il quale pensò di sfruttare a proprio vantaggio l’infermità temporanea che aveva colpito un suo carissimo amico: quel simpaticone di Romano Perego, quinto protagonista del racconto.

Tutto sarebbe consistito in questo
I tre partono da Torino, passano a Merate a prendere Romano, raccolgono il quarto eroe a Lecco e poi raggiungono il rifugetto di Sass Furà in Val Bondasca. Il giorno dopo, mentre i quattro eroi salgono la parete, Romano scende veloce, prende la macchina e la trasferisce a Bagni di Masino dove i quattro dovranno scendere appena compiuta la scalata. Felici e contenti torneranno tutti alle loro case: Diabolico!».

Pare quasi impossibile che tutto ciò sia frutto della materia cerebrale di Andrea.

Giunto il fatal mattino, tre strani tipi si danno convegno di fronte all’abitazione di uno di essi. Il primo, in completo blu-carta-da-zucchero, è alto e, diciamo, non molto grasso; la sua naturale eleganza lo pone giustamente in evidenza.

Dagli sguardi di rimprovero che lancia agli altri due, quando si appoggiano alla carrozzeria della lussuosa «1300» parcheggiata nei pressi, si deduce che la macchina è di sua proprietà: questi è Roberto Amari, per gli amici Roby.

Il secondo individuo è uno strano incrocio tra un teppista e un giovane rivoluzionario. E’ «calzonato» con un paio di blue-jeans bianchi; una camicia di colore indefinito completa il tutto. Ad osservare bene però, la sua palese trascuratezza nel vestire ha un non so che di studiato, di ricercato, che dona alla sua persona un’aria misteriosa ed affascinante; piace alle donne. L’individuo in questione è Ottavio Bastrenta.

Nord Est Pizzo Badile

L’ultimo componente il terzetto è contro ogni definizione. Di statura non imponente, con un paio di calzoni color metallurgico ed una camicia verde-marcio, sembra il prototipo della pubblicità «prima dell’uso». I capelli tagliati alla Rock and Roll donano al suo volto un’aria da cavia per le ricerche di laboratorio sugli ultimi ominidi fossili: questi è Andrea Mellano, per gli amici… beh, lasciamo perdere.

Ora che abbiamo fatto la conoscenza dei primi tre protagonisti, possiamo continuare tranquillamente il racconto.

Espletate le formalità di partenza, i «tre eroi tre» salgono a bordo della super lusso accompagnati dagli sguardi curiosi di alcune massaie.

Dopo qualche ora di viaggio piacevole e distensivo, giungono a Merate dove Romano — la vittima — li attende a braccia aperte. Naturalmente, quasi per caso, son capitati all’ora di colazione per cui i familiari di Romano si impegnano a fondo per offrire agli ospiti tutto ciò che un alpinista sogna dopo giorni di digiuno rotto solo da misere minestrine e pastiglie vitaminiche. Anche se i nostri tre bellimbusti non sono reduci da simili «performances», fanno ugualmente onore ai manicaretti ammanniti con abbondanza.

Alla fine della colazione Andrea, con serietà, dichiara che per lui l’impresa si può considerare conclusa e pertanto sconsiglia, data la sua esperienza, gli amici a procedere oltre. Tali dichiarazioni sollevano le rimostranze degli altri che, spinti dalla loro mania di grandezza, si oppongono decisamente alla assennata proposta.

Vinta la naturale inerzia post-sbafatoria e sollecitato anche da un pizzico di amor proprio, Andrea si decide a partire, aiutato in ciò da Romano che con dolce violenza gli sottrae la bottiglia del vino.

A Lecco breve sosta per prendere a bordo Dario Mozzanica il quale, forte della sua conoscenza della parete, accompagnerà i tre amici nella scalata. Senza incidenti, malgrado la presenza di Ottavio e Andrea, passano la frontiera svizzera e si inoltrano sulla strada che dal paese di Bondo li porterà all’attacco del sentiero di Sass Furà. Strada facendo incontrano altri individui che dall’abbigliamento paiono alpinisti; forse anch’essi diretti allo stesso rifugio.

Ad un tratto un omone di discrete proporzioni blocca la strada alla superlusso, motivando il gesto con la spiegazione che qualche troncherello divallante sulla teleferica sovrastante, potrebbe, cadendo, arrecare danno ad una così bella macchina. E pertanto sconsiglia di proseguire.

A tali prospettive, Roby impone categoricamente ai compagni di scendere e, malgrado le loro proteste, li invita a proseguire a piedi.

Prima di incamminarsi, spogliarello generale poiché, secondo gli antichi codici d’onore, non è ammissibile che quattro scalzacani salgano una parete di VI in blue-jeans. Terminata la vestizione, e appianata, senza spargimento di sangue, ogni questione circa la divisione del materiale, i 5 protagonisti attaccano di buon passo il ripidissimo sentiero che li porterà al rifugio.

Cammin facendo hanno modo di osservare l’ambiente che li circonda: bello, non c’è che dire; le Sciora, il Cengalo, il Badile dominano tutta la valle; la vista di quei colossi di pietra fa venire ad Andrea una voglia matta di battere in ritirata finché ne è in tempo, ma l’orgoglio è più forte della paura di modo che, con la faccia un po’ meno fiera del solito, prosegue lungo il sentiero, leggermente discosto dagli altri perché, con i suoi calzoni super usati, metterebbe a disagio Roby e Ottavio che, nel loro pur semplice abbigliamento sportivo, mantengono intatta la naturale signorilità, sconosciuta a quel…

In arrampicata nel camino finale della via Cassin alla parete nord-est del Pizzo Badile (foto Danza Verticale)

Al rifugio trovano un sacco di gente, e le probabilità di trovare un comodo posto da dormire sono svanite. Salutati i vecchi amici e brindato con i nuovi, i cinque eroi, vanno a posare le stanche membra sulla soffice paglia della vecchia baita. Domani sarà giorno di battaglia e non solo con la parete, ma anche con le cordate — pare siano molte — che hanno intenzione di scalarla; i nostri amici non possono permettersi il lusso di restare bloccati in parete; se questo succedesse addio ritorno veloce.

Prima di coricarsi mettono a punto la seconda fase del programma: domani sveglia alle tre, veloce corsa di approccio e poi su, senza perdere tempo. Romano intanto osserverà dal rifugio il progredire degli amici; quando questi saranno giunti a circa metà parete da dove, secondo loro, non li tirerebbe giù più nessuno, scenderà velocissimo il sentiero sino alla macchina, salirà con cura a bordo, cercando di non sbattere troppo violentemente le porte, poi giù sino a Bondo da dove proseguirà con la super lusso sino a Bagni di Masino e lì, attenderà fiducioso l’arrivo degli amici.

Così combinata, la faccenda dovrebbe funzionare. Rassicurati, i cinque eroi si abbandonano al riposo dei giusti. Occorre sapere che i nostri amici non fanno uso di sveglie o simili altre diavolerie. Essi hanno Ottavio che sopperisce egregiamente alla bisogna.

Infatti Ottavio, a prescindere dalla salita in programma, immancabilmente alle due di notte, se non prima, comincia a seccare gli amici con recite di poesie in greco antico, ed altri versacci che lui, molto eufemisticamente, denomina canti primitivi vichinghi. A Sass Furà, Ottavio non ha funzionato. O meglio ha funzionato a metà; svegliandosi alle tre e mezza passate. Considerando che per svegliare Andrea e Roby occorrono venti minuti buoni, si fanno subito le quattro cosicché, come al solito i nostri eroi sono gli ultimi a partire per la parete.

Raccolto in fretta il materiale e fatte le ultime raccomandazioni a Romano, i cinque eroi, meno uno, iniziano la marcia di avvicinamento.

Senza storia la marcia di approccio, anche perché nessuno è rotolato sul sentiero. Dopo un paio d’ore raggiungono la parete: sta albeggiando. Tutti gli altri sono già sul posto pronti ad attaccare.

Quella volpe di Dario ha un’idea luminosa: invece di attaccare la parete dove c’è tutto l’affollamento (otto cordate), i quattro eroi saliranno sul ripido nevaio che scende sulla destra del diedro d’attacco. Così facendo dovrebbero arrivare al diedro Rébuffat in anticipo sugli altri.

Infatti così fanno, ma il nevaio non è di morbida neve ma di durissimo ghiaccio, del più buono. Buon per loro che due di essi han portato i ramponi; anche se la scalata si svolge interamente su roccia la prudenza occidentale ha consigliato ai nostri eroi che i ramponi, sugli scivoli d’attacco, non sono mai di troppo, specie a settembre. Dicevamo dunque che fortunatamente due avevano i ramponi, altrimenti, non solo non scalavano la Nord-est in giornata ma, ad essere ottimisti, facevano il primo bivacco appena sopra lo stramaledetto scivolo di neve.

Il risultato della manovra è facile a capirsi: appena usciti dalla salita in ghiaccio fuori programma, i 4 eroi constatano che le cordate superate sono soltanto cinque. Il disappunto generale viene efficacemente espresso da Andrea, per nulla intimorito dall’ambiente severo, con una sequela di imprecazioni alla malasorte.

Divisi in due cordate i quattro amici cercano di guadagnare terreno. Il diedro «Rébuffat» si presenta in ottime condizioni e non dà troppo fastidio. Saliti quasi a ritmo di corsa sino ad una cengia, Andrea e Dario, seguiti a ruota da Ottavio e Roby, vengono fermati da un imprevisto intasamento di alpinisti.

Subito non si capisce bene cosa sia accaduto; poi si viene a sapere che i due tedeschi che precedono la carovana sono un po’ in difficoltà a causa di un passaggio duretto. Non resta che attendere. Come posizione non c’è male: vi è solo il disturbo provocato dalle pietruzze che cadono dallo spigolo nord gentilmente proiettate dalle numerose cordate che percorrono quella via. La bella giornata ha infatti favorito la ressa sullo spigolo, nonostante esso presenti notevoli difficoltà in alcuni punti.

Andrea Mellano – Arrampicata in Sbarua anni’50Cercando di cogliere di sorpresa le altre cordate, due milanesi si intrufolano dietro ai tedeschi con la palese intenzione di fare fessi gli altri. Lo scherzetto riesce in parte, in quanto uno dei milanesi non ha fatto i conti con certe sue impellenti esigenze fisiologiche, per cui si deve fermare a metà passaggio per dar corso, senza la minima discrezione, a tali esigenze, sotto l’infuriare degli improperi sciorinati in bergamasco, lecchese, torinese e tedesco, da tutti gli altri costretti, loro malgrado, a subire sì poco decoroso spettacolo.

Grazie al cielo i due se ne vanno, un po’ adagio, ma salgono. I nostri amici lasciano volentieri il passo ai bergamaschi, più veloci, e proseguono subito dopo. La tabella di marcia viene comunque rispettata, grazie alle buone condizioni della parete e, diciamolo pure, alla discreta forma ed affiatamento.

Giunti al nevaio centrale, altra sosta forzata: i milanesi hanno bloccato nuovamente la via; ora bisticciano per decidere a chi tocchi di fare il primo di cordata in quel tratto. I bergamaschi li superano di volata senza tanti complimenti e si accodano ai tedeschi. Ai nostri non resta altro che sorbirsi tutte quelle discussioni senza senso, limitandosi ad esprimere ad alta voce considerazioni campanilistiche all’indirizzo dei due figuri.

Attendono con calma che la via si liberi dall’ingorgo. Ma dopo venti minuti buoni la calma è sparita e i quattro eroi si accodano ai milanesi. Andrea e Dario gli si appiccicano addosso proponendosi di approfittare della prima occasione buona per superarli. Al termine del grande «traverso» ecco la grande occasione: i due si sono nuovamente «imbranati». Andrea vorrebbe andare ad aiutarli ma un’occhiata di Dario, molto significativa, lo fa desistere dal nobile proponimento. Cercando di non pestare ai due le mani e qualche altra cosa, seguiti a ruota da Ottavio e Roby, li sorpassano e, senza più intralci, proseguono la salita. I puristi dell’alpinismo non si facciano cattive opinioni sui nostri amici per il loro modo di condurre la scalata alla stregua di una corsa ciclistica o simili, ma quando si è stati costretti a sostare in punti impossibili e per niente comodi, si manda al diavolo l’etica alpinistica e, appena si può, si sorpassa con tutti i mezzi leciti. Posso garantire che nessuno fece il minimo danno ai due anche se per virtù propria si trovavano lungo la salita ad intralciare gravemente il traffico.

I tedeschi e bergamaschi sono già abbastanza in alto. Ora è bello salire così, senza preoccupazioni che non siano di ordine tecnico, su questo magnifico granito. Sono tanto contenti ora, che quasi hanno scordato di essere su una difficile e famosa parete. I passaggi si susseguono senza interruzione; sono tutti abbastanza chiodati e ciò facilita la rapidità di progressione. A qualcuno pare perfino di arrampicare sulle amiche placche della Sbarua, tanta è la compattezza della roccia.

Nessun incidente turba l’ultima parte della scalata e alle 17 i nostri eroi pongono piede sulla vetta più famosa delle Alpi centrali. Sotto di loro la parete sfugge con un salto immenso sul ghiacciaio sottostante e non par loro vero di aver scalato una parete così alta e difficile in un tempo più che buono. Ora bisogna ricominciare a far muovere le gambe anche se queste ne farebbero volentieri a meno.

Rifugio Gianetti

Una piccola sosta al rifugio Gianetti e poi giù verso il fondo valle dove Romano li aspetta. Dario, rivelando forze ancora nascoste, si offre di precedere gli amici per portare la notizia della riuscita. Scendendo, nella testaccia di uno dei tre girano molti pensieri e considerazioni, non di indole filosofica per carità — a questo ci pensa già troppa gente — ma di natura, diciamo, pratica e umana. Sulla parete, essi hanno trovato una quantità di alpinisti superiore al previsto, tutti assai giovani e soprattutto assai preparati tecnicamente. Ma quello che ha colpito di più la solita testaccia è stata la tranquillità con la quale tutti affrontavano la parete. Cosa che certamente mancava ai nostri amici, non perché essi non fossero preparati tecnicamente, no: i nostri amici avevano sentito parlare troppo della parete, e si era verificato in loro quello che anche altri avevano provato affrontando per la prima volta le salite delle nostre valli e che i grandi dell’alpinismo torinese definivano quasi estreme e che si rivelavano poi entro i loro limiti di salite fattibili e per niente eccezionali. Come mai allora questa differenza di stati d’animo nell’affrontare una stessa parete? La differenza sta tutta nell’ambiente in cui gli alpinisti maturano. I ragazzi della Grigna (come vengono spesso chiamati gli alpinisti delle Alpi centrali) vivono in un ambiente dove il culto della personalità, per usare una frase grossa, è quasi inesistente, e ciò che uno riesce a fare, anche ad un altro, se segue lo stesso metodo di allenamento, riuscirà, forse meno brillantemente ma per lui è il risultato che conta. Ecco perché questi ragazzi, sconosciuti ai più (l’attività di uno dei quali farebbe vivere di rendita più di uno nell’ambiente torinese), frequentemente colgono vittorie di primo piano. Essi le realizzano semplicemente, senza forzature e atteggiamenti divistici, altra parola grossa, a volte frequenti dalle nostre parti. Ma questa testa matta spera che a poco a poco si sfati la leggenda delle vie impossibili di roccia e di ghiaccio, e che tutti i giovani, dopo un’adeguata preparazione, si cimentino con le vie belle e impegnative delle Alpi per godere sempre più la gioia delle scalate.

Non che con ciò si vogliano spingere i giovani a prendere d’assalto le salite di un certo impegno, questo no. Ma si smetta una buona volta di descrivere le vie, solo perché è salito il tale dei tali, noto alpinista torinese, come al limite delle possibilità; sì, sarà dura, ma non esageriamo!

Strani davvero questi pensieri frullanti nel capoccione di uno dei tre alpinisti in discesa, quasi suonati dalla fatica!

E’ sorta la luna, e gli amici con passo stanco e meno elastico del solito, stanno percorrendo l’ultimo tratto di sentiero. L’odore del muschio si fa penetrante e sarebbe tanto bello sdraiarsi e assaporare sino all’ultimo la gioia di una scalata con una buona dormita sotto ai pini.

Ma questa gioia è negata: devono scendere, porco due! (esclamazione caratteristica di un grignaiolo).

Quasi con rabbia percorrono l’ultimo tratto di sentiero, quando una luce si intravvede nel buio della notte: è Romano che viene loro incontro per congratularsi della riuscita della scalata.

Una stretta di mano esprime un sacco di cose e quante ne vorrebbero dire i nostri amici a Romano che ha contribuito alla riuscita di una delle più belle scalate delle Alpi, in due giorni da Torino.

Dopo un sommario controllo di Roby alla super lusso, per accertarsi della cura con cui Romano l’aveva tenuta in consegna, e dopo aver preteso il cambio degli indumenti da parte degli scalatori, i nostri cinque eroi, nuovamente riuniti, scendono verso il piano.

Romanticamente percorrono «quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno» e infine l’autostrada inghiotte la super lusso che li trasporta veloce verso il sospirato riposo.

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