With a little help from my friends

Irene Borgna l’abbiamo conosciuta speleologa quando cominciò a frequentare il Marguareis, fuori e dentro, e già scriveva bene. Poi l’abbiamo conosciuta antropologa e subito dopo l’abbiamo incontrata, runner ancora sul Marguareis. La sua ultima versione, quella di scrittrice, la vede autrice de “Il pastore di stambecchi” sulla vita di Louis Oreiller. L’articolo che segue, pubblicato sul n.152 di Grotte (il bollettino del Gruppo Speleologico Piemontese Cai Uget) e datato 2009, tratta di un’avventurosa risalita nella Carsena di Piaggia Bella e relativo lieto fine.

No I get by with a little help from my friends
Mm I get high with a little help from my friends
Oh t’m going to try with a little help from my friends
(Beatles)

Alla terza vibrazione il cellulare precipita dal davanzale di nordovest – unico sito di tutta la casa che Wind ritiene propizio ai rapporti col mondo esterno – e scompare inghiottito da un cespuglio di salvia. Mentre rovisto a caccia del telefono nella canicola assassina, tra le foglioline aromatiche si fa strada una festa d’accento toscano: – Ciao lrène, allora vieni su domani? Sale anche Marcolino e si va a fare una risalita ai Montoneros!

Thomas. Dall’arbusto parlante esce ora un irreale fruscio di vento made in Margua che schiaffeggia l’afa impassibile dell’inutile pomeriggio ligure. Rifletto. Da una settimana sudo al sole e sogno il buio, da troppi giorni l’unica bisa che sento sulla pelle è l’alito subdolo del condizionatore, al di là della tapparella imperversano clacson e facce bovine al posto di campanacci e vacche curiose. Breve pausa di silenzio intriso di caldo umido. Brevissima. – A che ora pensate di entrare? Massimo per mezzogiorno sono lì.

All’alba delle sette carico lo zaino stivato di vettovaglie sul pandino e faccio rotta verso l’Alta Valle Tanaro. Pare che in Capanna la penuria di viveri inizi a farsi sentire, così abbondo per rimpolpare le scorte. Ripasso febbrilmente il contenuto del basto, fino a che De André dall’autoradio non mi convince che quello che non ho è quel che non mi manca. Piano piano la tensione cala. A Ceva spunta persino il sole. Quando vedo la rocca della Madonna di Pietra Ardena china sul borgo vecchio di Garessio sto già meglio, nella bottega della commessa baffuta di Ormea mi sento quasi in forma e dopo Ponte di Nava il mio buonumore è praticamente inossidabile.

Però quando a Carnino trovo già in loco una vecchia panda verde impreziosita dal lavorio metodico di corna bovine mi piglia un accidente: la macchina di Marcolino. Dunque, ragioniamo. Ha detto che sarebbe arrivato tra le undici e mezzogiorno. Non è nella natura dello speleologo essere in anticipo. Ergo deve essere senz’altro tardissimo. Il sillogismo non perdona. La limpidezza cristallina del ragionamento mi seduce al punto che non controllo nemmeno l’orologio. Mi carico lo zaino sulle spalle e vado alla volta della Capanna a testa bassa, con un’andatura da Monviso in giornata. Dopo i primi tornanti nel bosco ancora non scorgo i calcagni di Marcolino, in compenso ho quasi investito una famiglia di gitanti attoniti e messo in fuga con uno sguardo allucinato un quartetto di mucche pigre affastellate sul sentiero.

Le Mastrelle dal basso fanno sempre una certa impressione: la scala della purificazione per accedere ai verdi pascoli del Visconte, una via crucis in salita firmata GSP in rosso stinto. Quattrocento metri di dislivello a forma di cono inclinato a 30″ con una bastionata di roccia a metà e la strozzatura in cima. Che l’incauto pensa sia il termine delle sofferenze, ma il vero mastrellista riconosce per ciò che è: l’inizio della rampa pietrosa sommitale, da affrontare, scandendo ignominie per ogni passo indietro che il pietrisco sottrae ai due passi avanti. Il vero moto di sgomento però lo devo al fatto di non riuscire ancora a avvistare nessuna sagoma caracollante su per l’impervio itinere. Sarà che sono ipovedente, sarà che sono in ritardo: nel dubbio, ricomincio a correre.

Mi decido a verificare l’ora solo una volta raggiunto Pian Merdun, da dove alla mala parata potrei ancora arrestare con un ultimo rantolo l’eventuale punta in procinto di entrare in PB. L’orologio dice 10:58, io dico ossignùrr. Considerato che non posso essere partita prima delle 9:30, l’agghiacciante verità è che mi sono fatta un incredibile culo sotto il sole per paura di mancare l’opportunità di un terribile culo sotto il suolo. Rimuginando sulla bontà dell’investimento dei miei parenti stretti nel tentativo di darmi un’istruzione, raggiungo la Capanna.

O, piuttosto, il suo scheletro. Colti da un lodevole raptus igienico di biblica portata, Andrea, Alex, Thomas, Piero, Zunco, lgor, Chiara, Lorenzo, Annetta, Silvia, (Luchino guarda o sonnecchia) e Gian Marco hanno sbudellato il vano letto della Capanna, spargendone le visceri in pieno sole. L’aria vibra del malumore di un esercito di acari increduli, improvvisamente privati del domicilio dopo generazioni di collaudata simbiosi con gli speleo. Di Marcolino ancora nessuna notizia, ma è dato in arrivo imminente. Non ci sono zaini, né ferraglia a arroventare al sole, solo un indaffarato sciame di speleo allo stato gassoso che entra e esce trasportando, stendendo e lanciando: pezzi di letto, coperte o uno a scelta dei piccoli Cicconetti (Luchino escluso).

– …guarda, ieri sera ho provato a proporre di entrare al mattino: mi s’è detto di tutto, mi s’è detto! – si giustifica Thomas facendomisi incontro con un fetido materasso di gommapiuma sotto l’ascella sinistra.

Solo in Sahel mi è capitato imbattermi nella lentezza elevata a sistema, nel cazzeggio cordial-conviviale sublimato in forma d’arte, nella più raffinata inerzia promossa a volere divino. A Natitingou, in Benin, il saggio signor Pomme, che era stato a Bruxelles per promuovere la sua associazione di trasporti cittadini (carretti&birocci), una sera sotto le piante di cola dell’albergo Bourgogne aveva raccontato sconcertato che “là” la gente correva sempre: – …c’era pure un tappeto per non stare fermi nemmeno piantati sui propri piedi, che se volevi salutare l’amico incontrato sul tappeto opposto ti strappava via come una corrente…

ln Capanna, come a Natitingou, ci sono solo strade sterrate e nessun nastro frettoloso; in Capanna, come a Natitingou, amici e conoscenti di passaggio si fermano per bere un bicchiere, per scambiare ricordi e novità; in Capanna, come a Natitingou, se scalpiti vuol dire che ancora ti sfugge ciò che chi ti sta intorno e ti guarda divertito ha già capito da un pezzo.

Con ogni probabilità al passo di Flamalgal c’è una porta invisibile che immette in una bolla di tempo africano trapiantato sulle Alpi, estesa quanto i domini del Visconte. Ora la sola idea di aver avuto paura di essere in ritardo mi fa sorridere. Gran bel posto, la Capanna. Poso lo zaino e mi getto testè nella Guerra Santa contro l’acaro infedele.

Poco dopo arrivano dal Colle dei Signori anche Athos, Enrico e Marcolino, fresco come un lillà: ha lasciato la macchina a Carnino e si è fatto dare un passaggio dagli altri due, la scaltra faina. Penso tante cose che tengo per me. Anche i nuovi arrivati si inseriscono nell’operazione “Pulizia duratura”, magistralmente orchestrata da Piero l’imperiese, che mena formidabili colpi di bastone su coperte e materassi. Se fossi un acaro sarei sicuro morta d’infarto ancor prima di venir sgretolata da un suo fendente.

Verso mezzogiorno, sotto un cielo sempre più interlocutorio, si ricompongono i giacigli e si imbandisce la tavola. Nel mentre diventa chiaro che la gita ai Montoneros ha chiuso le iscrizioni a quota quattro: Thomas, Zunco, Enrico e me. Meno di un secolo di speleologia tra tutti. Il primo è quello che sa la strada, il secondo quello che insieme al primo sa fare le cose e gli ultimi due quelli che portano i sacchi cercando di rendersi utili. Enrico ha fatto lo stage all’inizio di giugno: affascinato da tutto ciò che scoppia, ha l’animo da artificiere e dimostrerà coi fatti dl non patire nemmeno le cannonate. L’ho incontrato un mese prima alla passeggiata in Paris-Còte d’Azur, infagottato di nylon precario contro il freddo di PB e perfettamente a suo agio col sacco in spalla o con il bicchiere in mano. Da allora c’è stato un campo dimezzo a Ngoro-Ngoro e l’uomo di Pecetto Torinese ha già esplorato, manzato e preso una piena. Potrebbe quasi smettere di fare speleologia. Quasi.

Alessio “Marines” Zunco è un sanremese di cui Alex da tempo favoleggia come di una specie di arma finale: efficiente, irresistibile, implacabile. Thomas è l’indigeno, iniziato ai segreti di PB da Andrea in persona, depositario della mappa dei luoghi e di scampoli di memoria personale e altrui. Sul suo conto circolano sinistre dicerie. Sul suo cammino si contano ormai svariati incidenti capitati a compagni di grotta. Ultimamente ha provato a rendersi protagonista di qualche infortunio ruzzolando a più riprese in PB. Alcuni mormorano a mezza voce che in questa fine campo il Visconte ne abbia a sufficienza di lui, altri sostengono che abbia lasciato scadere il permesso di soggiorno rilasciato dalla Libera Repubblica del Marguareis e che sia in atto un persuasivo decreto d’espulsione. C’è poi chi crede, più semplicemente, che Thomas porti una certa sfiga.

Facciamo capanno intorno a Andrea perché ci racconti il passato e le promesse dei Montoneros. C’è da finire una risalita iniziata nel ’73 insieme a Giovanni: un tiro a testa sul facile e poi erano scesi. Ora si tratta di andare avanti. Durante lo spiegone notiamo di sfuggita l’entità della deviazione standard che separa lo speleologo dall’italiano medio: siamo quattro intorno al tavolo e nessuno di noi è battezzato. Uno schiaffo alla media nazionale. Meglio che l’lstat si affidi a altri soggetti per i suoi sondaggi.

Preparati i sacchi, scendiamo nella Voragine del Pas verso le tre del pomeriggio (vuoi entrare subito dopo pranzo? Pazzo! E la digestione? E la pennichella? sia mai…). Discorrendo delle vie tortuose che ci hanno condotto per Ie più bisbetiche diramazioni a inseguire in un pomeriggio estivo l’acqua dei Piedi Umidi, arriviamo né lenti né veloci fino alla Confluenza. È la seconda volta che Enrico e io e ci ritroviamo da quelle parti ed è già bello avere un aneddoto di numero da ricordare, qualche faccia da evocare scendendo. Mi sforzo di tenere a mente i nomi dei vari ambienti nell’ordine giusto, come con le fermate del treno le prime volte all’università, quando Ie tappe della via crucis tra Savona e Genova avevano ancora un sapore esotico: La Sala Bianca, Belladonna, gli infidi Frizzi e Lazzi, la Crepa ltalia e poi ancora il Passaggio segreto, le Suicide, Galadriel… Arrivati alla Confluenza finisce per me il mondo conosciuto. Voltate le spalle alla via che conduce alla Tirolese, ci dirigiamo verso le gallerie Gary Hemming. Qui decidiamo di armare un traversino: non impossibile, ma un po’esposto e su roccia instabile -…per quando al ritorno saremo stanchi –. Se ne incarica Zunco, mentre Enrico si trastulla con un bastoncino di inutile luce chimica:

– Mi stai dicendo che quella fava di colore rosso smorto non emette nemmeno calore ?l?

– Però è bella. E poi dura 10 ore”..

– Ah, bè: allora…

La via verso il ramo dei Montoneros è piacevole, il tratto in salita nelle grandi marmitte e quello in piano sul fondo del torrente bellissimi. L’acqua è il quinto compagno di viaggio, di cui noti la mancanza non appena un angolo brusco ne zittisce il vociare furibondo. Costretti a un’avanzata precaria a pelo d’acqua per non bagnarci le estremità, conveniamo che i piedi Umidi danno ragione a Andrea: qui PB esige lo stivale. Lo scarpone non si sa se è da zombies, ma in questa situasiun senz’altro è da piciu. Quando proseguire in opposizione diventa una patetica acrobazia, ci togliamo scarponi e calze e procediamo a guado e guaiti (Zunco invoca a gran voce i calzari in neoprene abbandonati in riviera). Alla Sala B decidiamo di mangiare qualcosa, quindi proseguiamo armando una piccola risalita in traverso un po’ scivolosa.

Sala 11, finalmente. L’inizio della risalita. Parte Thomas, che risale in due manches i primi 25 metri di pozzo, senza piantare nulla se non in partenza e all’arrivo. Tocca quindi a Zunco divertirsi e io mi offro di fare sicura, mentre Thomas scarbura e Enrico si parcheggia a distanza di sicurezza sulla cengia. La prima batteria si scarica dopo tre metri d’arrampicata. Zunco sconsolato abbandona il trapano appeso e tenta di guadagnare metri infilandosi in un camino laterale, che permetterebbe di lesinare sulle protezioni. Peccato che il camino chiuda poco sopra: non resta che salire direttamente su un tratto più liscio, che richiede la rassicurante presenza in loco di un fix e magari anche del trapano per piantarlo.

Parte Thomas, assicurandosi sui bloccanti, per consegnare a Zunco il trapano e la seconda batteria (lei pure già semi-scarica, of course). Due o tre movimenti e poi un’ombra di vari quintali che si stacca, rumore, buio e male, malissimo, minchia che male alla gamba destra.

L’istantanea della situazione è la seguente: Thomas è rimasto appeso alla maniglia, con l’acetilene spento e una caviglia e un gomito doloranti. Quello che l’ha colpito è uno zuccone di roccia che ha terminato la sua corsa vari metri più in basso, non prima di aver fatto tappa sul mio quadricipite destro che al momento è un’esplosione indistinta di dolore. Grido qualcosa, mi diranno poi. Non credo di essere stata molto originale e dev’essere un – fa male! – che sfugge mentre provo a muovere la gamba. Eppur si muove. Bene. Nonostante la sberla l’arto risponde: nulla di rotto, a quanto pare. L’immagine spettrale della barella sfuma mentre mi si srotola davanti il percorso da “voi siete qui” a “voi vorreste tanto essere là”. Fuori. Sei ore all’andata. Chissà quante ce ne vorranno a uscire. Nel mentre si propone un ospite sgradito, la sindrome da choc. Sudore, tremito, nausea e lucine intermittenti. Thomas, lui pure un po’ scosso, mi scrolla e mi conforta, La fase acuta dura qualche secondo. L’importanza della vicinanza e del calore di un sapiens in certi frangenti mi si rivela in tutta la sua evidenza. Ora capisco perché avere qualcuno accanto moltiplichi le possibilità di sopravvivenza di un ferito. Decidiamo di scendere senza perdere tempo. I quattro sacchi diventano per magia tre e in un amen mi trovo a montare il dressler sul primo pozzo, con un miliardo di lucciole che mi svolazzano davanti e Zunco sotto che tiene la corda.

La gamba destra fa parecchio male, ma un pochino la appoggio. lnizia il lento cammino per uscire. I miei compari sono la cosa più simile all’incrocio tra un’infermiera e una tata che si sia mai visto sotto la superficie terrestre. Sopra, sotto e di fianco spuntano mani guantate che mi afferrano, aiutano, sollevano.

Il tratto più complicato è il Torrente dei Piedi Umidi: procedere in opposizione per me è impossibile e camminare scalza alla velocità di un bradipo emiplegico non sembra consigliabile. Non resta che bagnare gli scarponi, oppure… Zunco e Thomas si sobbarcano i miei 58 chili di morbidezza (penso intensamente “sono una piuma, sono una piuma”, ma senza risultati apprezzabili) e li trasportano, immersi nell’acqua talvolta fino alla cintola, di isolotto in isolotto. Enrico apre la strada con tutti e tre i sacchi sulle spalle, facendo da navigatore ai due facchini. Mi sento un inutile facocero, mentre i due malcapitati si ingegnano a far progredire la mia carcassa con incredibile sollecitudine e il terzo eroe sembra Mr Crocodile Dundee con tre alligatori sulla schiena, La Confluenza è un’ipotesi, un luogo che pare stia da qualche parte là davanti e che è importantissimo raggiungere. Ma gli armi dell’andata si rivelano provvidenziali e lentamente guadagniamo metri.

– Basta puntare a una piccola meta per volta e la grande meta si avvicina – sentenzia Thomas reso zen dalla disperazione. Mi viene in mente – sintomo evidente di un disagio psicofisico in aumento – un mio eroe d’infanzia: Beppo Spazzino, poetico personaggio di Michael Ende. – Certe volte si ha davanti una strada lunghissima – diceva – si crede che è troppo lunga; che mai si potrà finire il lavoro. Non si deve pensare alla strada tutta in una volta, tutta intera. Si deve soltanto pensare al prossimo passo, al prossimo respiro. Sempre soltanto al gesto che viene dopo. Così deve essere. Questo è importante -. Così, silenziosamente farneticando, procedo. L’atmosfera è buona: salvo imprevisti e iatture diagonali è palese che ce la caveremo con una risalita interrotta, un po’ di ritardo e qualche livido iniquamente distribuito. ln compenso l’incidente ha trasformato quattro speleo semisconosciuti in un organismo efficiente che ha come unico scopo quello di cavarsi fuori di grotta presto e bene. Marines Zunco è una macchina: deciso, rapido, essenziale. A lui si deve l’invenzione del famoso Ascensore a longe, che consiste nell’afferrare (con una sola mano!) la longe lunga del ferito e scaraventare il ferito stesso nell’iperspazio facendogli superare dislivelli proibitivi. Thomas sembra Atlante intento a sorreggere il mio agile posteriore nei passaggi più ostici e insieme a Zunco formano un tandem vincente. Enrico è fantastico: non solo trascina senza fiatare un cumulo di sacchi, ma ancora si profonde in attenzioni e sostegni di ogni tipo. C’è di speciale nelle situazioni critiche che talvolta riescono a tirare fuori il meglio delle persone, mobilitando risorse sconosciute o a lungo sopite. Tra contrappesi e piramidi umane andiamo avanti, lenti ma risoluti come testuggini. Si parla, si chiacchiera, si scherza. Sorrido pensando a Maria Grazie, perché io pure mi distinguo quanto a numero di ringraziamenti profusi per compensare gli sforzi immani dei tre compari.

A cinque ore e un centinaio di migliaia di – grazie – figuriamoci – dall’incidente, siamo alla Confluenza. Da qui all’uscita un essere umano normodotato ci metterebbe un paio d’ore, ma la nostra lenta carovana ci impiegherà più del doppio, regalandosi anche un’involontaria gitarella extra nelle gallerie di Belladonna. Risaliamo costanti, con un’unica pausa presso l’acqua di Belladonna. Siamo ormai sulla frana terminale, dove il soffitto alto e la prossimità dell’uscita iniziano a dare un’illusione di cielo.

Sala Bianca: che bbello! Direste mai che da qui mancano ancora 100 metri di dislivello? lncredibile… – esclama deliziato Thomas, che ha estemporaneamente rivestito i panni della guida turistica per comunicarci l’amena curiosità: quasi svengo sul più bello al pensiero di un rettilineo verticale di metri cento tra noi e l’uscita e il rantolo di commento che proviene dal fondo della fila mi fa pensare che anche Enrico avrebbe preferito rimanere all’oscuro di questa scomoda verità.

Però ormai ci siamo, dall’alto filtra una luce lattiginosa: nebbia. ll consueto fiato di odori violenti a sorprendere le narici e i colori a spiazzare gli occhi. Fuori!!! Abbracci e virili strette di mano a seguire.

Sulla porta della Capanna ci aspetta il comitato di accoglienza, Andrea e Alex hanno già indosso un sottotuta precauzionale. Athos filma quattro sagome infangate, di cui una claudicante, che risalgono il pendio. La didascalia spetta a Thomas, che riassume per tutti: – Ho visto la morte in faccia! -.

Dopo sommarie delucidazioni inizia il duplice processo di elaborazione dell’accaduto. I più versati per la teoria danno luogo a colte disquisizioni sulla collera del Visconte, sulla necessità inesorabile dell’incidente di fine campo e sulla sfiga che porta Thomas. Altri, più pragmatici, in quattro e quattr’otto curano, rifocillano e confortano feriti e illesi. Chiara mi diagnostica un signor pattone alla gamba destra, Andrea mi imbottisce di arnica, io mi spalmo di pomata e ingollo compresse scadute (ma funzionano benissimo!!!) di Brufen. In men che non si dica una bacinella di neve del Colle del Pas scende in Capanna sulle braccia di Athos e Andrea a combattere ematomi e contusioni. Tempo di “com’è andata” e “come state” e “avete fame” che diventa dopo poco, nell’affettuoso calore animale della Capanna, tempo di “abbiamo sonno”. Le ultime immagini che porto con me arrancando verso il Colle dei Signori sono: il succulento riso con gli spinaci dello chef valbormidese d’alta classe ed alta quota Alèx Foglinò (che nel perseguire la sua ars culinaria ha rischiato di farsi incornare da un paio di vacche impermalosite dal furto d’erba), Andrea-Brancaleone che intona – Lungo è il cammino, grande è la meta! – brandendo un bastone alla testa della scalcinata comitiva in marcia verso il Colle, Athos che finge di parlare con il Soccorso per convincere i margari a far passare il fuoristrada di Alex verso la Chiusetta e ancora Athos, avvolto da una nebbia surreale, che saluta con la voce e col gesto l’invisibile mondo di calcare del Marguareis, fermo in piedi al passo di Flamalgal, accanto al Kangoo ipertecnologico: – Ciao Margua, a presto! -.

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