Trilogia delle Valli Sperdute … sotto l’Unghiasse

Quarta ed ultima parte dell’articolo sperimentale, nel senso che è scritto a quattro mani dall’amico Lorenzo Barbiè e da Mario Ogliengo, guida alpina.  Come già sapete dal prologo è multimediale perché durante la lettura sono da attivare i link a brani musicali.
La narrazione, nell’intento degli autori, dovrebbe essere un po’ scanzonatoria ed autoironica, da non prendersi troppo sul serio. Non so se ci sono  riusciti … a voi il giudizio.
“Trilogia delle Valli Sperdute” fa riferimento a 3 gite un po’ speciali,  su montagne “minori”; al tempo in cui sono state fatte erano decisamente sconosciute (forse delle prime scialpinistiche!).
Questa la terza ed ultima delle tre gite  … buona lettura!

L’ottobre scorso si vagabondava su per i sentieri che vanno ai Laghi di Bellagarda, i colori pastello dell’autunno ci accompagnavano. Le Levanne e l’imbuto del Col Perduto si erano già vestiti d’inverno. Un bel gruppo di solidi amici ritorna con i ricordi a tempi andati e a giornate intense vissute negli stessi luoghi, protagonisti di variegate avventure invernali.

Come Plù fa rima con Viù così Crosiasse fa rima con Unghiasse.

Però che nome quest’ Unghiasse, qualcosa di aggressivo, di poco domestico. I nomi esercitano una magia, sono corporei, istintivi o semplicemente evocativi.

Questo qua ce lo ritrovavamo sempre davanti al naso quando ci aggiravamo nell’alta Valle d’Orco. Anche qui ci troviamo di fronte ad una conca parallela o quasi alla valle principale. Curioso, si tratta di una geografia analoga agli itinerari raccontati nelle puntate precedenti.

L’Unghiasse è un montagnone piazzato a cavallo tra la Val Grande di Lanzo e l’Orco. Il vallone si sfila sotto la montagna e prende il nome di Vallone di Deserta, svirgola in basso con un salto che piomba su Gera, una delle prime frazioni di Noasca. Il vallone sembra incassato, ombroso e triste, lontano da sguardi indiscreti, selvaggio e contornato da pareti che scendono direttamente dalla cima. Solo Ugo, si proprio il ‘Manera’, le ha considerate, trovando una bella linea di arrampicata su questo granito appartato. Seduti sui bordi dell’ultimo dei Laghi di Bellagarda, proprio sotto il pendio terminale di Bocchetta Fioria, non abbiamo potuto fare a meno di ritornare a una delle nostre ‘imprese’ invernali.

Una gita un po’ particolare, forse sconosciuta. Sulla carta pareva abbastanza semplice e il dislivello contenuto; ordinaria amministrazione per dei tosti come noi. Quell’inverno era piuttosto magro e secco, neve poca. Succede sovente a gennaio, quando i giorni sono corti e il freddo morde, noi scegliamo i casini migliori nei quali cacciarci. A noi le gite rilassanti dopo un po’ ci annoiano. Non possiamo proprio farne a meno, cerchiamo rogne e quasi sempre le troviamo. Cerchiamo di organizzarci al meglio e non tralasciare alcun dettaglio. Scegliamo accuratamente i nostri accoliti, così ci ritroviamo alla partenza con una armata assai variegata. Questa volta ai soliti ‘Due’ si sono aggiunti Enrico, si proprio quello del Plù, Giuan, che si porta dietro il nome del patrono degli scialpinisti: San Giovanni Battipista, Paola, la Signora di Enrico (si fa per dire) impassibile ad ogni balzano evento, che anzi apprezza, la Luisa, quella di Mario che non sa ancora in che pasticcio si stia cacciando ma lo sospetta, e poi Petrus, lo storico, del quale ci sarebbe troppo da dire o meglio che sicuramente avrebbe da dire sulla storia dei monti siano Cervino od Unghiasse, c’è Teresio, Gesuita originale garantito, che dovrebbe essere meglio di una Assicurazione ma peggio di una catastrofe; altri ancora erano presenti, ma sorvoliamo sulle loro perdute tracce.

Sono le 8 e mezza del mattino quando apriamo le danze che iniziano con qualche mugugno sulla scelta dell’orario. Troppo tardi per qualcuno, troppo presto per altri; ci ridiamo sopra ma avremo modo di ricrederci qualche ora dopo! Da una delle frazioni basse di Ceresole, site sotto la diga, andiamo su per un bosco ripidozzo, seguiamo una traccia di sentiero, che un po’ ci agevola ma ci costringe a lunghi giri e rigiri tra saltini di roccia e colate ghiacciate, come al solito un gran bel terreno per non sciare, ma restiamo ottimisti. Bell’ambiente con vista privilegiata del versate meridionale del ‘Granpa’, e più in basso le belle placche granitiche del Sergent, la nostra piccola California scalatoria. A fianco del Sergent si distingue molto bene la Baita di Rubizzone, la nostra base quando, mollati gli sci, indossavamo bandane e scarpette e su a scorticarci sulle pareti di questi piccoli Capitan. A ben vedere anche noi in quel periodo, inconsciamente, cercavamo un’evoluzione nello sci alpinismo su per pendii dimenticati: un ‘Nuovo Mattino’ versione inverno.

Usciti dal bosco, e vi assicuriamo non fu una passeggiata, ci ritroviamo tra i resti degli alpeggi del Lilliet, nella zona dei Laghi di Bellagarda, cinque laghi sparpagliati a quote diverse. La poca neve ce ne lascia intravedere alcuni. Gli ultimi di questi laghi li troviamo sulla spianata prima del canale-pendio che raggiunge il Colle. Qui l’Armata si è frantumata e qualcuno spunta solo adesso sui piani inferiori.  Impiegheranno un’eternità a raggiungerci e noi abbiamo il tempo di riconsiderare i nostri metodi di selezione. Qualcuno ci raggiunge un po’ provato, altri sono decisamente alla frutta. Le ore passano inesorabilmente. Da qui al colle ci aspettano non più di 200 metri di dislivello ma la neve è quella che è, dura e placcosa. In aggiunta in quei tempi i coltelli che si applicavano agli sci, i ‘Bilgeri’, godevano della robustezza delle posate di plastica, non ci erano di grande aiuto e pochi li avevano. E allora via con i cambi di assetto. Togli gli sci, sbattili sul sacco, picchia sulla neve dura, sbuffa e arranca e non vi diciamo l’inferno di quelli che ci seguono con le gambe molli e il rantolo in agguato.  Nonostante questo sfacelo, al colle, dal poetico nome di Bocchetta Fioria, troviamo il tempo di scolarci una buona bottiglia che l’Enrico si era ritrovata nel sacco. Per non farci mancare niente lo accompagniamo con risottino semi congelato sortito miracolosamente dallo zaino dell’imperturbabile Paola. Noi atleti ci reidratavamo in questo modo. Non mi dilungo troppo sulle reazioni dei ‘cucinati’, rammentiamo solo che l’ineffabile Gesuita utilizzò espressioni non propriamente in linea con la carità e la morale cristiana. Siamo a 2400 metri ma per alcuni la sensazione è quella di essere sopra i 7000.

Dei geni, socio, siamo proprio dei geni”. Sono le 4 del pomeriggio, e adesso?

Il versante opposto, quello che guarda Noasca, per intenderci, e che intendiamo percorrere in discesa, si presenta in buone condizioni: terreni aperti e non troppo impegnativi. Si è fatto tardi, troppo tardi, così scappiamo giù per il Vallone di Deserta, un nome che è una garanzia. Siamo abbastanza veloci da superare un bel mille metri prima che il buio arrivi. Ci piantiamo nella prima penombra; impieghiamo un bel po’ per reperire una vaga traccia di sentiero. Stentiamo a credere ma qualcuno estrae una frontale dal sacco; perfetto! peccato che le pile siano completamente scariche. Buio completo e pedalare. Pedalare si fa per dire, ci trasciniamo a tentoni, giù per questa vaga traccia annusandola di continuo per la paura di perderla, tirando e spingendo i derelitti. Pietre, fogliame imputridito, ghiaccio e ramaglie secche ce la metteranno tutta per ostacolarci, poi, improvvisamente, intravediamo un bagliore, la classica lucina delle fiabe. Dopo poco entriamo trionfanti, si fa per dire, a Gera dove uno dei due o tre residenti della frazione, una signora per essere esatti, ci accoglie con questa espressione ‘vui autri seve tuti mat’, facile da capire e forse non aveva tutti i torti.

Ancora una volta la sosta al freddo sarà lunga, nell’attesa che qualcuno ci recuperi per tornarcene a casa.

E’ stata un’esperienza contradittoria e bizzarra ma anche positiva: nonostante la nostra incoscienza nessuno è finito al Pronto Soccorso e noi due forti del successo conseguito avremmo cercato altri obiettivi. Peccato che da quel giorno qualcuno degli splendidi eroi che avevano condiviso con noi gioie e dolori non si sia più prestato a vivere altre mirabolanti avventure. Un vero peccato, nuovi proseliti ci attenderanno.

 Epilogo

 E siamo qui, “noi che avevamo trent’anni, che abbiam girato il mondo e l’America e adesso siamo stanchi”.[1]

Qui in una gita divenuta ormai classica, percorsa quasi a getto continuo, ad ogni ora del giorno e talvolta della notte. Il fiato è corto ma anche oggi siamo in cima. Non ci hanno lasciato molto spazio per qualche bella traccia, tutti andavano a mille. Ma non preoccupatevi, se la cercate, qualche bella conca nascosta, qualche valle dimenticata la troverete sempre, fidatevi.

“This Land is your Land” è la ballata di Woody Guthrie per noi vagabondi delle Nevi.

[1] Citazione dalla canzone Intorno ai Trent’anni di Mimmo Locasciulli.

 

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