Le forme della neve

L’amico socio ed accompagnatore Emilio Botto ci regala questo bel racconto di gita sulla neve ai tempi del lockdown

Che fatica svegliarsi la mattina quando da una settimana la pioggia scende ininterrottamente e per di più dopo oltre un mese chiusi in casa!

È ormai trascorso un anno dal primo momento in cui ci siamo, nostro malgrado, trovati ad affrontare questa impensabile epidemia.

Qui intorno è tutto zeppo di acqua ma per lo meno, quasi certamente, più in alto sarà nevicato e la montagna dietro casa si sarà imbiancata” pensai. Mi affacciai alla finestra che guarda a nord, la montagna appunto, ed ebbi la conferma. Neve dalla cima del monte Soglio fino alle case nella frazione più bassa prossima al paese.

La prima impressione che si ha della neve è la trasformazione del paesaggio. Qualunque esso sia. Lo abbellisce sempre. Cancella ogni imperfezione. Chi non è rimasto in vita sua suggestionato, almeno una volta, da un paesaggio innevato?

È questa la più elementare forma della neve. La più apparente. Immediata.  Calzati gli scarponi e riempito lo zaino con il minimo indispensabile uscii di casa. Fa sempre una certa piacevole impressione scoprire che l’asfalto dopo le prime curve si era colorato di bianco per quella leggera patina di nevischio ghiacciato che lo ricopriva. Qualche auto mi passò accanto slittando sui tornanti. Ma erano poche le macchine che si vedevano in quei giorni avventurarsi fin quassù. Meglio così.  Ci furono altri giorni di maggiore frequentazione. Non è una montagna tormentata dai visitatori quella che abita dietro casa. È una montagna paesana frequentata per lo più da chi abita alle sue pendici e pochi altri che la salgono dalla valle adiacente. Lontana dalle mete alpinistiche classiche. È alta poco meno di duemilametri ma è quel tanto che basta per squalificarla ai turisti dei quattromilametri. Per intenderci quelli che i primi duemilametri li percorrono in auto e funivia.  Ultimamente chi ha meno anni di me la percorre correndo. Ogni tanto lo vorrei fare anche io. Non mi dispiacerebbe correre un po’ con lei ma si sa, non sempre ciò che si desidera è realizzabile specie quando la mente è giovane ma il fisico non ti segue.

In questo periodo di epidemia, dove gli spostamenti sono limitati e siamo tutti obbligati a vivere l’ambiente circostante le nostre abitazioni, va bene comunque anche questa montagna ed inaspettatamente piace a tanti.  Si direbbe viva una nuova giovinezza. Scrivo questo perché tutta la vallata sottostante fu ben abitata e frequentata nel secolo scorso a cavallo delle due guerre mondiali e negli anni immediatamente successivi. Poi il declino economico ed il conseguente lento abbandono alla montagna fu inevitabile. Però lei è rimasta immutata nella sua bellezza. Le montagne sono così sempre. Belle ad ogni età. Sono solamente cambiati i frequentatori. Forse.Cantello, Brach, Bosonetti, Vignetti, Fopa, le frazioni. Altre case si scorgono fra gli spogli rami degli alberi, sono le frazioni di Cimapiasole e Valnuovo. La strada continua fra i tornanti che in un tempo nemmeno troppo remoto erano, almeno una volta l’anno, pista per una gara di velocità in salita. Ora non più. Sono però ancora visibili alcune testimonianze e la neve ha imbiancato anche questi ricordi conferendo loro un’aurea malinconia. Un po’ dopo, il pilone recentemente restaurato per un ex-voto, preannuncia l’arrivo ai Milani (la frazione) ed infine al santuario omonimo. Il Santuario della Madonna dei Milani.  La sua storia si perde nei secoli e tutto ebbe proprio inizio da un semplice pilone per l’appunto.  La strada termina. Oltre non si può proseguire con le autovetture. Un piccolo piazzale. Una fontana ed un paio di panchine.  È mia abitudine d’estate arrivare fin quassù in macchina e sui gradini del santuario calzare gli scarponi prima di incamminarmi su per il sentiero che si addentra nel bosco. È questa l’occasione per soffermarsi un attimo e leggere la prosa che è stata affrescata sul muro della facciata a fianco del portone di ingresso.

Inizia così: “Magnifica il Signore anima mia perché hai guardato l’umiltà della tua serva …”.

Devo confessare che oramai giunto alla soglia dei sessanta anni non ho ancora compreso il senso profondo di queste parole.  Ma da sempre, fin da quando giovane adolescente le ascoltai in montagna in altre valli, hanno suscitato in me un grande fascino. Non mi prodigo certamente adesso e tedio alcuno in difficili argomentazioni letterarie ma ci tengo però a scrivere che da sempre mi paiono buone parole per iniziare un cammino, iniziare un sentiero che porta in cima ad una montagna ricordandomi della magnificenza con la quale noi guardiamo verso la vetta e come dall’alto la nostra piccolezza può essere osservata. Sono le parole che determinano un punto di contatto tra un immaginario che giustifica la nostra esistenza e l’esistenza stessa.

Chissà. È un connubio misterioso.

Con questo spirito mi avventurai nel bosco innevato. Quello che solitamente è un sottobosco fitto di rovi e sterpaglie di ogni genere era stato completamente trasformato dalla neve.  Quell’informe groviglio di rami, foglie sospese, tronchi rotti, secchi e malamente spezzati parevano i fitti ricami bianchi di un prezioso merletto.  Mani abili e mente eccelsa lo avevano tessuto nel cuore della notte per essere visto solo alle prime luci dell’alba. Il sole del tardo mattino lo avrebbe dissolto.  La neve si posa sul fianco del tronco ove il vento della notte la trasporta.  Si incunea nelle giunture dei rami, si deposita sulla punta delle foglie, le avvolge, si appende infine gocciola. Una meraviglia.

Il sentiero si inerpica nel bosco innevato attraversandolo e trovando il bandolo di quel fitto incantato reticolo bianco. Giunge fino alla sommità della prima alpe dove infine il bosco dirada. Mi mossi sul manto di neve immaginando di percorrere il sentiero estivo fino a giungere all’ultimo piccolo arbusto solitario che abita in prossimità di quello che dopo un piccolo stretto passaggio fra due piccole rocce segna l’inizio della salita alla montagna vera e propria.

Ora, non più nascosta dagli alberi, la montagna finalmente si palesò difronte a me. Non ci furono altre tracce immaginarie da seguire. Una unica distesa bianca fino alla vetta.  Osservai la montagna e le colonne della tormenta che flagellavano la sommità. “Vuoi salire per la verticale diretta?” mi dissi. Sarà per una prossima volta, decisi. Il desiderio di vedere anche l’altra vallata prese il sopravvento.  Decisi così per il sentiero che in estate giunge in vetta per il versante che guarda ad est. Da questo sentiero ebbi modo di vedere il Cervino. L’ultimo spigolo del monte africano si para sempre davanti non appena si arriva al primo colletto che svalica sulla cresta. Da una piccola montagna, una grande montagna. L’occhio le unisce, le concatena e a me piace pensare a questo come il gemellaggio dei monti.

Su quel tratto di montagna la neve, non incontrando più alcun albero sul suo cammino, si comporta in tutt’altro modo rispetto al bosco sottostante. I pendii sono una perfetta distesa bianca. La neve evidenzia l’andamento del terreno quasi ovunque. Sì quasi ovunque.  In altri punti il vento ed il freddo della notte hanno disegnato strani pinnacoli sul manto nevoso.  Creano variegati disegni, piccoli avvallamenti, una vastità incredibile di segni di ogni forma e dimensione. Pare come l’immenso tamburo cilindrico del carillon. Se avessi potuto sfiorare con una mano la distesa bianca che avevo innanzi questa forse avrebbe emesso tanti suoni quanto le infinite imperfezioni sulla neve. Avrei potuto ascoltare questa infinita melodia ad ogni mio passo. Chissà.

La ripida salita fu fatica ed il vento non concedette alcuna tregua mentre soffiava verso la vetta sollevando quanta più neve poteva.  Non ci fu la pace attesa che è solita dell’arrivo in punta. Troppo vento. Tormenta. Bufera. Azzardai uno scatto per immortalare l’arrivo. Impossibile. Le dita si gelarono nel breve attimo che cercai di aprire lo zaino il quale a sua volta si riempì di neve. Fu inutile insistere tanto sarei salito una prossima volta nelle settimane successive. Mi guardai intorno. Fu anche impossibile guardare oltre il pilone della Madonna, oltre il ceppo di vetta, oltre il parafulmine, oltre la rosa dei venti, oltre qualunque oltre. Avrei voluto salutare con lo sguardo il Gran Paradiso che in tutta la sua magnificenza si ammira da questo punto della valle.  Impossibile fu proprio tutto impossibile. La neve spazzata sollevata dal vento era ovunque ed occupava ogni spazio intorno a me.  Scesi. Nessuna sosta questa volta.

È primavera quando scendo dalla montagna.  Inevitabilmente camminando fronte a valle lo sguardo è sempre fisso alla pianura sottostante.  Tutto il Canavese si para di fronte.  Ma proprio tutto! Gli occhi sono sempre pieni della vista che spazia dalla morena che si incunea nella valle d’Aosta alla collina del Torinese che fa da ponte alla vista ancora più ad ovest dello svettante Monviso.  Nelle limpide giornate di primavera, quando ancora non è arrivata in pianura la calura estiva si possono osservare le distese risaie del Vercellese, le gigantesche torri di Trino e quando proprio il cielo è più limpido del blu si può distinguere quella che in passato era la città famosa per i suoi tessuti (Biella) e da qui con un po’ di immaginazione risalire l’omonimo torrente fino al lago Mucrone ed al monte che lo sovrasta. È bello ripassare in questo modo un po’ di geografia ma ancor di più sapere che questa mirabile cartina geografica è stata percorsa a piedi dall’una all’altra valle. Lascio che la mente vaghi nei ricordi dei luoghi. La fredda foresta sulla sommità della morena, dove questa s’attacca al Mombarone, immaginata essere così fredda per i millenni passati sotto il ghiacciaio a cercare di germogliare oppure il bosco attraversato al buio, dove nemmeno con la pila frontale accesa riuscii a trovare la minima traccia di un sentiero volendo lasciare Bose alle mie spalle diretto a Viverone passando per Zimone e poi giungervi in piena notte.

La neve è rimasta sulla vetta. Nel bosco il primo tenue caldo inizia a fare il suo corso sugli alberi e più in basso ancora la neve al bordo della strada ha lasciato il passo ai rigagnoli di acqua prima e spazzato le foglie dell’autunno poi.  Già si sentono gli uccelli, che mai hanno abbandonato questa montagna, che festosi salutano la bella stagione che arriverà. Si scorgono nelle assolate mattine di primavera le nebbie coprire interamente le case. I paesi svaniscono alla vista e solamente qualche campanile riesce a farsi notare qua e là. Mi tornano in mente altri pensieri, altre parole.

Se io fossi un albero / tu l’orologio del campanile che scandisce il tempo / all’imbrunire rosa della sera potremmo vedere lontano le luci della battaglia / ascoltare gli echi della guerra nei lamenti dei guerrieri caduti nel giorno appena trascorso / nell’inutile quotidiano fatto con le foglie del nostro giardino

Chi le scrisse?

Ed infine …

Ho trascorso questi mesi del lockdown salendo ogni domenica in cima alla montagna che ho dietro casa.  In occasione di ogni salita scorgevo un particolare nuovo mai notato prima. Una cassetta da lettere di colore rosso, un cespuglio, il frammento di un dipinto dentro un pilone votivo, la pietra sporgente da un muretto di cinta. In questi mesi ho ammirato la natura fare il suo corso dalle gelide sconsolate domeniche dell’inverno alle più tiepide sorridenti della primavera.  Tutto questo sempre e solamente girando attorno e poco oltre la mia casa.

Camminando attorno ogni nostra casa, ovunque essa sia, c’è sempre una foglia che cade da un albero, un gatto randagio … una cassetta delle lettere di colore rosso.

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