Un bellissimo articolo della amico Andrea Giorda su una protagonista dell’arrampicata in rosa pubblicata l’11/11/24 sul GognaBlog
Paola Mazzarelli a 42 anni dalla prima salita femminile della Fessura Kosterlitz, racconta come andò e la nascita della scalata moderna.
Non mi dire che non sali la Kosterlitz!
di Andrea Giorda
Non si può negare che la diffidenza degli uomini verso le donne alpiniste abbia radici ben profonde, non voglio rubare il mestiere all’amica Linda Cottino che sul tema ha scritto appassionati libri ed articoli.
Io poi sono poco credibile come paladino delle donne, perché mia mamma era una femminista, anzi a 94 anni è una femminista (!).
Va detto che quella nonna materna aveva da sempre osteggiato mia mamma, perché voleva andare in montagna. Negli anni ’40 era una eresia in una casa di operai, con i soldi contati e ci riuscì solo di nascosto e con la complicità di mio nonno.
Le donne e l’alpinismo erano mondi separati, le alpiniste erano quasi una curiosità, un’eccezione, forse un sogno di noi ragazzi.
Alla Scuola di Alpinismo Gervasutti, dove insegnavo, le donne erano rarissime e da poco ammesse come allieve. Pino Dionisi, il fondatore della Scuola, negli anni ’60 aveva separato i sessi in corsi differenti, perché durante un’uscita sul Monte Bianco, al bivacco Gervasutti, nella notte, una coppia era salita su una branda che cedendo aveva rotto il polso ad una ragazza che dormiva al piano di sotto. Apriti cielo!
La montagna, l’alpinismo e il mondo CAI sono sempre stati visti come una Chiesa, un mondo paramilitare, dove le donne potevano essere solo d’impaccio a uomini votati all’alta missione della montagna e le montagne erano, appunto… vergini da conquistare.
Al Club Alpino Accademico, un sodalizio noto non certo per le vedute progressiste, le donne non potevano proprio essere ammesse. Si diceva allargando le braccia, con motivazioni pseudoscientifiche, che la loro struttura fisica e mentale non era adatta alla lotta con l’Alpe.
Ciò che fa specie è che a difendere la tesi nel CAAI ci fossero personaggi come Renato Chabod. Proprio lui che nel 1935 scalò in seconda ascensione la Nord delle Grandes Jorasses con Giusto Gervasutti e una cordata con Raymond Lambert e Loulou Boulaz, classe 1908, un simbolo per l’Alpinismo femminile.
Loulou, svizzera, comunista e femminista negli anni ’30 (!), detta Red Loulou la regina delle Nord, compie oltre la prima ripetizione della Nord delle Jorasses, la scalata del Petit Dru da nord e nel 1937 addirittura un tentativo alla Nord dell’Eiger, sarebbe stato un bello smacco alla propaganda nazista. Non aveva bisogno degli uomini, con l’amica Lucile Durand fece scalate memorabili sul Monte Bianco.
Nulla da fare anche per l’Alpine Club inglese, omologo del CAAI, le inglesi hanno lottato e sono entrate di diritto, nel Club riservato agli uomini, solo nel 1974.
La scalata femminile nei primi anni ’80 ha avuto una crescita esponenziale. Catherine Destivelle e Lynn Hill hanno rotto il tetto di cristallo consacrandosi alle gare di Bardonecchia nel 1985. Lynn è stata la prima persona a scalare la via del Nose sul Capitan in libera, obiettivo arduo, ancora oggi, per scalatori uomini di fama.
Le Donne e la Valle Orco
Il tema delle donne è emerso quando mi è stato chiesto di tenere una serata all’Eagle Team di Matteo della Bordella sulla storia della Valle dell’Orco. Le ragazze dell’Eagle Team danno per scontata la parità dei sessi, ed io ho cercato di ricavare uno spazio per raccontare delle donne in Valle Orco, mettendo in evidenza che loro sono il frutto di una evoluzione recente.
Nel passato non sono molte le donne in verità: tra i primi salitori del Diedro Nanchez, nel 1974, leggiamo di Laura Trentaz. Era stata allieva di Ugo Manera alla scuola Gervasutti e invitata da Piero Pessa, che la ricorda oggi come una ragazza decisa, che di fronte alle titubanze di Roberto Bonelli a caricarsi uno zaino, sorpresi dal buio e dalla neve in cima al famoso diedro, non fece storie e se lo portò a valle.
Per la prima volta, la mia generazione nella seconda metà degli anni ’70 scalava e coinvolgeva le fidanzate. Alla Baita di Sitting Bull erano presenti, Anna Caudana, Luisa Dusi, Velleda Mauro (figlia del primo salitore del Pilier Gervasutti), Lella Casalone e tante altre… ebbe un ruolo da protagonista Anne-Lise Rochat, accademica, che spesso scalava in Valle con Alessandro Gogna.
Nuove rivelazioni
La nuova Guida di arrampicata della valle dell’Orco di Versante Sud ha dato spazio a molti protagonisti e permesso di conoscere fatti importanti nella storia della Valle, una fra tutte la prima scalata femminile della Fessura Kosterlitz.
Stefano della Gasperina, l’autore, ha pubblicato a piena pagina la foto scattata da Gianni Battimelli di Paola Mazzarelli che scala la fessura Kosterlitz nel 1984 , lasciando tutti basiti, scopriamo ora che l’aveva già scalata nel 1982, con relativa facilità, più semplice di quelle che aveva scalato nel Peack District in Inghilterra.
La prima salita italiana era stata di Roberto Bonelli, nel 1978, otto anni dopo quella di Mike Kosterlitz del 1970 . Un passaggio estremo per l’epoca.
Paola la conoscevo bene, negli anni ’70 eravamo entrambi istruttori di Sci Alpinismo alla SUCAI di Torino e frequentava, come Gianni Battimelli, la baita di Sitting Bull a Ceresole, quando questo piccolo rifugio era il centro di aggregazione in tutta la valle. Un luogo dove si faceva la piccola grande storia e sono passati un po’ tutti.
Paola l’inglese
Il nome di Paola Mazzarelli, classe 1951, ai vecchi lettori della Rivista della Montagna e di Alp non è sconosciuto. Molti sono i suoi articoli apparsi sulla storia dell’Alpinismo focalizzati su personaggi come Coolidge o Mummery .
Di lavoro traduttrice dalla lingua inglese ci ha regalato la versione italiana del libro di Joe Simpson La morte sospesa ed ora sta lavorando alla collana di Gialli di montagna di Glyn Carr edita da Mulatero.
Altri suoi articoli dei primi anni ’80 raccontavano le sue esperienze di arrampicata nel Regno Unito, in Verdon o sulle torri in Boemia dove ancora vigeva il clima della Guerra fredda. Gli articoli di Paola sono sorprendenti per la capacità di descrivere le persone e il carattere dei popoli che incontrava. Sono una preziosa testimonianza dell’epoca e dovrebbero essere ripubblicati. Nella raccolta Montagne di parole di Stefano Ardito e Gianni Battimelli del 1986 è l’unica donna presente come autrice, con ben due pezzi.
Incontro Paola nella casa di famiglia dove ad ogni piano c’è un Mazzarelli, mi spiega che la casa fu fatta costruire negli anni ’30 da suo nonno che era il Direttore delle Manifatture di Pont Canavese e suo padre è nato a Pont. Un bel legame con la Valle Orco.
Paola come hai iniziato a scalare?
Con amici della Sucai di Torino, alpinismo classico, in scarponi, una bella palestra per fare esperienza in montagna. Ma avevo anche il desiderio di viaggiare, nel ’76 andai in America e feci un avventuroso viaggio in Guatemala, al ritorno maturò la mia idea di insegnare Italiano in una Università Inglese.
Dopo infruttuosi tentativi via posta, decisi di partire per l’Inghilterra e mi andò bene, mi presero all’Università di Warwick nelle Midlands vicino a Coventry.
Come sei venuta in contatto con l’arrampicata inglese?
L’arrampicata era una delle attività sportive dell’università. All’interno della palestra c’era un muro di arrampicata, cosa mai vista in Italia.
Feci amicizia con il gruppo scalatori e in particolare con due forti personaggi Hugh Woodland e Phil Revell, loro conoscevano Mike Kosterlitz.
Durante i week end si andava a scalare nei luoghi classici. Il Peak District dove c’erano durissime fessure di arenaria, ma ci spostavamo ovunque, in Galles al Dinas Cromlech o alle scogliere di Gogarth, l’eperienza più estrema, dovevi leggere sul giornale a che livello era la marea per attaccare le vie.
Sì, ci ho scalato anche io, roccia incerta, spesso umida, muffa, soste rarissime e foche che rompono il silenzio nel cielo plumbeo, chi parla di trad in Italia non ha idea di questi posti, affascinanti ma severi.
Io ero molto invidiata perché mi muovevo con la mia Panda prima maniera, essenziale, ma ottima per dormire all’asciutto quando gli altri nelle tende andavano a mollo.
Cosa ricordi in particolare di quell’esperienza inglese?
Era tutto diverso, arrampicavano in scarpette e anche io me le comprai, le EB Supergratton. Il livello era molto alto, la scalata in fessura era una novità e di giorno in giorno mi sentivo brava e lo dissi a Hugh. Non commentò, ma mi portò a fare una via dove non stavo attaccata, volavo in continuazione, ero molto distante da loro.
Veniamo alla Fessura Kosterlitz
Ritornai in Italia e con me venne Phil, lo portai in Valle dell’Orco perché quella era la novità del momento, gli feci vedere la Fessura Kosterlitz come un trofeo, la scalò con facilità. Io ero timorosa ma mi convinse a provarla “Non mi dirai che non scali la Kosterlitz, da noi hai fatto fessure ben più dure” in effetti la scalai al primo tentativo, era il 1982.
Praticamente quel modello di scalata che noi faticosamente cercavamo di imitare e imparare dalle riviste tu l’avevi vissuto in diretta.
Sì, in Inghilterra ho visto un modo di scalare nuovo. In Italia un personaggio noto mi disse che avevo le mani piccole e per me la Kosterlitz era più facile, credo che fosse stupito che una ragazza avesse scalato con facilità la fessura e cercava di farsene una ragione.
Io ti ho visto scalare in tante occasioni, in Valle Orco, in Piantonetto, all’Envers des Aiguilles, da prima e con una sicurezza e agilità che molti uomini all’epoca si sognavano.
Con Phil dopo la Valle dell’Orco andammo a scalare in Dolomiti e ricordo un’interminabile via sul Sass Maor con un grande masso incastrato.
Hai vissuto intensamente gli albori della nuova arrampicata dei primi anni ’80, quali luoghi, esperienze e personaggi ti sono rimasti impressi?
L’elenco delle scalate è lungo, spaziavamo in tutte le Alpi dalle Dolomiti : le Tofane le Cime di Lavaredo, alle Alpi centrali: il Badile, Il Cengalo. Sul Monte Bianco scalai l’Aiguille Noire quasi tutta da prima e feci diverse altre salite come le Petit Jorasses con Giovanni Bosio e Alessandro Nacamuli. Con Anne-Lise Rochat il Grépon. Sul Gran Capucin la via degli Svizzeri a tiri alterni con Walter Vergnano.
Ho scalato tanto con donne, una eccezione per l’epoca, con Anne-Lise Rochat per esempio e una volta con Renata Rossi, che conobbi ad un raduno di donne alpiniste proprio in Inghilterra.
Ho dovuto anche soccorrere un compagno di cordata caduto rovinosamente sulla Sud del Castore. Al tempo non c’erano i cellulari e dopo avergli fatto una iniezione anti shock, ho dovuto scendere da sola dalla parete e andare a chiamare i soccorsi, salvando la vita al mio amico. Ero terrorizzata, sul ghiacciaio, slegata temevo di finire in un crepaccio, non mi avrebbero mai più ritrovata.
Ma la tua grande passione era l’arrampicata difficile su roccia, hai visto posti che ora sono famosi ma al tempo erano novità assolute.
Scalavamo a Finale, nel sud della Francia si scoprivano nuove falesie per noi italiani, come St. Victoire, le Calanques ma il Verdon era la mia preferita, spesso in compagnia di Annelise.
E poi Sperlonga, Gaeta dove conobbi Gigi Mario personaggio carismatico, e Andrea Di Bari .
Con Andrea Gobetti ricordo un viaggio dove andammo a trovare Patrick Berhault, Andrea era suo amico.
Con Marco Bernardi, Giovanni Bosio e Renata Rossi andammo ad esplorare le torri di arenaria in Boemia, era spaventoso, usavano solo nodi incastrati e l’unico che fece qualche via interessante fu Marco Bernardi. Per noi scalare era una attività ludica, individuale, per i cecoslovacchi, in piena Guerra Fredda era una competizione nazionale, con classifiche che davano accesso a previlegi, come poter espatriare. La loro accettazione del rischio era inaccettabile, per loro una questione di vita.
Quest’anno alla Scuola Gervasutti abbiamo un Direttrice di Corso donna, Martina Mastria e anche all’UGET Torino “Scuola Alberto Grosso” la Direzione è di una donna, Patrizia Romagnolo: molto è cambiato. Al corso di arrampicata base abbiamo 19 donne allieve e 17 uomini. Queste giovani donne sono protagoniste anche grazie a chi, come te, ha dimostrato che le ragazze possono raggiungere qualsiasi traguardo.
Regalaci un ultimo flash di quegli anni di scoperta che hai vissuto.
In Verdon,1984, ho visto Jerry Moffat che scalava Papi on sight. Una pietra miliare della storia dell’arrampicata, una leggenda, una grande emozione.
Ma tu avevi dei modelli, delle figure femminili di riferimento?
Non ho mai avuto modelli, né donne, né uomini. Tutto quello che ho fatto in vita mia, alpinismo e arrampicata compresi, l’ho fatto perché, ho scoperto che mi divertivo. Ho avuto molti maestri, certo: persone che mi hanno insegnato. Ma loro erano loro e io ero io.
Vorrei che si capisse questo: io non ho mai pensato a me stessa – e questo vale anche per la montagna – in termini di genere. Non sono mai stata femminista, non ho mai pensato di dover rivendicare una parità con i maschi: mi sono sempre sentita alla pari senza pormi il problema. Né ho mai pensato di non poter fare una cosa perché ero una donna.
Come potevo cambiare le ruote della macchina o mettere le catene, stirare una camicia o salire su un albero a tagliare un ramo secco con la sega a motore , potevo arrampicare da prima. Il fatto che, tornata dall’Inghilterra, mi sia trovata a essere tra le prime donne in Italia che arrampicavano da prime su certe difficoltà è stato un caso, una contingenza storica sulla quale può avere un qualche interesse riflettere a posteriori, se vogliamo raccontare un pezzettino di storia dell’arrampicata italiana. Ma all’epoca io non ci pensavo.
Se partivo per il Verdon o andavo ad arrampicare con Annelise Rochat non pensavo che formavamo una cordata femminile, ma solo che eravamo amiche ed era logico andare insieme. Mi piaceva andare da prima, o a tiri alterni, più che da seconda. Ci trovavo più gusto. Ma questo vale per chiunque, credo. E mi piaceva misurarmi con quelle che per me erano (moderate) difficoltà. Ma sapevo di non essere poi molto brava: intorno a me quasi tutti i miei compagni di cordata e gli amici con cui andavo in montagna erano più forti, o più resistenti, o più spericolati…
Cosa pensi delle ragazze di oggi, che fanno gradi inimmaginabili, come il 9b?
Che sono brave. Ma penso lo stesso di chiunque faccia il 9b, ragazzi e
altri generi intermedi compresi. Immagino siano “professionisti”, cioè,
che facciano praticamente solo quello, come qualunque atleta che sia nel
suo sport ai massimi livelli.
E’ una dimensione completamente diversa da quella in cui ho sempre pensato la montagna e l’arrampicata io: per me era sempre e solo svago, una parte della vita che affiancava il resto, lavoro, affetti, responsabilità; e che per mia fortuna col resto si armonizzava quasi sempre; quando non è stato così, di solito a farne le spese è stata la montagna. Per mia scelta, naturalmente.
Andrea Giorda