Il nostro “falso” Nuovo Mattino

La primavera è alle porte ma, aihmè,  siamo diventati ROSSI!
L’amico scrittore Carlo Crovella  ci regala un bel racconto già pubblicato su GognaBlog il 27 marzo 2017. Buona lettura …

Conobbi così i californiani della città più distante da Frisco che esista al mondo: Motti, Grassi, Galante e i loro colorati compagni… tra Kerouac e Pavese, fra la voglia di diventare dei “grandi” riconosciuti e quella di vivere nuove avventure, di vedere nuove cose, o rivedere quelle vecchie in maniera diversa, meno asfissiante…
(
Andrea Gobetti, Una frontiera da immaginare)

È oramai storicamente conclamato che la conclusione del Nuovo Mattino coincida con la scomparsa di Danilo Galante (Gran Mantì, maggio 1975). Questa indiscutibile affermazione va però riferita al “vero” Nuovo Mattino, quello dei big, dei personaggi di spicco. In realtà è esistito, almeno nell’ambiente torinese, un altro Nuovo Mattino, un movimento parallelo, una specie di sottobosco costituito da una moltitudine di 18-20enni che, come il sottoscritto, si sono affacciati all’arrampicata nella seconda metà degli anni ’70. Il “nostro” Nuovo Mattino è quindi durato ben oltre il maggio del ’75, anzi per certi versi si è innescato proprio quando il Nuovo Mattino vero si stava spegnendo.

Una storica copertina di Scàndere: Marco Camanni sulle placche finali di Itaca nel sole (Caporal, Valle dell’Orco). Si noti la contemporanea presenza di elementi “classici” (la staffa, il casco Galibier, la camicia a scacchi) e di novità tecnico-comportamentali  (le varappes, la tuta, i primi chiodi a pressione)

Il nostro è stato un modo di affrontare la roccia per emulazione: ci mettevamo una fascia fra i capelli, oppure rimboccavamo i calzettoni colorati sopra ai jeans e ci pareva di essere Motti, Grassi e Galante. Nella patta dello zaino avevano sempre un libro, spesso con le orecchie rialzate dall’uso. Poteva trattarsi di una guida, in genere la Sbarua di Motti o la Val Susa-Val Sangone di Grassi, oppure di uno dei libri cult del periodo: Un alpinismo di ricerca e La Parete di Gogna oppure Una frontiera da immaginare di Andrea Gobetti. Ne conoscevamo il testo a memoria e lo sbandieravamo in ogni istante, spesso a sproposito: “la sfida elevata a sistema” (da Un alpinismo di ricerca) oppure le insümmiate (sbronzarsi come scimmie) di gobettiana memoria.

Ma vivevamo anche noi i nostri cento nuovi mattini: “cigolavano” sui passaggi come Crazy Horse (al secolo Roberto Bonelli), solo che lo facevano due gradi sotto di lui; nel terriccio alla base delle vie scrivevamo “Attenzione: caduta dell’Io”, come il Gobetti del Vercors; discettavamo animatamente su questo o quel modello di varappes: meglio le E.B. blu e grigie o le P.A. rose e nere? I più evoluti di noi erano già pronti per le successive San Marco, quelle gialle e nere come giaguari.

Ma soprattutto ci scaraventavamo con entusiasmo all’attacco delle grandi imprese dei Maestri, dalla via Cannabis del Sergent ai Tetti a Zeta in Provenzale, spesso tornando giù dopo due tiri, che però ci impegnavano per l’intera giornata, data la nostra modestia. Chi aveva agganci nella Gerva riportava le istruzioni di Manera: “Poche bale: a venta fé d’salite!”, però quello che contava per noi non era uscire dalle vie, ma vivere un’esperienza oltre gli stretti limiti dell’arrampicata. Così interpretavamo il free climbing, neologismo che si stava diffondendo a macchia d’olio sul finire dei ‘70: un viaggio iniziatico alla vita, un modo per sdoganarci dal rigido (specie qui a Torino) modello dei genitori (non solo anagrafici, anche alpinistici), che ci avevano introdotto alla montagna negli anni precedenti.

Si creò quindi un’onda lunga che derivò dai mitici big e proseguì oltre la loro fase più unita e intesa. Infatti durante il “nostro” Nuovo Mattino, loro, i big, stavano già percorrendo altre strade, spesso divergenti o addirittura contrastanti. Li seguivamo per interposta persona, leggendo i loro articoli sulla Rivista della Montagna o su Scandere (prestigioso annuario del CAI Torino). A proposito è Scàndere (in latino salire), mi raccomando l’accento giusto, quello che cade sulla a.

Dall’album personale di Crovella: arrivano le varappes P.A., Orsiera, seconda metà dei ’70

Ci accapigliavamo in arrovellate discussioni fra l’evoluzione mottiana e quella dei suoi compagni, fra la scelta di un castello per pochi iniziati e l’apertura verso una grande platea di possibili fruitori dell’arrampicata e delle sue bellezze.

Ci impegnammo anche in episodi al limite. Una leggenda metropolitana, in verità mai acclarata ufficialmente, raccontava che, negli anni d’oro del Nuovo Mattino, capitò un evento cittadino molto particolare. Una sera il gruppo del Nuovo Mattino era uscito dalla sede del CAI, in Via Barbaroux, e si interrogava sulla possibilità tecnica di innalzarsi lungo lo spigolo di un palazzo posto all’angolo fra Via Roma e Piazza Castello. Siamo in pieno centro della città, i portici sono abbastanza frequentati anche in tarda serata. Non si sa se per inconscia evoluzione della discussione o se per premeditazione di qualcuno, pare che sia stata lanciata una sfida, una scommessa sulla possibilità tecnica di salire davvero quello spigolo. I racconti tramandati sostenevano che Gian Carlo Grassi fosse salito almeno fino al primo piano. A quel punto, dal gruppetto basale si erano alzate voci concitate: “Attenzione, c’è un matto che sale sul palazzo!”. I passanti accorrevano spaventati, qualcuno disse di chiamare la polizia. Tutti rientrò nella norma con la discesa incolume del protagonista.

Lo spigolo del palazzo torinese all’angolo tra via Roma e piazza Castello, oggi

Nessuno di noi giovinastri assistette all’episodio, anzi a dirla tutta neppure oggi abbiamo l’assoluta certezza che sia davvero accaduto. Ma questo sottolinea l’alone di leggenda che attorniava quelli del Nuovo Mattino, novelli eroi omerici. E noi emuli non potevamo certo essere da meno. Ricostruimmo l’accaduto come in una sceneggiatura cinematografica: attendemmo una serata in Via Barbaroux, poi ci ritrovammo a bighellonare sotto lo spigolo incriminato, uno salì pochi metri, gli altri si misero a “fare voci”, i passanti si fermarono terrorizzati, qualcuno chiamò davvero i vigili e ci prendemmo una bella reprimenda alla centrale. Anzi, rischiammo di passare tutta la notte alla centrale. Seppur maggiorenni (da poco), i nostri genitori dovettero venire a prelevarci e subito scattò la punizione: due domeniche senza roccia (altro che le attuali punizioni: niente cellulare, niente playstation, ecc). Ma anche le due domeniche divennero velocemente “passato” e ci ritrovammo sulla roccia con più entusiasmo e accanimento di prima.

Parecchi anni dopo Andrea Gobetti scrisse, nella prefazione di un mio romanzo (Ladri di anime, 2012) che loro a metà dei ’70 spargevano letame sotto i portici di Via Roma, intendendo che facevano gli spacconi, tendevano a squinternare l’ordinato silenzio subalpino. La sua prefazione è talmente gustosa che, con l’assenso di Andrea, ho pensato di riportarla al termine di questa mia chiacchierata. C’è da sottolineare che il Circo Volante non coincideva perfettamente con il Nuovo Mattino, ma anche tale confine è sempre stato confuso e volutamente non definito dagli stessi protagonisti. I misteri rafforzano il mito, è legge del mondo dall’Iliade in poi.

L’autore in Sbarua, fine anni ’70

Mi sono ripetutamente interrogato per capire quando terminò il nostro “falso” Nuovo Mattino. Fu un passaggio di cui non ci rendemmo conto, costituito da una progressione di eventi. Tuttavia, a distanza di decenni e con l’asettica distanza che impone il trascorrere del tempo, sono giunto a individuare un episodio che può costituire lo “scollinamento” fra uno scenario storico-emotivo e quello successivo.

In un giugno dei primi anni ‘80, durate un convegno tenutosi a Torino (con numerosi invitati, anche internazionali), i big andarono ad arrampicare all’Orrido di Foresto, un luogo cult di quegli anni. Mi pare che piovigginasse e l’Orrido, con la sua parete aggettante, permette di salire anche in giornate di tempo sconfortate. Noi peones stavamo dietro, come fossimo in tribuna: tenevamo gli occhi all’insù, avidi di carpire astuzie e trucchi del mestiere.

Proprio quel giorno Patrick Berhault salì in libera la mitica Via dei Nani Verdi, una creazione di Galante, guarda caso. Nani verdi è tratto dal piemontese: “ho visto i nani verdi”, per dire che ho avuto le allucinazioni. Fino a quel giorno era impossibile anche solo pensare di uscire dai Nani Verdi senza tirare sui chiodi, mentre con la sua performance il folletto nizzardo ci fece capire in un colpo solo cosa fosse l’arrampicata sportiva alla francese.

“Il re è nudo”: basta una frase o un gesto, e un intero modello va in frantumi. Da allora nulla fu più come prima: ovunque gli spit subentrarono ai chiodi ballerini e ai cunei marci e la scala alfanumerica (6a, 6b…) dettò legge incontrastata. Di lì a poco arrivarono le gare di Bardonecchia (1985).

Da Foresto nulla fu più come prima anche per noi peones. All’arrampicata come viaggio iniziatico (Itaca nel Sole) si sostituì l’ansia da prestazione (quanti monotiri abbiamo fatto oggi?). Alla cordata come collusione di esperienze (Il lungo cammino dei Comanches) subentrò la competizione sfacciata, incattivita (tu quanti chiodi hai toccato?). Le falesie di più tiri fin sugli altopiani (Gobetti: Voie du Levant in Calanques) lasciarono il posto a ossessivi weekend in quel di Finale, con maniacali moulinette a ripetizione. Per carità, anche qui non sono mancate le goliardate: tutte le osterie di Orco e Feglino impararono a temerci come orde barbariche.

L’autore sul Pilastro del Bunker, Muzzerone (La Spezia), primi anni ’90

Così, dopo Foresto, anche noi peones valicammo, piano piano, il confine tra free climbing e arrampicata sportiva. La controprova? Le varappes non si chiamarono più varappes, ma scarpette ed erano di tre numeri più piccole, torturavano il piede, rigorosamente nudo, altro che calzettoni colorati!

Qualcosa si era rotto, soprattutto nell’anima. Non c’era più quella sconsiderata euforia verso la vita, prima ancora che per l’arrampicata. Non è stata colpa di Berhault, che tra l’altro fu un grandissimo alpinista prima ancora che un fine grimpeur. Probabilmente, per noi lo scollinamento di Foresto è casualmente coinciso con un fisiologico e inevitabile passaggio fra due fasi della vita. Un passaggio doloroso come una cesura, quello fra l’ultima coda della spensierata adolescenza e l’inizio della lunga sequenza di responsabilità, sequenza che successivamente si è infittita di molto (famiglia, figli, lavoro…).

E poi arrivarono loro, le ragazze. Il nostro gruppo originario era rigorosamente maschile, eravamo soldatacci scanzonati, ma ingenui. Di colpo ce le trovammo accanto, sbucate dal nulla, inguainate in tutine attillatissime. Niente fu più come prima: soci di cordata, che per anni avevano condiviso sbornie colossali, si trasformarono in ringhiosi maschi alfa. Inevitabile che la competizione si giocasse anche sulla roccia: quel mezzo grado in più rispetto al socio ti garantiva il sorriso serale della perla. Non sapevano che così gira tutta la vita: prima vivevamo in un sogno, solo che non ce ne rendevamo conto.

In un mio racconto (intitolato Quinto più) che, a metà degli anni ’90 fu pubblicato sulle pagine di Alp (allora diretto da Enrico Camanni), ho scritto che “consistere è un po’ morire”. Questo vale per tutti i passaggi esistenzial-anagrafici, ma in particolare per quello che rappresenta il distacco dall’adolescenza, con la perdita di entusiasmo e sconsideratezza. Per la cronaca il quinto più, che noi chiamavamo “francese” (per distinguerlo da quello classico, più facile…), era il livello dove spesso si infrangevano le velleità nel periodo d’oro del nostro free climbing.

Anche per noi l’arrampicata sportiva, che inizialmente ci “prese” come un passo avanti rispetto al free climbing, alla fine si rivelò una vera prigione ideologica, molto più stringente del precedente free climbing, anzi ne fu l’antitesi. Il gruppo si squinternò: alcuni abiurarono del tutto la montagna, altri si riciclarono in discipline parallele. Io sono completamente tornato allo scialpinismo (che, a ben vedere, è la mia matrice originaria), condito da un briciolo di alpinismo estivo di medio impegno (privilegiando itinerari poco battuti, in valloni solitari e su montagne neglette) e con abbuffate di escursionismo nelle mezze stagioni. Mi dà di più sudare lungo un sentiero che spappolarmi le dita nell’ennesimo monotiro. Non pretendo che questa sia legge universale, ma per me è andata così.

Ora guardo alle montagne con infinito amore ma con quel distacco tipico del vecchio generale che scrive l’autobiografia dopo mille battaglie. Non sono decrepito, ho “solo” 55 anni, ma, cresciuto in una famiglia di appassionati, sui monti sono stato portato prestissimo: oltre 50 anni di montagna mi pesano sulle spalle. Vedo le cose con distacco, ma anche con una velo di nostalgia.

“Conosciamo la meta, cerchiamo la via”, pare abbia scritto Kafka: per noi, quel periodo meraviglioso, il nostro “falso” Nuovo Mattino, fu l’inizio di un lungo cammino. Un cammino che dura ancora e per questo dico grazie al vero Nuovo Mattino, perché furono loro, i big, che smossero anche le nostre acque.

Prefazione al romanzo Ladri di Anime (2012) di Andrea Gobetti (Matraia, agosto 2012)

L’Autore mi invidia, anche se non ho mai fatto la Walker, i Dru, il Capucin e neanche la Fessura Obliqua all’Orrido di Foresto senza attaccarmi ai chiodi. La mia signora, poi, vede nelle mucche il lato più interessante delle montagne. L’Autore mi invidia perché sono cosi vecchio da esser stato giovane quando valeva la pena di esserlo. Pochi anni di più e avresti garrito anche tu, caro Carlo, e ululato come una balena ramponata, saresti stato col Circo Volante.

Fai bene a invidiarmi. Ero quello che arrampicava peggio di tutti, ma sotto i portici di Torino alla metà dei ‘70 spargevamo letame con la pala, eravamo gli unici ad aver visto il Verdon e aver risposto alla Demande, sul muro dell’Escalès.

Ciarlavamo d’altipiani da cui non saremmo mai ridiscesi, di gole tenebrose d’ignoranza da cui eravamo evasi arrampicando. I gesti classici: legarsi, sciogliersi, dar corda, balzare sullo strapiombo, prendevano significati simbolici che ci facevano ridere. Anche nella vita si può scalare, beffare la verticale o inchiodarsi di slancio e cadere malamente, cosa poteva esserci di più utile che imparare ad arrampicarla?

“Cerebrali, troppo cerebrali” sentenziò invece, dalla parte più lontana dal cervello, una congiura di calzolai, sadici feticisti, fanatici delle scarpe strette, del dolore delle geishe al pollicione che delizia il cliente pervertito.

Naturalmente la ributtante umanità che ha infestato la fine del millennio ci è andata di corsa, anzi gareggiando, per quel vicolo dei patimenti.

Il piede, che aveva appena scontato quarant’anni di vecchio scarpone, fu prontamente rimesso in gattabuia. Il cervello fu mandato in libera uscita, s’andasse pure a distrarre davanti alle vetrine.

Giusto per non fare il disoccupato, guardare il soffitto e rovinarmi le cervicali, per 11 annate di Roc cercai qualche sorta di becchime per la mente degli agili, talvolta con successo, anche se anno dopo anno era sempre più come spremere sangue dalla rapa. Ci pensarono sportivi e cultural-noiosi a farmi chiudere baracca e burattini.

Nel manipolo dei Roc autori (che dovevano saper scrivere, ma anche cavarsela in montagna) Carlo Crovella si dimostrò uno spiritoso e attento testimone del mutar dei tempi.

Per questo alla fine son io che invidio lui che ha ancora la voglia di raccontare di monti e donne e tempeste, donne torinesi per l’appunto, la cui scalata è la somma del difficile, dell’imprevedibile, del rovinoso e dell’esaltante. Come fanno?

Forse, basta a loro guardare le montagne in cui sfocia il panorama d’ogni viale torinese per scegliere a quale, quel giorno, voler assomigliare.

Lascia un commento