TSEUCCA MIA

Ovvero scialpinismo nel magico mondo di Otemma

 Carissimi e fortissimi Alpiniste e Alpinisti,
per degnamente commemorare la grandiosa impresa testé conclusa, vi invio qui in calce il testo integrale della canzone “Tseucca Mia” nella mia traduzione originale dal patois du Valais. Spero vi ricordiate l’aria, per poterla canticchiare, ripensando alla bella cima e al romantico bivacco:

TSEUCCA MIA
Tseucca mia, amata ci-ima
sei la più ambita, con ogni cli-ima,
se io ti guardo, dal mio biva-acco
non mi sento, per nulla stra-acco.
Saliamo insieme, in sei auda-aci
ma a chi riposa, tu pure pia-aci;
sulla farina, e sul tuo fi-irn
con i miei sci, feci la fi-irm
Tseucca mia, amata ci-ima
Tseucca mia, amata ci-ima
ti ho posseduta! deh, che autosti-ima
ti ho posseduta! deh, che autosti-ima.

Ho ripreso una email che Paolo-Popino o Popi-Paolino, che dir si voglia, inviò all’allegro gruppetto di scialpinisti, da poco reduci da un giro in sci di tre giorni a cavallo tra Italia e Svizzera, più precisamente tra Valpelline e Vallese. Le note scherzose e la sonorità straziante di questa “canzone-inno” composta da Paolo sono focalizzate su una delle montagne salite in quei giorni, la Tseucca appunto. Ancorché questa cima fosse, prima di questo giro, sconosciuta ai più, già mi aveva attratto alcuni anni addietro, quando ebbi l’opportunità di conoscerla e di salirla durante un altro, quasi analogo, raid scialpinistico.

E’ un toponimo curioso Tseucca od Aouille Tseucca nella sua accezione completa. L’etimologia sicuramente affonda le radici nel patois valdostano. Aouillle è semplice da comprendere, vista l’assonanza con “aguglia”; tseucca invece, declinato al femminile, significherebbe “senza corna”, in questo caso s’intenderebbe la capretta. Certo che questi nomi, specie se sono un po’ strani, mi affabulano. Non è raro che nel corso degli anni proprio un nome sia stato la genesi di viaggi o di salite sui monti. Sembra quasi impossibile che un semplice suono fonetico condizioni così fortemente un’esperienza significativa. Il potere della parola talvolta prende il sopravvento sull’azione. Apprendo poi che questa montagna è raramente frequentata, come scrive il Buscaini nella Guida dei Monti d’Italia – Alpi Pennine vol.1 “Cima visitata raramente, come del resto tutte le montagne di questo tratto della catena di confine, a torto trascurate dagli alpinisti italiani”. Sulla base di questi elementi la nostra cima diventa il fulcro attorno al quale si impernia un viaggio scialpinistico. Studiando a bocce ferme le cartine il giro ben presto si compone di altri nomi evocativi. Ed ecco Otemma, toponimo derivante dal latino “Alpis Altissima”, che quasi fa pensare ad un mago e che comunque le magie le fa lo stesso: ghiacciaio tra i più vasti delle Alpi, lungo serpentone, incanta coi suoi giochi di luce e con il grandioso ambiente che lo contorna. E poi c’è Sengla, nome quasi tibetano ma di probabile origine latina (Sengla – Cingulum – Cengia) che ben ci sta per indicare una grande montagna circondata da ghiacciai; è anche il nome di un bivacco, vero nido d’aquila, sul versante svizzero, vedetta nel cuore dei ghiacciai vallesani. Avendo come punti di riferimento questi tre nomi il loro collegamento individua e compone un giro scialpinistico di prim’ordine, un viaggio glaciale, di estremo interesse e bellezza, in angoli remoti e poco frequentati, a due passi dal più celebre dei raid scialpinistci delle Alpi, la Chamonix-Zermatt. Ho avuto la possibilità di effettuare per ben due volte un anello in mezzo a queste montagne, apparentemente uguale: in realtà si è trattato di due percorsi simili ma diversi al tempo stesso, con sfumature di un certo rilievo e con passaggi inediti per lo scialpinismo, che più avanti si riveleranno. Entrambi i giri ebbero la durata di tre giorni.

 Parte prima – Primo giro

Siamo in quattro a raggiungere il piccolo villaggio di Ruz, una delle frazioni di Bionaz in Valpelline, direttamente da Torino. La combriccola è composta da Irene e Tea, due agguerrite e tenaci scialpiniste, da Giuan, uno dei più assidui compagni di gita, inconfondibile il suo richiamo che talvolta squarcia il silenzio dell’alpe al pari di un gallo cedrone, ed infine il sottoscritto. Da poco è terminata l’alba ed il chiarore del giorno incomincia ad avanzare. Siamo un po’ intimoriti da ciò che stiamo per intraprendere, sia perché la giornata si prospetta molto lunga, sia perché l’ambiente dove andremo ad infilarci è quello dell’alta montagna e l’incognita di alcuni passaggi ci inquieta non poco; in particolare sono io che mi arrovello, visto che ho avuto la balzana idea di proporre questo giro, per cui mi grava la responsabilità. Intanto quel che ci aspetta sono i 1800 metri di dislivello per raggiungere la cima del Mont Gelè, montagna che si alza isolata ed imponente coi suoi 3518 metri di altezza. I primi passi percorrono una stradina che conduce ad alcune baite: niente neve e sci sullo zaino, ma intanto rompiamo metaforicamente il ghiaccio e le inquietudini si stemperano man mano che saliamo. Calziamo gli sci prima di passare in prossimità del Rifugio di Crete Seche. Da lì si dipana l’itinerario classico e frequentato. A noi basta seguire le tracce per risolvere qualsiasi incertezza di percorso. Il passo si fa regolare e un pendio via l’altro eccoci mettere piede sul ghiacciaio del Gelè. A 3300 metri, nei pressi del Col de la Balme, lasciamo gli zaini, così ci godiamo la salita fino alla cima scarichi dei nostri fardelli. Raggiungiamo la cima di questa bella montagna. Nei pressi della croce di vetta è già arrivato qualche scialpinista e qui incontriamo Livio Berta, mitico personaggio del mondo scialpinistico, che mi è capitato di incontrare più volte in cima ai monti più disparati delle Alpi Occidentali, una “onnipresenza” vista la quantità di gite che macina ogni anno. Ma la sosta è breve e il cammino ancor lungo; con una discesa veloce siamo agli zaini. Ci affacciamo al Col de la Balme sul versante svizzero, per scrutare la discesa sul Glacier di Crete Seche: è la prima incognita. Abbandoniamo le certe tracce per restare nella solitudine dell’alpe. Il vasto e lungo pendio di discesa si svela nella sua interezza. Il pendio è ripido; con un certo timore abbandono la cresta iniziando così una lunga discesa. Fatta la prima curva con una certa circospezione per saggiare il manto nevoso e la pendenza, le altre seguono fluide e sicure. La neve è bella e la pendenza si smorza finché giungiamo in un vallone, che percorriamo passando sotto gigantesche colate di ghiaccio. Ci dirigiamo verso le morene del ghiacciaio di Otemma, dove giocoforza dobbiamo ripellare per arrivare alla Cabane de Chanrion. Raggiuntala constatiamo che i metri di dislivello totali superano i 2000!

Otemma, Otemma quando mai finirai! Questa è l’invocazione del quasi eterno viaggio su questo flusso glaciale che scorre placido, senza alcuna fretta di scendere verso valle. Ci vuole pazienza per risalirlo, eppure noi, piccoli omini, procediamo. Per rendere più piacevole il cammino siamo avvolti dalle nebbie, ma siamo ottimisti e poco a poco le nuvole si sfrangiano rivelandoci scenari esoterici. Siamo schiacciati dalla grandiosità di ciò che ci circonda. Dobbiamo percorrere il ghiacciaio di Otemma fino alla confluenza di un vallone glaciale, affluente del ramo principale. Ormai la montagna è invasa dal sole il cui riverbero ci tratta come fossimo degli spiedini, di contro il cielo è sempre più blu. Passin passetto arriviamo alla suddetta confluenza.

Imbocchiamo i pendii e i dossi, mai troppo ripidi del Glacier du Blanchen fino ad una conca meravigliosa circondata dalle pareti della Sengla a sinistra e a destra dall                                                                                                                                                       ‘aguzzo cocuzzolo dell’Aiguillette, ove è sito il bivacco. Oltre scorgiamo i ripiani superiori del Glacier d’Aiguillette sovrastati dalla meta della nostra giornata: l’Aouille Tseucca, visione invitante e seducente. Facciamo una capatina al bivacco a 3180 metri; nel tratto finale togliamo gli sci e saliamo a piedi il ripido ma breve pendio sino alla capanna. Il bivacco è accogliente, spazioso ed è dotato di un fornello. Si dimostra così accogliente che Tea decide di fermarsi lì. I restanti tre invece ripartono di gran lena e con zaini leggeri. Attraversiamo la conca raccolta fino ai piedi della nostra montagna. Dobbiamo risalire un ripido pendio fino all’evidente spalla della Tseucca. Dove la pendenza aumenta sensibilmente mettiamo gli sci in spalle sino a giungere sulla spalla sopra cui si distende un pendio triangolare, di bella pendenza e di bella presenza. Facciamo una traccia regolare, effimera ed estetica: un puro piacere. Ed eccoci in cima alla Tseucca, circondati da ghiacciai imponenti, da creste selvagge, da monti a perdita d’occhio, con un cielo blu cobalto. Ovunque volgiamo lo sguardo, a parte noi, non c’è anima viva, inoltre abbiamo la certezza di goderci una super-discesa su neve farinosa da favola. E così è, anche i tratti più ripidi, vista la qualità della neve, si scendono senza problemi. Ci attende infine la nota risalitina sino al bivacco, dove Tea affacciata alla finestra ci getta metaforicamente le trecce. All’interno diventiamo presto operativi nel preparare tazze di the, thermos e borracce. Particolare curioso: per andare al gabinetto occorre percorrere un tratto esposto, protetto da una fune; all’interno del gabbiotto, il buco del water da direttamente sul vuoto da cui si genera una corrente ascendente con vortice che consente di fare quello che definiamo un “bidè eolico”.

Al mattino del terzo giorno ci affacciamo a rimirare il panorama e subito restiamo basiti: dal pendio sommitale della Tseucca è sparita la neve. Nella notte ha soffiato un forte vento che l’ha spazzata via. Il vento è ormai cessato, così iniziamo subito con una bella discesa giù per il Glacier de Blanchen sino ad Otemma. Il successivo percorso si svolge sui morbidi pendii glaciali dove tracciamo una bella pista. Valichiamo il Col du Petit Mont Collon per puntare alla Becca D’Oren Est che raggiungiamo sci ai piedi. Ci aspetta ora una lunga discesa fino a Prarayer transitando per le stupende conche tra il Col de l’Eveque ed il Col Collon, dal quale rientriamo in Italia lasciando sulla destra il Rifugio Nacamuli.

Qui il ricordo va ad Alessandro Di lui rammento quando ci salutò nella sede del CAI Torino di via Barbaroux, poco prima di partire per una spedizione in Pakistan che gli risultò fatale ancora prima di arrivare sulle montagne che avrebbe dovuto salire.

Continuiamo la discesa passando dalla neve farinosa al firn primaverile fino agli ultimi sbrendoli di neve nei pressi di Prarayer e del lago di Place Moulin, che ahinoi, unica dolente nota, ci tocca costeggiare fino al piazzale della diga. Ma è un classico a cui siamo abituati. Con un rapido autostop torniamo all’auto ed alla conclusione di questo giro.

Parte seconda – Altro giro altro regalo

Quando si vive qualcosa di bello c’è il desiderio di condividerlo con gli amici. Fu così che, qualche anno dopo, riuscii a coinvolgere un bel gruppetto di amici a ripercorrere l’anello prima descritto. Questa volta il gruppo è consistente ed annovera alcuni tra i più prestigiosi scialpinisti torinesi. Giusto per citarli uno ad uno, ecco il primo che raccolse con entusiasmo l’idea di questo viaggio, il Popi-Paolino, che riverserà parte dell’entusiasmo nella “quasi” ben nota canzone riportata in testa all’articolo. C’è Elio, senza le storie tese ma col passo assai teso, Carlo Alberto dalla perfetta curva, Nicolò la furia dell’Etna e Jimmy, che dello scialpinismo è un seguace assoluto. C’è il Migliore, ossia l’Albertino nostrano che avrà modo di segnare indelebilmente il passaggio per queste contrade. Infine, per dare loro maggiore importanza ecco le ragazze: Claudietta, dalle lunghe e mosse chiome nere, dal Cadore con furore ed Elena Gon, grande macinatrice di dislivelli e di monti. Infine c’è il sottoscritto senza il quale non ci sarebbe questo racconto.

La strategia del giro cambia abbastanza rispetto alla volta precedente. Il primo giorno è in realtà una mezza giornata dedicata a raggiungere il Rifugio di Crete Seche a 2410 m. All’alba del secondo giorno siamo pronti a ripartire per il classico itinerario al Mont Gelè. Itinerario classico appunto, ma io tendo complicarlo facendomi arrivare delle aritmie che mi condizioneranno in questo giro, ma che, per fortuna, non condizionano gli amici, che raggiungono la cima del Gelè in una giornata di tempo splendido. Io li aspetto al Col de la Balme. Tutti riuniti eccoci in discesa sul bello ed ampio pendio che ci porta in Svizzera. Ognuno lo interpreta come vuole. Io mi riprendo e mi godo la discesa sino alle morene di Otemma. Qui s’impone una sosta in cui ripelliamo, questa volta non per andare alla Cabane du Chanrion, bensì per inoltrarci sul grande ghiacciaio e puntare direttamente al bivacco della Sengla. Il sole del pieno giorno picchia inesorabilmente nell’inesorabile lunghezza di Otemma. Ma eravamo preparati psicologicamente ad affrontarlo. Il gruppo si allunga in questa tratta, una carovana nel deserto di ghiaccio. Di tanto in tanto ci si ferma per raccogliere la neve e metterla nel berretto a refrigerare le teste calde. Allelujah! Eccoci alla confluenza del Glacier de Blanchen. Con la certezza di non essere distanti dalla meta giornaliera ci incamminiamo di gran lena lungo i dossi di questo raccolto ghiacciaio sino a vedere apparire il bivacco, sempre lui, il bivacco della Sengla. Non è cambiato nulla dalla volta precedente: accogliente era ed accogliente è tuttora. Tra sistemazione, preparativi della cena, fusione della neve per riempire thermos e borracce di tutti quanti, mettere il becco fuori per fotografare un tramonto memorabile e uno stellato commovente, il tempo scorre veloce e, visto cosa ci attende il giorno dopo, si va a nanna presto.

E’ ancora buio che già c’è fermento nel rifugio: è ora di prepararsi per andare alla Tseucca. Partono tutti eccetto io ed Elena, che prolunghiamo la dormita, ma non troppo, perché quelli della Tseucca sono lesti e tra poco ce li ritroviamo tra i piedi; inoltre dobbiamo rassettare il bivacco e renderlo abitabile come lo abbiamo trovato. Operazione semplice a dirsi se non fosse per una maledetta pentola incrostata, in quanto avanzo della cena e potenziale cibo da colazione per qualcuno di noi (si dice il peccato e non il peccatore!), che avrebbe voluto colazionare l’avanzo di minestra rappresa, orripilante da vedersi al mattino, così ingrumato e gelato. Alfine si vince questa dura battaglia mentre possiamo seguire le vicende dei nostri eroi: salita veloce, cima e superdiscesa. La Tseucca ha colpito ancora e resterà nel cuore e nel ricordo di quei pochi scialpinisti che la conoscono. Lasciato il nostro rifugetto eccoci tutti insieme nella bella discesa fino ad Otemma. Cielo blu, neve bella, ambiente affascinante: ci sono tutti gli ingredienti per continuare e terminare il nostro giro senza particolari problemi. E invece NO. Succede quando si è troppo sicuri di sé, troppo sicuri del tragitto che stiamo facendo. E guarda un po’, invece di dirigerci verso il Col du Petit Mont Collon, prendiamo una serie di bei dossi che ci portano ai piedi di un pendio ripido che conduce non ad un colle, non ad una cima, ma ad una spalla. Lì per lì dobbiamo capire dove siamo finiti e poi agire di conseguenza. Comprendiamo l’errore, ma ad agire ci pensa il nostro Albertino, che con piglio sicuro ma circospetto traccia una superba e profonda pista sul detto pendio. Lo lasciamo andare, osservandolo con una certa trepidazione. Sta uscendo dalle grandi difficoltà quando, piano piano, uno ad uno, tutto il gruppo si muove stando distanziati. Alfine tutti quanti siamo sulla sommità della spalla. Sull’altro lato vediamo solo pareti precipiti sul ghiacciaio, che individuiamo essere il Ghiacciaio d’Oren Nord. A salvarci, o per lo meno ad evitare di tornare sui nostri passi, c’è un canalino, corto ma stretto che termina su un ripido pendio, che si smorza su ripiani sottostanti. Anche qui Alberto rompe gli indugi: faccia a monte scende il canalino e, dove termina, calza gli sci in posizione un po’ precaria e poi giù fino ai ripiani. C’è chi lo imita e chi più prudentemente mette i ramponi e scende sin dove la pendenza si smorza. In un modo o nell’altro eccoci tutti riuniti sui ripiani. Commentiamo il passaggio di cui non si hanno conoscenze di traversate scialpinistiche e lo battezziamo “Epaule Albert Morin”, in onore del nostro amico che ha fatto la traccia. Non so se le carte geografiche porteranno questo nome, ma per noi questo resta. Ciò che ci si para innanzi è una discesa in ambiente austero e solitario, peccato che la neve, man mano che si scende sia piuttosto marciotta e le curve siano faticose. Peccato perché l’ambiente è grandioso, ne siamo quasi intimoriti. Anche qui scendiamo con una certa cautela con soste in prudenziali ripari. Sotto, ma è ancora distante, c’è il rassicurante vallone del Collon che raggiungiamo verso i 2400 metri. Da lì è un lasciare scorrere gli sci lungo deboli pendenze e falsopiani fino a Prarayer dove ci attende il classico lungo lago. A stemperare il sole sono arrivate alcune nuvole benefiche e la soddisfazione di avere compiuto un’altra, epica per noi, traversata in sci.

Lorenzo Barbiè         

 

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