IL “GIALLO” DELLA BICICLETTA SUL MONVISO

Cosa ci fa un telaio di bicicletta sotto la vetta del Monviso, a 3500 metri? Chi ce l’ha portata? E, soprattutto, tra le varie versioni dell’accaduto, qual’è quella vera?

Un telaio di bicicletta di color arancione, arrugginito, senza ruote né manubrio, a quasi 3500 metri di altitudine, non è propriamente un ritrovamento normale, anche per chi pratica alpinismo ed è abituato a veder le cose da un “alto” punto di vista.

Sta di fatto che il telaio in questione si trova da molti anni tra le rocce della cresta est, sotto la vetta del Monviso (3841 mt.), in un punto che non è percorso da un vero e proprio sentiero e per questo fuori dalla vista di molti che salgono da lì.

La sua presenza, tuttavia, è cosa nota e risaputa e quando Giovanni Giustetto da Villafranca Piemonte, classe 1980, alpinista per passione, ci si è imbattuto quest’estate in occasione della sua ultima ascensione al “gigante di pietra”, ha pensato che sarebbe stato interessante saperne di più e ne ha parlato con alcuni funzionari del Parco del Monviso, con cui da tempo collabora fornendo foto e spunti interessanti.

E’ così che sul sito del parco è stato pubblicato un testo in cui Giustetto racconta la sua ascensione e l’incontro con la bicicletta, o con quel che ne rimane, e una storia che gli è stata riferita e che ne spiegherebbe la presenza lassù. Il parco ha indetto anche un piccolo sondaggio con l’invito, a chi ne sapesse di più, a farsi sentire. Il tutto è stato ripreso da “La Stampa” che il 21 agosto, nella Cronaca di Cuneo, ha pubblicato la storia e le foto di Giustetto e, il giorno successivo, la testimonianza diretta di Clemente Berardo, la più anziana guida alpina del Monviso (classe 1936), che racconta di aver portato lui nel 1954 la bicicletta sulla vetta, da dove sarebbe caduta lungo il versante est fino alla quota dove si trova ora.

Tutto risolto dunque? Neanche per sogno, perché ci sono altre due versioni della storia che ne danno una spiegazione diversa e in cui compare addirittura una morte, come nella migliore tradizione dei gialli, anche se in questo caso si tratta di una storia vera dai risvolti tragici. Ma ripartiamo con ordine.

La versione di Berardo

Clemente Berardo, guida alpina di Manta, sul Monviso ci è salito ben 407 volte, di cui l’ultima l’anno scorso, alla venerabile età di 83 anni.

Il suo racconto fatto alla “Stampa” corrisponde abbastanza a quello riportato da Giustetto, ma è più dettagliato. Berardo racconta che nel 1954 lui e altri tre amici decisero di fare una “goliardata”: scalare il Monviso… in bicicletta. Fu così che pedalarono a turno fino a Pian del Re, da dove portarono il velocipede a peso, per la via “normale”, fino in vetta, dove l’avrebbero abbandonato a imperitura testimonianza della loro impresa. Secondo Berardo la bici rimase in cima pochi anni, per poi cadere, forse a causa di una slavina, lungo la parete nordest. Successivamente sarebbe stata recuperata e riportata in vetta (anche se non spiega da chi) ma sarebbe ricaduta una seconda volta dalla parete est fino a fermarsi nel punto dove si trova ora. Aggiunge di non averla più vista dagli anni ’60, anche se più di una persona gli ha riferito della sua presenza.

A questa spiegazione, però, se ne contrappongono altre due.

Monviso – cresta est

Il racconto di Edoardo

La prima versione è contenuta in un racconto di Edoardo (“Dado”) Galliano, uscito nel 2003 sulla rivista Alpidoc in uno speciale sul soccorso alpino, dal titolo “Una bici, Maria, il Monviso”. Galliano, classe 1938, con lo stesso Clemente Berardo, Hervé Tranchero e altri ancora è stato uno dei componenti della “primavera alpinistica saluzzese” (come la definisce Gianni Bernardi) una generazione di alpinisti che ha compiuto le prime imprese sul Monviso e su altre vette del Piemonte. Riferisce che, nel 1961, quando faceva parte del soccorso alpino, aveva partecipato a una gita sociale sul Monviso per la “via normale”. Contemporaneamente un gruppo di amici aveva deciso di tentare l’impresa di portare in vetta, per la “est”, una bicicletta smontata: avevano con loro anche una sorta di “motorino” che sarebbe servito a accendere il fanale della bici, una volta sulla cima, per fare delle foto seduti in sella. L’ascesa era stata però funestata dalla caduta di una ragazza, tale Maria, che era subito apparsa in gravi condizioni. Per questo il gruppo della “est” aveva chiesto aiuto a quello che saliva per la “normale”. Era intervenuto lo stesso Galliano che, utilizzando la bici come una barella, aveva fatto scendere il corpo ormai privo di vita della ragazza più in basso, fino a un punto in cui era stata trasferita su una lettiga in un sacco trasporto, per essere portata a valle.

“Utilizzando la bici come rudimentale barella io stesso calai il corpo in alcuni passaggi difficili utilizzando almeno tre campate di corda doppia. Per questo, calcolando che l’incidente era avvenuto sotto il Torrione St. Robert, il telaio fu abbandonato ad una altitudine approssimativa di 3100 metri al massimo” racconta Galliano, con molta lucidità e invidiabile memoria.

Questo racconto ricalca grossomodo (con alcune differenze) un’altra versione, quella riportata da Carlo Degiovanni sulla rivista “Camminare” (edizioni Fusta – 2015) con il titolo “Una bicicletta sul Monviso” e a lui riferita da Hervé Tranchero. A parte alcune leggere differenze, gli altri particolari del racconto confermerebbero la versione di Galliano. La circostanza che la bicicletta fu usata come barella è peraltro riportata anche da Clemente Berardo, che non ne ha esperienza diretta ma riferisce di aver appreso la notizia dell’incidente e della morte di “una sfortunata alpinista verzuolese”.

Ma Galliano cosa ne pensa del racconto di Berardo, così diverso dal suo? “Con Berardo siamo amici e abbiamo fatto tante salite insieme. Ignoravo questa vicenda che lui racconta, non me ne aveva mai parlato prima”.

La bicicletta, riassumendo, a dar retta alla prima versione sarebbe stata portata in vetta nel 1954, per poi cadere o essere gettata più in basso, mentre secondo le altre due spiegazioni in cima non sarebbe mai arrivata, venendo utilizzata come barella e poi abbandonata nel 1961, o forse nel 1962 come riferito da altre fonti.

Qual è dunque la soluzione del mistero? Giovanni Giustetto, autore delle foto e del racconto che hanno “riaperto” il caso, una sua idea personale se l’è fatta.

“Secondo me entrambe le versioni sono vere e dunque le biciclette erano due, anche se oggi se ne incontra solo più una, quella da me fotografata sulla cresta est, che è lì da decenni ma che non tutti vedono durante l’ascensione perché in quel tratto gli alpinisti seguono spesso traiettorie diverse dato che la via non è segnata.”

Una tesi avvallata dallo stesso Galliano: “la nostra bici non è mai arrivata in cima e io l’ho vista ancora nel 2003, infilata in una fessura e ad un’altitudine non superiore ai 3100 metri. La bicicletta in cui si è imbattuto Giustetto, di cui ho visto la foto, è diversa: è di un colore più brillante rispetto a quella che avevo utilizzato io come barella, che era già tutta arrugginita negli anni ’60. Forse potrebbe trattarsi di biciclette diverse”

Comunque sia, il “giallo” della bicicletta sul Monviso, che lo si consideri risolto o meno in base alle testimonianze sopra riportate, un primo risultato l’ha già ottenuto.

“Abbiamo pubblicato la notizia sul nostro sito nel periodo estivo, stagione che tradizionalmente ben si presta alla lettura di ‘gialli’ e, strada facendo, ci siamo ritrovati…con due bici e, purtroppo, anche con una morte inattesa. Questo dimostra che fare giornalismo di ricerca può portare alla scoperta di storie incredibili” spiega Mario de Casa, che si occupa di comunicazione per l’Ente di gestione delle aree protette del Monviso.

Alessandro Paolini
già pubblicato su Piemonte Parchi  lunedì, 21 Settembre 2020

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