Enrico Camanni: Alpi Ribelli

Altra puntata con la pubblicazione di brani tratti dai libri dell’amico, giornalista e scrittore, Enrico Camanni …. E’ la volta di questo tratto da “Alpi ribelli”, editore Laterza 2016

I disubbidienti del Petit Dru

Gian Piero Motti amava due generi di alpinisti, che spesso coincidevano: i romantici e i ribelli. Adorava l’alpinismo francese, più solare e scanzonato del nostro. Era molto attratto dagli americani. Quando Andrea Gobetti ed io proponemmo alla Rivista della montagna un articolo su René Desmaison, Gary Hemming e il famoso salvataggio del Petit Dru ci disse «bene, scrivetelo, è una bella storia». L’articolo uscì nel luglio del 1983, pochi giorni dopo la sua morte, ma lui fece in tempo a leggere e confermare: «Bella storia».

La storia del funambolico soccorso alpinistico dell’agosto 1966 sull’Aiguille du Petit Dru, nel cuore del Monte Bianco francese, è una sorprendente allegoria della rivoluzione culturale del Sessantotto. La precede di un paio d’anni e ne anticipa la sceneggiatura. Ci sono già tutti gli ingredienti: autorità, senso del dovere e dell’ubbidienza da un lato; anarchia, creatività e disubbidienza dall’altro. Il mondo diviso in due: chi è troppo vecchio per capire i giovani, chi è troppo giovane per sopportare i vecchi. Il potere ne esce con le ossa rotte; i disubbidienti hanno già il mondo nelle mani.

Anche il teatro della vicenda ha qualcosa di eversivo, perché gli scudi granitici dei Drus incarnano la ribellione della materia alla legge di gravità. Geologicamente la guglia è solo la spalla dell’Aiguille Verte, uno dei più eleganti quattromila delle Alpi, però, visto da Chamonix, il Petit Dru fa precipizio a sé, con un vertiginoso appicco che precipita sulla Mer de Glace. Il grande e il piccolo Dru sono due figli aggrappati alla madre, la Verte, ma il bambino ha gambe di mille metri e si allunga direttamente nel cielo.

Etimologicamente dru è una cosa possente e compatta, che non presenta debolezze e spazi vuoti. Il termine «monolito» si addice alla struttura, anche se paradossalmente i Drus, soprattutto il piccolo, sono sempre stati devastati dai crolli e dalle frane, e la parete che precipita sulla valle di Chamonix è un gran vuoto sottratto alla geologia originaria. Il Petit Dru poggia sulle rovine del proprio corpo in disfacimento.

Chi lo guarda dalla stazione del trenino del Montenvers vede un missile di granito che svetta dal ghiaione: il mare di ghiaccio, le morene e quel siluro che punta nel blu. Dato che il belvedere del Montenvers è uno dei posti più frequentati delle Alpi e il Dru è una delle guglie più fantastiche, proprio lì sulla ribalta del palcoscenico, nell’ovale ottocentesco delle cartoline illustrate, non è difficile immaginare i sogni e le ambizioni degli alpinisti per aggiudicarsi gli itinerari e firmare le prime ascensioni.

L’alpinismo dei pionieri si dedica alle creste, quello degli acrobati agli strapiombi. Dopo l’esplorazione delle vie normali, che seguono le creste e gli speroni rocciosi, nel 1935 Pierre Allain scala gli scudi gelati della parete nord. Un bel successo. A quel punto manca solo la grande parete che precipita sulla Mer de Glace.

Nel dopoguerra la sfida della lavagna occidentale del Dru, così sfacciatamente evidente, reclama una nuova filosofia della scalata. I prodigiosi risultati ottenuti sul calcare delle Dolomiti hanno imposto la tecnica dei chiodi e delle staffe, che ora va esportata sulle placche di granito. Nel 1951 il ventunenne Walter Bonatti scala con Luciano Ghigo gli strapiombi rosati del Grand Capucin, inaugurando l’arrampicata artificiale di alta difficoltà. L’anno successivo i francesi Guido Magnone, Lucien Berardini e Adrien Dagory affrontano la parete del Petit Dru. Con numeri epici salgono molto in alto tra i lastroni di protogino, finché sono costretti alla ritirata. Sembra una resa, ma i francesi hanno un piano e un amico di riserva: Marcel Lainé. I quattro amici tornano sul Dru scalando la parete nord, bivaccano all’altezza del punto massimo raggiunto nel primo tentativo, forano la roccia con martello e scalpello, piantano dei tasselli e traversano da nord a ovest, in orizzontale, riacciuffando al volo il tracciato della nuova via. Et voilà, les jeux sont faits.

Nell’agosto del 1955 Bonatti parte da solo per il pilastro sud ovest, che delimita la parete sulla destra. La colonna del Dru è il nuovo problema delle Alpi occidentali e il giovane Walter lo risolve con una lotta titanica di sei giorni, firmando una delle più grandi imprese della storia dell’alpinismo. Cinque bivacchi, un’estate.

Sette anni dopo arrivano i maestri americani Gary Hemming e Royal Robbins, che raddrizzano l’itinerario dei francesi aprendo la via diretta sulla parete ovest. Robbins è il guru dell’arrampicata californiana, l’uomo che ha scalato il muro dell’Half Dome nella Yosemite Valley. Gary è meno classificabile di Royal. I francesi l’hanno soprannominato «il beatnik delle cime», ma lui rifiuta l’etichetta. È un elegante vagabondo che gira con pantaloni stracciati e maglioni rattoppati, facendo strage di signorine. A Chamonix non si sono mai visti due occhi azzurri come i suoi. Quando nevica si mantiene spalando la neve dai tetti dei grandi alberghi e quando fa bel tempo apre nuove vie sul Monte Bianco. A chi gli domanda le generalità, Hemming risponde di essere figlio di un gangster e di una santa. Se gli chiedono un progetto dice che vorrebbe scrivere una guida per gli alpinisti persi nelle grandi città, «le selvagge, crudeli città della terra». È un uomo più fragile di quanto sembri e più forte di quanto creda. Comunque un tipo speciale.

Anche il posto lo è: Chamonix è l’unica città internazionale delle Alpi. Un porto di montagna. I turisti non se ne accorgono, ma Chamonix è un laboratorio in cui convivono i rigidi rappresentanti della tradizione valligiana, gli scalmanati scalatori di città e i fondatori del nuovo alpinismo. Vive di passato ed è un incubatore di futuro. D’estate si anima di alpinisti che salgono i ghiacciai del Monte Bianco e di arrampicatori che sognano le grandi scalate: le Aiguilles, i pilastri del Mont Blanc du Tacul, le Grandes Jorasses, i Drus. La guglia della Mer de Glace è sempre in cima all’elenco dei sogni, anche se molti si accontentano della via normale del Grand Dru, un itinerario classico di quarto grado, e altri desiderano senza osare, e più guardano su più si sentono giù.

Chamonix è anche il posto degli incontri imprevisti e dei progetti impossibili. Nell’estate del 1966 il meccanico di Hannover Hermann Schriddel e lo studente di Karlsruhe Heinz Ramisch s’incrociano casualmente in un attendamento tedesco al Montenvers. Fanno poco più di cinquant’anni in due; hanno pochi soldi, esperienza difettosa e una voglia esagerata di arrampicare. Si piacciono e decidono di farlo insieme. Dopo un esperimento sull’Aiguille du Midi scelgono la parete più difficile del Monte Bianco: la Ovest del Petit Dru. È proprio sopra le tende: irresistibile.

Il 1966 è una stagione infame per chi va in montagna: tempo capriccioso e basse temperature. Piove quasi tutti i giorni e quando non piove è una festa. Si può dire che l’estate non sia mai decollata. Gli alpinisti strappano brevi scalate in velocità oppure si rassegnano alle escursioni con mantella e cappello. Detestano quella montagna grigia e piovigginosa che non vira mai al blu dei giorni grandi. Sono settimane che il bollettino meteo non esce con un «beau fix sur toutes le Alpes».

Schriddel e Ramisch sono fatalisti; non si curano del tempo e delle previsioni; vedono il blu anche dove non c’è. Il 13 agosto, approfittando di una schiarita del cielo, partono per l’avventura con l’entusiasmo dei dilettanti, o degli incoscienti. Salgono lentamente e bivaccano due volte nella prima parte dell’itinerario. Ancora non si rendono conto della lunghezza della via, e ancora non sanno che la parete è tappezzata di neve e ghiaccio negli ultimi trecento metri. Il giorno di ferragosto le guide di Chamonix festeggiano l’estate che non c’è, mentre i due tedeschi continuano la scalata e raggiungono uno dei passaggi storici di Magnone e Berardini: il diedro di novanta metri. Sotto il diedro scoppia un temporale, fulmina e comincia a nevicare. Schriddel e Ramisch indossano i piumini e si riparano nella tendina di nailon, sperando che passi.

Il 16 agosto il tempo migliora ed è un male, perché i due giovani continuano a salire invece di tornare indietro. Un chiodo cede, Schriddel cade e Ramisch lo trattiene con la corda. Sono sempre più stanchi e spaventati, ma non si arrendono. Nel tardo pomeriggio arrivano in cima al diedro, dove la roccia è sporca di vetrato. Adesso hanno circa settecento metri di vuoto sotto i piedi e sono persi in un oceano di granito. Appendendosi alle corde e pendolando verso destra si può forse raggiungere un piccolo terrazzo per il bivacco. Ci provano, ci riescono, si accomodano e ricominciano a tremare.

Passa lentamente un’altra notte, l’alba non arriva mai. Il 17 agosto il cielo è un soffitto malato, l’azzurro infingardo che imita il bel tempo ma consiglia una scalata semplice, e poi una birra liberatoria al Choucas di Chamonix.

La Stampa di Torino scrive che è stato un pessimo ferragosto. La cronaca locale parla di nubifragi in pianura e quattro persone uccise dal fulmine in Valle d’Aosta. Due alpinisti austriaci sono stati folgorati scendendo dal Dente del Gigante. Anche Schriddel e Ramisch sentono i tuoni che si avvicinano come ogni giorno. I due compagni per caso sono sempre più soli in parete. Lontani da tutto. Provano ad affrontare il passaggio del Verrou, il «chiavistello», e la serratura li respinge. Fa freddo e le mani scivolano nella fessura gelata. I due naufraghi tornano al terrazzino del bivacco, si appendono ai chiodi da roccia e rinunciano. Sono bloccati, non hanno altre carte da giocare. Non resta che aspettare i soccorsi.

Scrive la guida Desmaison:

sono prigionieri del loro piccolo isolotto e comincia una lunga, lunghissima attesa. Hermann e Heinz non disperano. Sono convinti che qualcuno verrà a liberarli… Lo stesso giorno, verso le dodici, un elicottero in perlustrazione constata che  i due uomini non si sono più mossi dal mattino. Questo lascia supporre che uno dei due possa essere ferito. Allora parte il segnale d’allarme.

René Desmaison ha trentasei anni, viene dalla pianura ed è la più famosa guida di Chamonix. Guascone e provocatore, sempre contro corrente, si diverte a scandalizzare i sacerdoti della montagna tradizionale. Sono proverbiali i suoi litigi con Armand Charlet, il maestro delle guide vecchio stile. Desmaison è uno specialista dell’alpinismo invernale, ma ama qualunque genere di avventura. Sulla Cima Grande di Lavaredo ha aperto una via direttissima a forza di chiodi, sotto gli occhi di una folla curiosa; sulle pareti del Delfinato e del Monte Bianco ha cercato l’isolamento assoluto, d’inverno, con metri di neve, lontano da ogni parvenza umana. Ha salito quattro volte la Ovest del Petit Dru, firmando la prima scalata solitaria e la prima invernale. Nessuno conosce la parete come lui. Il Dru e Desmaison sono una cosa sola.

Come tutti è preoccupato per la sorte dei due tedeschi. Segue con attenzione le operazioni di soccorso, che d’autorità spettano alla Scuola militare di alta montagna. In valle non si parla d’altro. I militari hanno deciso che per portare a casa i due naufraghi occorra salire in cima per la via comune dal rifugio della Charpoua, ancorare un argano e srotolare un lungo cavo sugli strapiombi. È un’operazione rischiosa e complicata, tipo assedio di guerra, che richiede molti uomini e attrezzature. Vi partecipano più di quaranta soccorritori, compreso un alpinista tedesco amico dei dispersi: Wolfgang Eggle. Mentre i graduati lavorano con fatica sul sentiero della Charpoua e con difficoltà sulla cresta del Dru, se ne va un altro pomeriggio, scende un’altra notte e nasce un altro giorno malato. Il pomeriggio del 18 agosto nevica sopra i tremila metri, soffia vento d’autunno e le nuvole mangiano le cime. Adesso è tempesta. Hermann e Heinz affrontano il sesto bivacco. Saranno ancora vivi?

Intanto Gary Hemming ha rotto gli indugi. Con i tedeschi Mauch e Bauer, i francesi Bodin e Guillot e l’inglese Burke ha preso il trenino del Montenvers e si è avviato verso la parete. Di recente Mick Burke ha tentato la via diretta americana ed è sceso in corda doppia dal diedro di novanta metri: dunque si può fare anche in caso di soccorso. Il problema è scalare la parete sotto la pioggia; ci vuole fegato a partire per la Ovest del Dru con il brutto tempo. Quella è l’idea. Geniale? Suicida? Presto si vedrà.

Il 19  agosto, alle tre di notte, sulla Mer de Glace:

le pile intermittenti dei compagni; ognuno segue il suo sentiero in mezzo al ghiaccio, nella notte; è la lunga strada che ci attende. La ripida morena, i fantastici roccioni aggettanti, i pendii di sterpi ed erba umidi dell’ultima pioggia. La via per la cima del Rognon, subito così impestata da trovare. La neve del ghiacciaio sotto i Drus. Il canale che ben conosco. E poi lui, il Dru, con la sua parete ovest. Così a picco che la vedi impossibile.

A fine avventura Hemming scrive un articolo per il settimanale Paris-Match. Usa uno slang secco ed evocativo, inframezzando la cronaca del salvataggio con richiami alla guerra del Vietnam e al recente terremoto in Turchia. C’è Hemming-Hemingway alla macchina da scrivere, niente a che vedere con la letteratura classica di alpinismo. Un altro linguaggio, un altro pianeta. L’elicottero che sfiora lo strapiombo del Dru è lo stesso che salva i marines o bombarda i vietcong. Si muore in parete e nella giungla, ed è lo stesso fottutissimo mondo.

19 agosto, alle cinque del pomeriggio:

la tempesta continua a infuriare… Nella parte bassa del canale, insieme a qualcuno, c’è René che sta salendo. E sale lento come noi… Ma René conosce così bene il cammino! Forse sarebbe meglio fissare delle corde fisse per lui sotto la cornice. Così sarà sicuro di raggiungerci.

La mattina del 19 René Desmaison si è precipitato all’ufficio delle guide di Chamonix con il collega Vincent Mercié. Ha detto, anzi ha urlato, che i militari erano fuori strada e che i due tedeschi non potevano più resistere a lungo. Si è offerto di intervenire, ma l’offerta è caduta nel vuoto. Forse sarebbe meglio tentare per la parete nord… ha suggerito qualcuno. Forse domani, dopo un consulto con le autorità… Allora Desmaison ha sbattuto la porta, ha riempito lo zaino e si è fatto portare da un elicottero sotto la parete con il giovane Mercié; nel pomeriggio è incominciato l’inseguimento.

«Hello, René! Come va?», urla Hemming.

«Tutto bene Gary, ma che condizioni orribili!»

Si parlano a gesti tra un tiro di corda e l’altro. René e Vincent guadagnano terreno. Bivaccano qualche ora e ripartono. Il 20 agosto le cordate s’incontrano nella nebbia. Faticano a vedersi in faccia. L’aria è satura di umidità.

«Hello, René!»

«Ciao Gary, siete troppo lenti

«Ma è impossibile andare più in fretta

«Ci proviamo, Gary, ce la dobbiamo fare per forza.»

Per accelerare decidono di continuare in quattro; gli altri si caricheranno il materiale e seguiranno a distanza. Desmaison e Hemming raggiungono il diedro di novanta metri in piena notte, bagnati fradici. La neve fresca, sciogliendosi, ha formato un torrentello tra le facce del diedro. Mancano solo i salmoni.

Intanto a Chamonix i capi si parlano, finalmente: capo del soccorso, capo dei militari, capo delle guide, sindaco, sottoprefetto, presidente della Federazione francese della montagna. «Che cosa avete deciso?», incalzano i giornalisti. «Calma, calma, non siamo allo stadio!» Invece sì, l’affaire du Dru è diventato un gioco nazionale.

L’incontro al vertice ha consigliato di attaccare anche sul fronte della parete nord e di reclutare forze nuove. Ci saranno sessanta uomini aggrappati alle rocce del Dru: un piccolo esercito. L’elicottero non può salire oltre i duemilacinquecento metri a causa del maltempo e bisogna portare tutto a braccia. E ogni sera nevica un altro po’.

Quelli della Ovest sono rimasti in quattro ma stanno per raggiungere l’obiettivo. Il 21 agosto scalano il diedro e si avvicinano all’altezza dei due naufraghi:

«Come state?», urlano ai tedeschi.

Non risponde nessuno. Solo nebbia.

Urlano più forte: «Heinz, Hermann, ci siete?».

«Gut, gut», risponde Heinz finalmente.

Dal terrazzino scende una voce ovattata. È incredibile: sono ancora vivi.

Avevo fretta di vedere la faccia dei due uomini – racconta Desmaison –; il loro sorriso, la loro gioia era anche la nostra… I sopravvissuti non presentavano nessuna ferita o congelamento. Nell’immediato le cose più importanti per loro erano una bevanda calda, del cibo e degli indumenti asciutti. Ma quelli salivano con la seconda squadra.

Mentre Schriddel e Ramisch abbracciano i salvatori, l’amico tedesco Wolfgang Eggle muore strangolato. Li separa solo uno strapiombo di cinquanta metri. Spossato dagli sforzi e dalle intemperie, Eggle resta impiccato alla corda doppia nel generoso tentativo di scendere in aiuto. Le guide che hanno scalato i primi due terzi della parete nord lo vedono dibattersi nel vuoto e non possono fare niente. Il povero Wolfgang se ne va senza soccorso nel bel mezzo di un soccorso alpino.

Per fortuna gli strapiombi e la nebbia hanno nascosto il dramma. Se Heinz e Hermann si fossero accorti dell’incidente sarebbero crollati psicologicamente. Ora il problema è tenere alto il morale dei ragazzi e scendere a precipizio, calandosi sulle corde come ragni. La fresca esperienza di ritirata di Mick Burke è utile al commando della Ovest, anche se il tempo è ignobile e un temporale bestiale li raggiunge nella notte tra il 21 e il 22 agosto. I lampi illuminano a giorno le Aiguilles, la roccia sfrigola, il granito si accende di fiammelle. Quando passa nevica come a Natale.

Al mattino sono tutti inebetiti. Solo Schriddel e Ramisch hanno dormito nella tendina da bivacco. C’è una calma irreale. Non resta altro che buttarsi giù:

una caduta – scrive Hemming –, una lunga caduta in basso. Colori, suoni, movimento. Discesa verso la terra. Ritorno verso terra. Ritorno verso l’«in Turchia i soccorritori cercano tra le rovine» e «quaranta morti sulle strade questo weekend» e «gli Stati Uniti invaderanno il Vietnam del Nord quest’autunno?». Ritorno verso un bagno caldo e un buon letto.

La Francia tira un respiro di sollievo: missione compiuta, i due naufraghi sono salvi. Una folla di fotografi e cronisti li aspetta ai piedi della montagna. Foto di gruppo con sopravvissuti. Brillano i flash, scattano i registratori, partono le interviste. Schriddel e Ramisch non lesinano i sorrisi e la riconoscenza. Saranno anche degli incoscienti ma non dei presuntuosi, pensa la gente. Il pubblico si affeziona ai tedeschi e decide che meritavano di essere salvati. Hanno scatenato la morbosità di una nazione, tuttavia non cercavano la notorietà. Entrano ed escono in poche ore dal cono di luce dei riflettori.

L’eroe è Gary Hemming. Per lui si sprecano le definizioni: il biondo beatnik delle nevi, il clochard celeste, l’angelo dei Drus. L’americano passa dall’emarginazione alla fama in un batter di ciglia, bucando gli schermi e lustrando le copertine dei rotocalchi. I reporter gli stanno addosso e lo immortalano per le vie di Chamonix. Hemming che passeggia mani in tasca e scarponi ai piedi è l’icona dell’alpinismo che cattura anche i non alpinisti. Le immagini a piena pagina di Paris-Match colorano l’iride di blu vertigine; gli occhi di Gary assicurano bel tempo anche con la bassa pressione.

Se Hemming è l’eroe del Dru, Desmaison è il ribelle. La disubbidienza alla Compagnia delle guide gli costa l’espulsione dal gruppo. Doveva stare agli ordini, spiegano alla stampa i suoi superiori, ma René non è uno che prende ordini. Mai stato uno così. Appartiene alla generazione nata tra le due guerre e forse utilizza ancora le vecchie tecniche di scalata, però segue l’istinto e la fantasia anticipando i segni del Sessantotto.

Nel gennaio del 1968 il vecchio leone firma con Robert Flematti la prima ascensione del Linceul sulla parete nord delle Grandes Jorasses. Per una lunga e gelida settimana l’impresa è trasmessa in diretta radiofonica nazionale. Dove arriveranno oggi? Avranno freddo? Riusciranno a dormire questa notte? In auto, in bagno e ovunque si trovino i radioascoltatori seguono l’impresa degli alpinisti. Mezza Francia arrampica con loro.

Davanti al pubblico Desmaison e Hemming sono due uomini completamente diversi. René è l’interprete consumato, Hemming il ragazzo fragile. L’americano mostra uno spirito troppo sensibile per reggere alla notorietà. La sua vita non si sistema affatto con la fama del 1966, al contrario: prima Gary sorride al succcesso e poi lo detesta; si arrabbia, scivola e si rialza. Forse non è più se stesso, forse non ancora, probabilmente è sempre in cerca di sé.

Nel 1969, tre anni dopo i giorni umidi ed esaltanti del Petit Dru, Gary Hemming muore per un colpo di pistola sulle Montagne Rocciose. Nessuno sa di preciso come sia andata. Qualcuno, probabilmente ubriaco, ha puntato la rivoltella contro qualcun altro e Hemming non ha tollerato il gesto. Aveva superato da tempo la soglia della sopportazione.

Gary si allontanò di corsa – scrive Desmaison –. La violenza che era nata in lui l’avrebbe rivolta contro se stesso. Nella notte una detonazione risuonò sulle acque calme del lago Jenny.

 

 

Lascia un commento