Buon compleanno Dino!

Venerdì prossimo, 27 agosto 2021, il nostro Corradino Rabbi spegnerà la sua novantunesima candelina.
Per noi ugetini Dino è un’istituzione sia per la sua immensa carriera alpinistica ma soprattutto per il fattivo impegno profuso in tantissimi anni per la nostra Sezione.
Per l’occasione vogliamo riproporre una delle sue tantissime imprese: ecco quindi il suo articolo  che racconta la prima ripetizione italiana del Pilone “Gervasutti” (Pilone Nord del Frêney) nel 1976.

Augurissimi Dino!

Piloni del Frêney dal Col de Peutérey. Foto: Dino Rabbi

Il pilone “Torinese” 1940 -1976
Ci sono voluti tre anni di tentativi per mettere nel sacco questo benedetto pilone che Gervasutti, con il suo compagno Bollini, scalò nel 1940. Da allora questa salita non è più riuscita a nessun italiano e, nell’ambito torinese, oltre al naturale richiamo che questa ascensione esercita per le sue marcate caratteristiche di gran course, vi era una discreta volontà di riaffermare in campo nazionale un predominio per questo genere di scalate.
Debbo dire a onor del vero che, almeno per quanto mi risulta, non avevamo concorrenti essendo, i più, indirizzati al pilone centrale del versante sud del Monte Bianco più noto e tecnicamente più difficile, sebbene con una notevole sezione in artificiale.

Dino Rabbi al Col Peutérey prima della ripetizione del Pilone Gervasutti al Frêney. Foto: Roberto Bianco
Personalmente avevo, più che l’interesse per il primato, una grande voglia di vivere l’avventura. E credo che nessun altro posto al mondo sia più adatto allo scopo: pur avendo visto montagne di altri continenti – certamente più alte e imponenti – il Monte Bianco rimane pur sempre unico, principalmente per quella sua caratteristica essenziale di essere, come comunemente si dice al giorno d’oggi, «a misura d’uomo». Qui veramente l’uomo, a differenza che nei colossi himalayani, si muove in una sua dimensione e può, contando sulle sue sole forze e sulla sua preparazione, riuscire a salire il monte senza tutto quell’apparato di campi, portatori, corde fisse ecc. necessari per la buona riuscita di una impresa extra-europea che però, proprio per il suo aspetto organizzativo, limita la componente estetica dell’alpinismo. Anche se le punte avanzate dell’alpinismo mondiale, come sempre più spesso accade, riescono a superare i limiti della permanenza di una singola cordata su un grande colosso, e gli esempi non mancano, si è ancora distanti dall’aver raggiunto quei traguardi di sicurezza e autonomia possibili nel massiccio del Monte Bianco.

Roberto Bianco sulla placca grigia di 40 metri. Foto Corradino Rabbi.

Ritornando al «pilone» debbo ancora fare una breve digressione di ordine strettamente personale: dopo due tentativi miseramente falliti per… scarsa visibilità si era stabilito tra me e il «pilone» come una sfida reciproca al punto che ormai identificavo nella montagna una qualsivoglia entità pensante, capace di escogitarne di tutti i colori per non essere salita. Bisognava pertanto ricorrere alle più sottili astuzie strategiche per sorprendere il colosso. Ecco spiegato come decidemmo, di comune accordo con l’amico Roberto Bianco, di salire al colle del Gigante, quando quasi tutti scendono, proseguire per tutta la notte, mentre gli altri dormono, e presentarci ai piedi del pilone alle prime luci dell’alba. In virtù di tutti questi straordinari accorgimenti tattici, il giorno 8 agosto alle 7,30 eravamo sul colle di Peuterey col naso in aria a rimirare il maestoso versante sud del Monte Bianco.

Avevamo percorso in 13 ore circa 1300 metri in salita e 600 metri in discesa ed eravamo a 850 metri di dislivello dalla punta del Monte Bianco. Eravamo anche molto meno entusiasti del nostro progetto e il solo aspetto consolante dell’intera faccenda era che una volta superati questi ultimi 850 metri saremmo scesi definitivamente. Attraversato il grand e plateau affrontammo la crepaccia terminale ostinandoci a volerla superare direttamente attraverso una coreografica finestra aperta sul labbro superiore dalla caduta di neve e roccia, ma dovemmo desistere dopo esserci resi conto che il casco da cui eravamo protetti non offriva sufficienti garanzie di incolumità dai proiettili che piombavano dall’alto. Aggirammo pertanto l’ostacolo sulla destra e, attraversato successivamente il grande canale, afferrammo finalmente il «filo» del pilone.

L’imponente «Chandelle» del Pilone Centrale. In alto si nota il famoso diedro sbarrato dal grande tetto fessurato. Foto: Roberto Bianco.

Arrampicando alternativamente in testa alla cordata coprimmo un notevole dislivello, tanto che ritenevamo di aver superato, senza essercene avveduti, il passaggio delle due fessure parallele sulla gran placca, punto di riferimento caratteristico per la sua alta classificazione e per la natura stessa del terreno. Pensavamo cioè di averlo evitato involontariamente con una variante; con questa convinzione ci fermammo alle 17 su un modesto ripiano. Avevamo impiegato 24 ore di ininterrotta scalata per giungere dal rif. Torino a metà del pilone. Bivaccammo discretamente. Verso le prime ore del mattino però cominciarono a radunarsi strane formazioni di nubi; la cosa prese un aspetto poco rassicurante al punto che alle 6 eravamo già sul piede di partenza. Ed ecco che, appena traversato qualche metro sulla destra del posto dove avevamo trascorso la notte, una grande placca con due fessure parallele dall’aspetto piuttosto severo, ci si parò dinnanzi.

Dino Rabbi alla terminale del couloir tra i due Piloni, agosto 1976, Pilone Gervasutti Freney. Foto: Roberto Bianco.

Di quel giorno ricordo, dopo la bella arrampicata sul placcone, il durissimo tratto strapiombante che precede il camino svasato e ostruito dal ghiaccio e soprattutto quella continua ricerca della via con traversate, aggiramenti sui vertiginosi fianchi dello sperone che danno in così alto grado il senso della scoperta. Mentre noi eravamo cosi impegnati, di fianco, sul pilone centrale, una cordata saliva seguendo le tracce evidenti dei predecessori. Nel grande diedro finale si vedevano ad occhio nudo cordini di diversa colorazione; la chiodatura doveva essere abbondante perché essi avanzavano con una velocità superiore alla nostra. Questo rappresentò per noi un vantaggio perché giunti all’uscita del nostro pilone trovammo la pista battuta.

Roberto Bianco sulla cresta del Brouillard, verso la vetta del Monte Bianco. Foto: Dino Rabbi.

Intanto il tempo che già al mattino aveva dato segni di perturbazione, era decisamente peggiorato al punto che in vetta al Monte Bianco la visibilità era ridotta a pochi metri e la fotografia che ritrae il mio compagno in fiero atteggiamento, potrebbe benissimo essere stata presa nelle pianure innevate del Vercellese in un giorno di nebbia. Quasi per una naturale legge di compensazione, mentre diminuiva la visibilità andavano aumentando i fenomeni elettrici, ineguagliabili stimolatori di una veloce discesa verso la capanna Vallot, ove riparammo prima che si scatenasse il finimondo.

A destra: il tracciato della via sul Pilier Nord. L’asterisco indica il bivacco; la «gran placca» è compresa tra le frecce. Foto: Joe Tasker/Mountain).

L’affollamento e lo scarso senso di altruismo degli alpinisti che usano i rifugi del versante francese del Monte Bianco come tappe di una via crucis, e in ognuna di esse sostano lungamente, privando del posto di riposo altri che giungono dal più impegnativo versante italiano, erano i segni evidenti che l’avventura era finita.
CORRADINO RABBI Presidente CAAI ·Gruppo Occidentale
Da LIBERI CIELI anni XI 1976

Vai all’articolo di Roberto Bianco e Paolo Bollini ripubblicato sul gognablog dell’amico Alessandro ….
Pilone Nord del Freney 36 anni dopo

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