Trilogia delle Valli Sperdute … Mai più sul Plù

Seconda parte dell’articolo sperimentale, nel senso che è scritto a quattro mani dall’amico Lorenzo Barbiè e da Mario Ogliengo, guida alpina.  Come già sapete dal prologo è multimediale perché durante la lettura sono da attivare i link a brani musicali.
La narrazione, nell’intento degli autori, dovrebbe essere un po’ scanzonatoria ed autoironica, da non prendersi troppo sul serio. Non so se ci sono  riusciti … a voi il giudizio
“Trilogia delle Valli Sperdute” fa riferimento a 3 gite un po’ speciali,  su montagne “minori”; al tempo in cui sono state fatte erano decisamente sconosciute (forse delle prime scialpinistiche!).
Questa la prima delle tre gite  … buona lettura!


Mai più sul Plù

Bracchiello, non vi dice molto vero? Sono quattro case malmesse e ammonticchiate, un’osteria, ora bruciata, il tutto piazzato lungo la strada che sale ad Ala di Stura e termina al Pian della Mussa, là dove si sono inventati la “Montanara ohè si sente cantare”.

Questa metropoli è lì, proprio dove quel “gran” Rio del Crosiasse salta nella Stura di Lanzo. Più in su il rio discende l’omonimo vallone: il Vallone del Crusias appunto, detto anche la Shangri Là delle Valli di Lanzo. Le Valli di Lanzo per antonomasia sono tre, ma poi c’è questa anomalia, questo disturbatore geografico, questa incomoda valletta incuneata tra la Val d’Ala e la Val Grande, con andamento svirgolato che diventa poi parallelo alle due valli.  Questa valle nascosta e misteriosa cela un paio di bei bricchi, il Doubia, il più alto con i suoi duemila quattrocento e più metri che però è un po’ sfigato perché alla sua destra (orografica s’intende) lo sfida il Piccoletto. Il Plù che, con i suoi 2201 metri, dispone di una carrozzeria di altro livello: una piramide bianca, ripida e nascosta, una chicca probabilmente mai sciata. Al Plù si andava in primavera e in autunno per consumare i polpastrelli sulle sue placche rosse e rugose. Camminavamo due ore faticose perché non avevamo niente di più comodo a portata di mano, un qualcosa di intermedio tra “la lotta con l’Alpe” e i “Nuovi mattini” che stavano sorgendo.

In inverno, quando si risale il fondovalle per un attimo si intravede la Piramide coperta da uno spettacolare e bianco piano inclinato sospeso su di un immaginario che ti devi inventare. Questa sciabolata sparisce dietro un costone che forse, e diciamo forse, lascia credere ad una continuazione ideale da sciare. E qui lor Signori della Corte una perlustrazione si impone: si potrà sciare lì dietro?

In un giorno di un freddo gennaio siamo in cinque a mettere i piedi nel paesello: Renzo, un misto di Baden Powell e Che Guevara, entusiasmo e personalità in abbondanza, grandi esperienze e capacità nel trovare i peggiori terreni su cui ‘possibilmente’ sciare. In breve il pericolo pubblico numero 1.

Enrico, posato, sornione, purtroppo per il resto della squadra troppo intelligente. Sì, una persona in gamba.

Piter (con la i), ah il nostro vecchio Piter come l’omonimo Sellers ma molto più coltivato e altrettanto ‘British’. Uno che aveva sciato ovunque e che nonostante tutto non si divertiva a sciare perché non ne era capace. Un bel mistero.

Dante, la nostra mina vagante, da un momento all’altro poteva fare partire un Gran Casino, un cuore grande come una casa.

Mario, con Renzo, è l’altro sorvegliato speciale; il giovane che cerca di superare i maestri con la conseguenza di aumentare la confusione.

Non era proprio l’alba ed il tramonto sarebbe arrivato sempre troppo presto. Via per una mulattiera ancora orgogliosamente lastricata, mangiata dagli arbusti in molti suoi tratti, ma adesso sepolta da un’abbondante coltre di neve.

Pietroni, traversoni su terreno non propriamente sciabile. Come gli amanti ci perdiamo per poi ritrovarci sulle poche tracce degli animali, gli unici che ancora percorrono queste antiche vie. E poi il nulla; dobbiamo scendere al ruscello, il solo modo per proseguire, e qui inauguriamo quello che qualche anno più tardi diventerà il torrentismo. Questa peculiare attività che con lo sci ha nulla a che vedere la effettuiamo in salita e con gli sci ai piedi. Come riscaldamento non è malaccio. E ora ci tocca una gimcana tra sassi e pozze ghiacciate, tra sbrendoli di neve che nascondono dei bei trappoloni. Ed è proprio in questo zigzagare che Dante, il più pesante della compagnia ci casca. Sfonda un ponte di neve e si ritrova incastrato a testa in giù con il naso ad un palmo dall’acqua. Torrentismo, claro che si. Una faticaccia rimetterlo in piedi ma ci riusciamo e si continua. Impercettibilmente la valle si allarga, compaiono le prime radure. Per farla breve un buon terreno per sciare. Incontriamo baite dimenticate, resti di tempi andati. Siamo sui 1100-1200 ma la neve qui abbonda. Tracciamo una pista che è più simile ad una trincea. Ormai abbiamo preso il ritmo seppur a velocità molto , molto ridotta. Ci diamo il cambio con una certa frequenza anche se qualcuno trova sempre la scusa per una foto, per sistemarsi gli scarponi o la pelle che sta scappando. Qualche volenteroso che prenda il comando e batta c’è sempre. Il terreno è divenuto decisamente sciistico. La valle si svela, una bellezza rivestita da una coltre di panna montata che smussa e addolcisce dossi e conche. Mica tanto dolce è il triangolone che scende ripido dal nostro obiettivo.

Ci restano 500 metri di dislivello da superare. Lo guardiamo con una certa preoccupazione, soprattutto per cercare una linea di salita che sia sicura. Un costone piuttosto dritto ci permette di continuare senza invadere i due versanti ripidi e ben carichi di panna. Non siamo delle meteore e sono quasi le 3 del pomeriggio. I nostri iniziano ad essere perplessi sul continuare o fermarsi. Piter, il più saggio decide che basta così. L’ Armata Brancaleone riparte. Batti e ribatti eccoci su questa linea quasi perfetta; la risaliamo facendo una traccia regolare, costante ed estetica, così come è estetica questa costa sospesa nel cielo. Nonostante l’altezza modesta l’impressione è quella di essere su un bel 4000. Non siamo lontani dalla cima. Gli ultimi metri sono grandiosi, è un’apoteosi e noi ce la godiamo tutta anche se siamo alla frutta. Adesso ci tocca fare i conti con l’ora. Sono le 16,15 d’un giorno d’inizio gennaio. Il buio è dietro l’angolo. Non c’è il tempo di concederci una sosta che ci piacerebbe assai considerato il gran mazzo. Via le pelli e giù a stecca in discesa. Grande sci su questo pendione. Raggiungiamo i piani ma la strada è ancor lunga e il tempo si dilata mano a mano che scendiamo. Discesa in penombra su pendii ancora sciabili fino al tratto inferiore dove le Madonne si sprecano. Una Beresina, ma quel giorno qualcuno ai piani alti fu benevolo e non volle infierire su di noi. Con qualche botta e i sederi un po’ ammaccati arriviamo a Bracchiello, una metropoli ai nostri occhi spessi. Sono le 19,30, è notte fonda e a dire il vero siamo un po’ stupiti. Non delle nostre ‘straordinarie’ capacità ma della fortuna che ci ha accompagnato. Questa volta l’abbiamo, metaforicamente parlando, fatta fuori dal vaso ma di questo ne riparleremo. Una piola ci aspetta con qualche tomino, delle acciughe al verde e una Barbera che ricordiamo ancora. E lì comodi e rilassati ce la contiamo e ce la cantiamo.

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