Pietro Trabucchi: Perseverare è umano

In questo difficile momento dove #IoRestoaCasa ma #Andràtuttobene abbiamo il piacere di ospitare lo psicologo Pietro Trabucchi  con il primo capitolo del suo libro PERSEVERARE E’ UMANO che fa seguito al precedente RESISTO DUNQUE SONO. Nei suoi libri, che raccomando a Tutti , Pietro ha sviscerato buona parte degli aspetti legati alla resilienza: alla capacità, cioè, di rimanere motivati nel perseguire i propri obiettivi per lunghi periodi di tempo nonostante le difficoltà in tutte le situazioni della vita … buona lettura!


Questo è quel pergolato

e questa è quell’uva
che la volpe della favola
giudicò poco matura
perché stava troppo in alto.
Fate un salto,
fatene un altro.
Se non ci arrivate
 riprovate domattina,
vedrete che ogni giorno
 un poco si avvicina
il dolce frutto;
l’allenamento è tutto.
Gianni Rodari

Resilienza: l’arma segreta del Sapiens Sapiens

Errare è umano, perseverare è diabolico.
Proverbio popolare fuorviante

Al contrario di quello che sostiene il noto detto, perseverare non è diabolico: è umano. Diabolico è rinunciare a impegnarsi, rimanere immobili, mettersi ad aspettare che la motivazione arrivi dall’esterno, non sfruttare a fondo tutte le risorse di cui gli esseri umani sono dotati. Se impegno e motivazione mettono in grado di raggiungere risultati straordinari, diabolico è sprecare questa opportunità.*

* Questo è il significato originario anche della celebre parabola evangelica dei talenti (Matteo 25, 14-30). Il servo infingardo, che viene punito, è quello che sotterra i talenti ricevuti dal padrone, e così sciupa l’opportunità di farli crescere. La critica è verso chi spreca la propria vita e non si impegna a far crescere le proprie potenzialità. Oggi il concetto di «talento» ha un significato diverso, ovvero di capacità innata. Paradossalmente così formulato è un concetto che, come vedremo, spinge all’immobilità e al fatalismo.

Intorno al concetto di motivazione esiste molto disorientamento. Confusione inevitabile, visto che viviamo in una società che ha abbandonato il senso dell’impegno e della volontà individuale in cambio del culto della fortuna, del talento, della genetica interpretata come destino.  La genetica iper-semplificata, quella dei rotocalchi, è una scienza fraintesa e piegata a un uso improprio: è una sorta di oroscopo più aggiornato, utile nel rassicurarci che tanto le cose sono già scritte e noi non possiamo cambiare nulla. Significativo che in questo capillare sforzo di divulgazione a uso sedativo siano andati persi gli ultimi sviluppi della genetica: quelli noti con il nome di epigenetica.*

L’epigenetica ha dimostrato che le nostre esperienze di vita – quindi le nostre scelte e i nostri comportamenti – modificano il nostro DNA qui e ora; e che queste modificazioni sono trasmissibili alla discendenza. Questo significa, in una specie di karma rivisitato, che quello che otteniamo in vita con fatica e impegno lo tramandiamo ai nostri successori.  E altrettanto quello che non otteniamo.

Improvvisamente il fattore trainante dell’evoluzione non è più il caso: diventa in gran parte un fatto di motivazione, di volontà. Ciò aumenta in modo esponenziale il potere degli individui sulla propria vita, ma anche la loro responsabilità. Meglio non saperlo, allora: qualcuno potrebbe svegliarsi e rimanerne spaventato.

* L’epigenetica rivaluta enormemente il ruolo delle proteine regolatrici all’interno dei cromosomi. Le proteine regolatrici sono sensibili all’influenza dell’ambiente e trasmettono le loro modificazioni al DNA.  Ciò significa che le esperienze dei genitori possono essere conservate e trasmesse direttamente per via genetica alla discendenza. Fino a ora si pensava che le modificazioni dei geni avvenissero in modo casuale e che venissero selezionate dall’evoluzione solo quelle che si rivelavano più adatte all’ambiente. Sull’epigenetica si veda L.A. Pray, Epigenetics: Genome, Meet your Environment, in The Scientist, 2004,

Smarriti l’impegno e la volontà individuale, nel nostro tempo la motivazione viene percepita sempre di più come qualcosa di esterno: qualcosa che non ci si può dare da soli, che si ha quasi per caso. Che dipende da incentivi, dall’essere fortunati o dalla volontà altrui. Una merce rara, una specie di dono occasionale, che ci è estraneo anche se ci muove. Non è così. Essere motivati non è una condizione eccezionale: come vedremo, per la nostra specie rappresenta la norma. Si tratta di uno dei segreti del successo dell’evoluzione umana: la capacità di automotivarsi e di mantenere per lunghissimo tempo la motivazione.

Una società demotivata condanna i suoi membri a non diventare mai padroni della propria vita. Finisce che il luogo del controllo è sempre esterno: se sei nato così, con queste caratteristiche, a che pro lottare per cambiare la situazione? Se per la corsa o per quell’attività «non sei portato», oppure sei di quel segno zodiacale che non è adatto, o se non hai il gene giusto, perché continui ad affannarti?  Se sei furbo aspetti la fortuna, la spintarella, il cambiamento di vento. Nel frattempo è inutile stancarsi. La scomparsa dell’impegno lascia spazio all’adorazione delle scorciatoie: abbiamo una pillola per raggiungere senza fatica qualsiasi obiettivo, da oggi perfino la crema per dimagrire mentre si dorme. Il prodotto finale di questo modo di pensare sono passività e apatia. Soprattutto nelle nuove generazioni. Allevate con questa mentalità, non rimane altro destino per le nuove generazioni che crescere come buoni e docili consumatori. Una sorta di schiavitù edulcorata.

Eppure, prima di oggi, il genere umano non ha potuto permettersi alcuna demotivazione, alcun tentennamento di fronte alla vita. E ciò – principalmente – per due ordini di fattori radicati nel nostro passato. Ci soffermeremo a lungo su di essi, ma voglio anticiparli brevemente: per prima cosa siamo una specie che nasce incompleta, bisognosa di accudimento esterno, con pochi comportamenti già preformati e con un cervello privo di connessioni stabili.* Il controvalore di questa vulnerabilità iniziale sta nella possibilità successiva di super-apprendere rispetto agli altri animali e di sapersi quindi adattare a tutti gli ambienti.

Se apprendere, allenarsi, creare nuove connessioni nervose fa parte del destino umano, non deve stupire che l’uomo sia straordinariamente motivato da tutte quelle attività che lo fanno sentire capace, autonomo e autodeterminato. Le persone sono molto più disposte a impegnarsi quando la motivazione fa leva su questi fattori; lo sono molto meno quando le motivazioni si appoggiano soltanto su incentivi, sanzioni o sulla volontà altrui non condivisa. Purtroppo la nostra cultura è debole di fronte a questa esigenza, le organizzazioni sono impreparate a fornire stimoli di questo tipo: tutte, a cominciare dal sistema scolastico, sono molto più strutturate per far leva sul senso di incompetenza dell’individuo, piuttosto che per cercare di sviluppare l’opposto.

* Lo scimpanzé – con cui l’uomo condivide più del 98% del patrimonio genetico – alla nascita presenta un cervello sviluppato pari a circa il 70% di quello di un adulto, e ne completa la forma nei primi mesi vita, mentre nell’uomo le dimensioni del cervello alla nascita sono circa il 30% di quelle di un adulto, e la crescita avviene lentamente fin’oltre i vent’anni. Ciò dà luogo a uno sviluppo straordinario dell’area cerebrale deputata ai processi di pensiero, la neocorteccia.

Nei prossimi capitoli leggerete alcune testimonianze su quanto le persone siano disposte a soffrire, fare sacrifici, andare oltre i propri limiti se in cambio ricevono il piacere di «farcela», di sentirsi competenti.

Ciò che più di tutto contraddistingue le spinte motivazionali è la loro resistenza, la forza con cui sanno abbattere difficoltà e ostacoli. In fondo, se ci pensiamo bene, tutti abbiamo delle motivazioni. Ne abbiamo ogni giorno. Il vero problema sta nella capacità di farle durare.

Facciamo un esempio classico: quello di san Silvestro. L’ultimo giorno dell’anno gran parte della gente si pone obiettivi ambiziosi per l’anno successivo.  Dimagrire, rinunciare a certe abitudini, oppure intraprendere un programma di esercizio fisico. Purtroppo gran parte di quelle intenzioni svaniscono entro la prima settimana. Che succede? Le persone non erano davvero motivate? No, molto probabilmente lo erano. Quasi sempre avevano scelto liberamente l’obiettivo. Spesso la scelta si era basata su una serie di processi e informazioni razionali che sostenevano la reale utilità di quel proposito. Ad esempio, tutti i fumatori sanno benissimo a livello razionale che smettere di fu- mare porta a sensibili vantaggi in termini di salute. E questo vale anche per chi vuole perdere peso, smettere di be- re, controllare i propri impulsi iracondi e così via. Eppure quando i costi del perseguire quell’obiettivo (in termini di disagi, di percezione di fatica, di imprevisti, di ostacoli in- contrati, di attenzione da dover dedicare…) hanno superato una certa soglia soggettiva, la motivazione si è volatilizzata.

Ecco che per comprendere come funziona la motivazione, diventa essenziale il concetto di «resilienza». La resilienza è la capacità di persistere, di far durare la motivazione nonostante gli ostacoli e le difficoltà.* Il termine «resilienza» proviene dalla metallurgia: indica, nella tecnologia dei metalli, la resistenza a rottura dinamica ricavata da una prova d’urto. In questo campo, la resilienza rappresenta il contrario della fragilità. Etimologicamente il termine «resilienza» deriva dal verbo latino «resalio», iterativo di «salio». Qualcuno propone un collegamento suggestivo tra il significato originario di «resalio» – che connotava anche il gesto di risalire sull’imbarcazione capovolta dalla forza del mare – e l’attuale utilizzo in campo psicologico: entrambi i termini indicano l’atteggiamento di andare avanti senza arrendersi, nonostante le difficoltà.

La differenza nell’intensità delle motivazioni umane si misura proprio nel loro grado di resilienza. C’è chi rinuncia a un obiettivo neanche troppo sfidante al primo contrattempo. C’è chi, come Henri Charrière (al secolo «Papillon»), è riuscito a sopravvivere ai lavori forzati in Caienna per trenta atroci anni, perché motivato dal desiderio di riconquistare una libertà che gli era stata ingiustamente sottratta. La potenza della motivazione umana è stupefacente. Gli altri animali non sanno apprendere dalle sconfitte, esercitare la speranza nei contesti più sfavorevoli, rialzarsi e ricominciare a ricostruire da capo dopo le sventure. Queste capacità umane non sono l’effetto del possesso di un fisico invulnerabile o di un potere soprannaturale. La resilienza è una capacità cognitiva. Vale a dire che attiene al modo in cui elaboriamo le informazioni e ci rapportiamo con la realtà. Come tutte le capacità umane, è incrementabile: tutti gli individui possono migliorarla, indipendentemente dalla dotazione di base che ricevono alla nascita. Coltivare la resilienza però, come vedremo, è una disciplina. Non ci sono formule magiche o scorciatoie. Va allenata, ma richiede tempo e dedizione.

Due parole sul termine «cognitivo». È importante evitare di cadere in certi equivoci. Cambiare la propria percezione del mondo non significa crearsi illusioni o raccontarsi menzogne. Significa, al contrario, diminuire il tasso di falsità, inesattezza o distorsione con cui costantemente leggiamo la realtà. Questo velo di contraffazione ha spesso la funzione di mantenerci all’interno della nostra area di comfort, proteggendoci dalla fatica di impegnarci per realizzare pienamente il nostro potenziale. E, attraverso continue endovene di vittimismo, ci consola del fatto che il mondo è cattivo e non ci merita; e che quindi noi non abbiamo alcuna responsabilità.

Il sistema cognitivo della persona resiliente scopre opportunità reali, non si inventa fantasmi consolatori. La differenza tra la prima e la seconda opzione è che la prima si può tradurre in comportamenti che modificano in modo efficace la realtà, cioè in impegno. La seconda no. «Motivazione», «resilienza» e «impegno» sono le tre parole chiave di questo libro.

Rimane solo un’ultima nozione generale riguardo la resilienza. Il sistema cognitivo attiene al pensiero e origina nelle nostre strutture cerebrali; tuttavia è in strettissima relazione con il funzionamento del corpo e con la regolazione dei processi emozionali. Per duemila anni in Occidente abbiamo vissuto nella falsa credenza che «mente» e «corpo» fossero separati. Oggi sappiamo che non è così. I pensieri influenzano il funzionamento del corpo e viceversa.

* Al concetto di resilienza ho dedicato il libro Resisto dunque sono, Corbaccio, 2007, che approfondisce il concetto soprattutto in relazione alla capacità di gestire lo stress.

Le persone resilienti possono contare anche su una risposta corporea adeguata per sostenere la propria motivazione. Le dimostrazioni sono tante. Lo sport ci sottopone continuamente esempi empirici dell’influenza tra pensiero e corpo. Pensiamo alla stupefacente capacità che possiedono certi atleti di spostare le soglie di percezione del dolore. La convinzione di «potercela fare» spinge avanti soggetti con lesioni o gravi forme di infiammazione. L’ho potuto constatare molte volte nelle gare di ultramaratona. È un da- to di fatto, a prescindere dai giudizi che si possano dare sulla scelta di trascendere i propri limiti fisici procurandosi delle patologie. Una forte resilienza può spingere la motivazione delle persone a un impegno straordinario.

Se l’impegno è il risultato della motivazione, perché gli esseri umani sono così bravi a impegnarsi? Perché abbiamo detto che essere intensamente motivati rappresenta la norma nella nostra specie? La risposta riguarda l’altro ordine di fattori che, in senso motivazionale, ci rende unici in quanto esseri umani.

Be’, è una storia lunga, che va avanti da quasi due milioni di anni, da prima che diventassimo Homo Sapiens Sapiens. Permettetemi una parentesi. Mi ha sempre colpito il fatto che quando dobbiamo pensare alla massima espressione sportiva, la maggior parte di noi indica la finale olimpica dei cento metri: la suprema manifestazione di potenza e velocità. Eppure, la nostra specie è poco adatta a quel tipo di prestazioni. Un leone affamato impiegherebbe meno di venti secondi a raggiungere Usain Bolt, l’uomo più veloce del pianeta. Forse è vero che l’erba del vicino è sempre più verde; o che si ammirano di più le qualità che meno si possiedono. Perché c’è un fatto incontrovertibile. Altro che sprint: la specie umana è molto lenta se consideriamo la velocità massima su brevi distanze. Ma indubitabilmente l’uomo è l’animale più resistente (in senso fisico) sulla faccia della Terra: quello capace, cioè, di tenere una bassa velocità per un tempo maggiore.

Nel 2004 la prestigiosa rivista Nature dedica la copertina del mese di novembre a una ricerca insolita. Si tratta dello studio di due scienziati, Dennis Bramble e Daniel Lieberman che dimostrano come l’evoluzione abbia selezionato nella nostra specie alcune caratteristiche che la rendono – unica tra i primati – specialista nella corsa di resistenza.* I due ricercatori  hanno individuato nel  corpo umano ventisei marker morfologici che segnalano adatta- menti alla corsa di resistenza.

I nostri cugini prossimi, lo scimpanzé, il gorilla, l’orango sono camminatori, ma non corrono né coprono lunghe di- stanze. I primati presentano uno sviluppo molto limitato dei glutei, che sono una caratteristica tipicamente umana e sono il muscolo chiave nella corsa bipede.

Sono privi del legamento nucale, una formazione anatomica che serve a stabilizzare il cranio durante la corsa. Anche gli Australopitechi ne erano privi. I rudimenti del legamento appaiono con l’Homo Erectus. Il legamento nucale è una formazione anatomica tipica delle specie che corrono: cavalli, canidi e umani. I maiali per esempio ne sono privi: essi possono compiere solo brevi scatti, ma non corse di resistenza. Tentate di far correre un maiale su un tapis roulant e ve ne accorgerete. Bramble e Libermann lo hanno fatto e, come dice Bramble, «non è stato un bello spettacolo».-

* Dennis M. Bramble & Daniel E. Lieberman, Endurance Running and the Evolution of Homo, in Nature, 2004, 432, pp. 345-352; D.E. Lieberman, D.A. Raichlen, H. Pontzer, D.M. Bramble e E. Cutright-Smith, The Human Gluteus Maximus and Its Role in Running, In Journal of Experimental Biology, 2006, 209: pp. 2143-2155; C. Rolian, D.E. Lieberman, J. Hamil, J.W. Scott e W. Werbel, Walking, Running and the Evolution of Short Toes in Humans in Journal of Experimental Biology (2009) 212, pp. 713-772.

Inoltre i primati hanno un tendine d’Achille poco sviluppato. Fattore vantaggioso per chi cammina perché rende il passo più stabile, ma che rende la corsa bipede praticamente impossibile: provate a correre tenendo i piedi rigidamente a martello!

Poi l’adattamento più evidente: l’Homo Sapiens Sapiens è pressoché privo di pelliccia, fatta eccezione per una piccola porzione superstite sulla sommità del capo destinata a proteggere il cervello dall’irraggiamento solare. Gli umani presentano una termoregolazione molto più efficiente che qualsiasi altra specie animale. La perdita del pelo si accompagna a un incremento straordinario della presenza di ghiandole sudoripare sotto la pelle glabra. Il sudore è veramente una conquista umana! Grazie al suo cane Vashti, Lieberman ha collegato questo adattamento alla necessità di correre a lungo. Quando uscivano insieme a fare jogging, Lieberman notava che nelle giornate particolarmente calde Vashti non riusciva a terminare il solito percorso senza doversi fermare per qualche minuto sotto l’ombra di un albero. Quella pausa serviva all’animale per smaltire calore interno attraverso la respirazione, visto che i cani non possiedono una rete efficiente di ghiandole sudorifere. Gli umani, invece, benché molto più lenti negli sprint, si sono evoluti per correre a lungo.

Ma tutto questo, perché? Perché la possibilità di correre ha aperto nuovi orizzonti alimentari alla nostra specie. Il passaggio fondamentale nell’evoluzione dei nostri progenitori sembra sia stata proprio l’introduzione di nuove fonti di cibo:* più calorie e proteine extra a disposizione nella dieta hanno permesso al nostro cervello di espandersi trasformando il limitato «processore» dell’Australopiteco nel modello molto più evoluto proprio dell’Homo Erectus. Più proteine, vuol dire più carne. Anche altri primati come lo scimpanzé sono carnivori occasionali. L’utilizzo da parte loro di tecniche di caccia in gruppo nei confronti di prede come scimmie più piccole (i colobi, per esempio) è stato spesso osservato da etologi e naturalisti.  Tuttavia non si tratta di eventi abituali. Il ricorso sistematico alla caccia e la conseguente relativa disponibilità di cibo sembra essere stato uno dei fattori chiave per lo sviluppo di comportamenti sociali strategici, di abilità comunicative, di strumenti e del cervello stesso.

* Si veda per esempio: Craig B. Stanford, Scimmie cacciatrici, Longanesi, 2001.

I nostri lontani antenati cacciavano prede di grosse dimensioni, unica possibilità per assicurare carne all’intero gruppo: antilopi, gazzelle, orici, cervi, ungulati pronti a scappare, e di grossa taglia. E non era impresa facile: due milioni di anni fa l’arco e le frecce non erano ancora stati inventati. Non c’erano nemmeno la lancia (la cui comparsa pare situarsi tra i trecento e i duecentomila anni fa); men che meno le fionde, le balestre e tutto il resto dell’arsenale. Come potevano farcela quegli incroci tra scimmioni ed es- seri umani, armati solo di nudi bastoni?  È semplice. Privi della velocità per assalirle a sorpresa sfinivano le prede a furia di inseguirle. È la tecnica che viene definita «persistence hunting», caccia persistente. Al giorno d’oggi esisto- no ancora popolazioni che praticano questo tipo di caccia, come i Boscimani o i Tarahumara messicani.* L’animale inseguito inizialmente distanzia i cacciatori. Ma questi restano sulle sue tracce anche quando l’animale non è più in vista. Dopo qualche tempo la preda comincia a surriscaldarsi e deve rallentare: come nel caso di Vashti, il cane di Lieberman, la sua termoregolazione non è efficiente come quella dei suoi inseguitori. Alla fine, dopo un inseguimento che dura anche cinque o sei ore, l’animale è sfinito; e spesso collassa prima ancora che gli inseguitori lo abbiano raggiunto e ucciso a bastonate.

Oltre un milione di anni su e giù attraverso la savana hanno plasmato la nostra specie. C’è stata una pressione selettiva nei confronti degli individui più resistenti e verso lo sviluppo di particolari caratteristiche fisiche. Fino a ora l’attenzione degli scienziati si è focalizzata sugli adattamenti fisici, ma un milione e più di anni di «caccia persi- stente» hanno anche selezionato speciali caratteristiche cerebrali.  Il cacciatore perseverante aveva necessità di mantenere la concentrazione e l’impegno sull’obiettivo a livelli elevati e per lungo tempo. Oggi si cominciano a studiare alcune aree recenti del cervello umano, come le aree prefrontali. Sono aree coinvolte nella concentrazione, nei processi attentivi e nei comportamenti mediati dall’intervento della volontà, come resistere a una tentazione. Se qualcuno vi mette davanti il vostro dolce preferito e vi chiede di non toccarlo, queste aree si attivano in modo massiccio. La «forza di volontà» cessa di essere un concetto filosofico e comincia a diventare un’espressione dell’attività cerebrale, un tassello di quel puzzle complesso che abbiamo definito «resilienza». Mantenere la motivazione è una disciplina, è esercizio, richiede risorse. La motivazione non è equiparabile al desiderio; o per lo meno non è solo questo. È anche abitudine a mantenere il disagio, a sopportare. Un’intera parte del nostro cervello si è sviluppata per permetterci questo. Queste aree sono massicciamente implicate in certe attività sportive dove la componente motivazionale è fondamentale, come le gare di ultramaratona.

Bastano questi accenni alla storia della nostra specie per scoprire l’ingenuità di certe concezioni, come quella che vede nella motivazione uno stato straordinario; o quella che sostiene che agli umani, per esprimere comportamenti motivati, siano indispensabili incentivi o spinte esterne.

Eppure per esserne convinti dobbiamo sbarazzarci di molte credenze consolidate che persistono nel mondo dello sport, in quello delle organizzazioni, perfino in quello accademico. Farlo non è facile. Personalmente, per arrivarci, ho dovuto ricevere una sonora lezione.

* Louis Liebenberg, Persistence Hunting by Modern Hunter-Gatherers, in Current Anthropology, 2006, 47, p. 6; Louis Liebenberg, The Relevance of Persistence Hunting to Human Evolution, in Journal of Human Evolution, 2008, 55, pp. 1156-1159.

 Capitolo tratto dal libro “PERSEVERARE E’ UMANO” (ed. Corbaccio 2012) di Pietro Trabucchi (scarica QUI il pdf)

 

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