Enrico Camanni: “Verso un Nuovo Mattino”

L’amico, giornalista e scrittore, Enrico Camanni ci ha gentilmente concesso la pubblicazione di alcuni brani tratti dai suoi libri più recenti … Iniziamo con questo tratto da “Verso un Nuovo Mattino” editore Laterza 2018

Noccioline

Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in cammino: che cos’altro ti aspetti?
Kostantinos Kavafis (poeta)

Mike Kosterlitz è un ricercatore di fisica e fortissimo scalatore di graniti. Dopo la laurea a Cambridge e il dottorato a Oxford, ha vinto una borsa di studio all’Istituto di Fisica Teorica di Torino, trasferendosi nella città delle Alpi. Nell’autunno del 1970 ha aperto una nuova via sul Corno Stella con Gian Carlo Grassi, che ha annotato sul suo taccuino:
Mike, con fragorose urla come si usa nel karate, saliva con audaci gesti sull’immensa lama di gneiss. Questo suo procedere mi impressionava e mi intimidiva, e poi aveva pronunciato il suo fatidico giudizio: «Difficile».
Lo scozzese porta abilità e aggeggi ignoti ai piemontesi. Da noi si cerca ancora di salire con ogni mezzo, in Gran Bretagna prevalgono l’etica e lo stile di arrampicata. L’ultimo giorno di marzo del 1973, insieme a Gian Piero Motti, Kosterlitz scala il diedro centrale della Torre di Aimonin senza piantare chiodi. «Scherzi da prete» pensano quelli della seconda cordata, «Pesce d’aprile!», finché Kosterlitz e Motti mostrano dei misteriosi blocchetti metallici chiamati nuts, noccioline, che si incastrano nelle fessure senza far male alla roccia. Una magia. Venti giorni dopo Mike replica con Motti e Grassi sul Caporal, aprendo la via del Sole nascente, da The House of the Rising Sun degli Animals.
La tecnica e la mentalità britanniche fanno bene al rinascimento: spalancano orizzonti. Prima di Kosterlitz sembrava che le fessure fossero la casa del chiodo, con lui hanno cambiato destino. Qualcuno dice che le noccioline siano come le mani di Mike: nate per l’incastro. Nel 1970 l’hanno visto scalare la fessura del sasso spaccato all’ingresso della piana di Ceresole, che sono sette metri impossibili per chi è nato da questa parte della Manica. Per otto anni gli imitatori si sono scornati sulla crepa verticale e nessuno si è staccato dall’erba; neanche uno dei nostri è riuscito a superare i primi centimetri, i più difficili. Le mani e le ambizioni dei giovani subalpini scivolavano senza pace dalle labbra della fessura Kosterlitz mentre il mito di Mike s’ingigantiva. Ed era un paradosso, perché lui rifiutava i miti, ci rideva sopra, ed era appunto ignorandoli che riusciva a superarli.
Il primato reggerà fino al giugno del 1978, quando Roberto Bonelli andrà al prato della Kosterlitz con una tuta a righe e una maglia infilata nella tuta.
«Diavolo di uno scozzese», penserà Bonelli guardando la fessura per la prima volta.
Gli piacerà subito. Ci metterà le mani, proverà l’incastro e in breve tempo, sotto gli occhi sgomenti dei presenti, terrà la crepa e salirà in cima al sasso.
«Come hai fatto?» gli chiederanno sbalorditi.
«Non saprei» risponderà Roberto.
Intanto si è consumata la storia della Valle. Nell’ottobre del 1973 Grassi e Galante hanno scoperto il fratellino del Caporal, El Sergent, ancora più vicino alle case di Ceresole. Sono saliti sotto la lastra di gneiss per tracciare una via dal disegno trasgressivo: la Cannabis. Durante il delicato lavoro di chiodatura Galante ha notato la spaccatura diagonale che incide la fascia inferiore del muro. Un fendente nella roccia. Al contrario dei fessurini della Cannabis, la diagonale è troppo larga per i chiodi e perfino per i cunei di legno. Promette un’arrampicata libera senza respiro, da antichi cavalieri.
«Hai visto che roba!», ha detto Gian Carlo.
«Mi piacerebbe provarla», ha risposto il Mago.
Danilo è sempre alla fine della quinta liceo, e come sempre a scuola si annoia, e per distrarsi pensa alla ferita del Sergent. Incrocia le mani sotto il banco immaginando spaventevoli bloccaggi. Lascia passare l’inverno e nel maggio del 1974 se la gioca con Bonelli e Paolo Lenzi. Scalano la crepa con un epico incrocio di braccia, gambe e madonne. Nasce la Fessura della disperazione.
Poi arriva un altro autunno, la stagione magica della Valle Orco. Larici gialli, ombre lunghe e il cielo che batte sullo scudo argentato del Caporal. In un mese Motti e compagni esplorano il ciclopico diedro Nanchez e il Lungo cammino dei Comanches. Entrano due volte nelle labbra di gneiss confondendosi con la pietra e strisciando come lucertole verso l’altopiano.
L’ultima salita prima dell’inverno – scrive Gobetti – fu la Lunga Pista dei Comanches… Tutto il Circo Volante aveva già arrampicato in altre occasioni per il compimento di quel progetto e in una tersissima giornata di ottobre Giancarlo e Giampiero, Danilo e il malcapitato si trovano a finire il gioco; Roberto sa già chi è l’assassino e si ferma a prendere il sole alla base…
Arriviamo alla sbalorditiva fessura finale mentre sta diventando buio, dall’alto il maestro ci guarda sorridente, il mago attacca, ma dopo dieci minuti di ululamenti non ce la fa a passare… Le corde se le è portate giù il principe che sta scendendo nelle ultime luci; Gobetti il «paria» si domanda: «Come faremo?» e si accende una cicca. Il maestro se ne va dal suo ultimo punto di osservazione, poi torna con un ramo di pino molto lungo e noi con un laccio attacchiamo la nostra corda al palo.
Fu così che il Circo Volante seguì fino ad Eldorado la Lunga Pista dei Comanches.
In primavera Motti vede la fine del viaggio. L’esplorazione è appena cominciata, ci sarebbero ancora belle linee da inventare e nuove vie da salire affinando le tecniche del clean climbing, imparando a usare le scarpe leggere, spingendo l’arrampicata libera verso il settimo grado e oltre, ma l’epoca d’oro della Valle dell’Orco si esaurisce nei primi giorni di giugno del 1975, appena tre anni dopo i primi approcci, l’antico timore, l’irresistibile amore.
«Nella lotta non vi è alcuna libertà. Il giusto è alla fine della lotta», pensa Motti citando Dylan:
Non vorrei essere Bach, Mozart, Tolstoj, Joe Hill, Gertrude Stein o James Dean: sono tutti morti. I grandi libri sono stati scritti. I grandi detti sono stati pronunciati. Voglio solo mostrarvi un’immagine di quello che succede qui qualche volta, anche se io stesso non so bene cosa stia succedendo.
Motti chiude la primavera della Valle battezzando con Morello la via Itaca nel sole, la scalata perfetta sullo specchio del Caporal, pochi metri e molte galassie più in là dei Tempi moderni. Dopo ore e ore di chiodatura chirurgica, sbucato per l’ultima volta tra i rododendri dell’altopiano, il Principe raccoglie le sue cose e se ne va.
Due settimane dopo torna a Ceresole e sparisce. Alla diga trovano la vecchia Mercedes a gasolio, ma di Motti non c’è traccia da due giorni. Scatta l’allarme, si mobilita la comunità alpinistica. In poche ore viene allestita una variopinta operazione che incrocia gli amici di Gian Piero e i professionisti della ricerca. Molti non si conoscono, qualcuno non si sopporta, comunque i ragazzi ribelli collaborano con gli alpinisti della vecchia scuola, i volontari del CAI con quelli del mestiere. C’è tutto l’esercito del Soccorso alpino, arrivano i cani e gli elicotteri, ma non c’è nessuno da soccorrere. Motti è introvabile.
Oltre cento uomini battono le montagne dell’Orco sotto il diluvio di una falsa estate. Piove tra le nebbie, cola acqua nei canali. Ogni tanto tuona e fulmina. Nessuno uscirebbe con un cielo così triste, invece si animano i sentieri e le pietraie.
Sbucano anche gli amici di Reggio Emilia, quelli della Pace con l’Alpe.
«Questo è il tipico tempo del Canavese» spiegano i piemontesi.
«Piacevole», rispondono gli emiliani scivolando sulla prima «e».
Lo cercano inutilmente sotto le pareti del Nuovo Mattino, tra gli ontani, sui nevai, sulle creste. Le squadre salgono in montagna e rientrano a mani vuote. Si fanno congetture, forse è stato visto da un pastore, qualcuno immagina che dal Colle della Crocetta possa essere sceso in Val Grande, la sua valle amatissima. Allora si spostano a Breno, il paese di Gian Piero, e l’osteria di Cesarin apre all’ansia e della speranza. L’oste rabbocca le caraffe. «Vedrete che torna», assicura versando litri di rosso. Il vino aiuta i valorosi.
Passano i giorni e scemano le illusioni. È morto di sicuro, ormai lo pensano quasi tutti, sono sempre morti dopo quattro giorni. Una sera i soccorritori si coricano un po’ brilli per ammazzare l’ultima notte. Il 25 giugno il cielo è sereno. Si alzano all’alba, anche se preferirebbero restare sotto le coperte. Bisogna pur smettere di cercare prima o poi. Pacificarsi. Arrendersi. Hanno troppa paura di trovare un cadavere.
Vorrei pensare che sia fuggito dal mondo piuttosto che saperlo freddo – scrive Gobetti –. È chiaro, ma non detto, che oggi è l’ultimo giorno di ricerca, che la storia finisce qui…
Urla nella strada. Esco di corsa. Giampiero è davanti a me venti metri lontano, col sacco, gli occhi dilatati, la bocca spaccata dalla sete, incespica, tiene gli occhiali in mano, non riconosce, ci cade nelle braccia, farfuglia: «Acqua, che colpo… acqua, acqua». È vivo, è vivo, mamma, è vivo, sì, giudafalso, è vivo! Oh, incredibile, incredibile in questo mondo che capiti la gioia in mezzo a noi e restiamo inebetiti gridando, o piangendo, o scuotendo lentamente la testa per convincerci che è vero che viviamo una realtà più bella del sogno.
Nelle ore successive, mentre il corpo di Motti si riprende, ma non la sua memoria, si ipotizza che sia stato il fulmine a stordirlo da qualche parte, per giorni e notti, nella più nera solitudine. Altri dicono che l’ha fatto apposta, ma ormai non fa molta differenza. L’importante è che sia tornato e che l’ottimismo di Cesarin abbia sconfitto la disperazione di chi temeva di averlo perso.
Comunque non si è smarrito per caso. E non in un momento qualsiasi. Motti non ha mai fatto niente per caso. La sua esistenza è segnata da un preciso percorso di ricerca e anche gli apparenti «smarrimenti», i segretissimi flirt con il mistero della morte, sono sempre la coincidenza di una crisi, che nel significato originario vuol dire separare, scernere, discernere, dunque rompere con il passato e prepararsi alla rinascita.
La primavera del 1975 è un momento cruciale nella vita di Motti. La scomparsa del 20 giugno segue di pochi giorni l’apertura di Itaca, dove ha capito di aver raggiunto l’apice di un percorso. E in questo caso la parola vetta ha un peso, perché da un apice non si può che scendere, tornare indietro. È passato appena un mese e mezzo dalla morte di Danilo Galante, che ha messo fine alla ricreazione. Dopo l’assurdo sacrificio del Grand Manti scalare non è più un gioco, dunque non ha più senso. Bisogna cercare altrove.
Motti sente arrivare la crisi e cerca la cesura, lo stacco. Deve perdersi per ritrovarsi. A ventinove anni veste abiti nuovi e sprofonda nella scrittura della monumentale Storia dell’alpinismo, che uscirà per De Agostini nel 1977 insieme all’Enciclopedia della montagna. La Storia è la sua maggiore avventura solitaria, la più dura, ma anche l’impresa che, svelandone il pensiero, rivela il talento di un giovane storico e scrittore:
Sorsero dunque le montagne, belle come le altre mille cose belle di questo pianeta. Dapprima erano un po’ grezze ed informi, ma pensò il tempo a renderle ancora più belle, ardite e slanciate. La pioggia e le acque dilavanti le ripulirono dalla terra e dal fango e sui fianchi dirupati e scoscesi misero a nudo le rocce. Il vento cominciò a giocare con la pietra, limandola ed erodendola, scavandola e modellandola. Ma le montagne sono come l’uomo e rispecchiano la sua vita. Nascono, crescono in bellezza e splendore, aiutate da tutti gli elementi vitali: la luce, l’aria, l’acqua. Ma poi gli stessi elementi che dapprima erano creativi con il tempo si rivelano distruttivi… Costruire per distruggere, nascere per morire, salire per poi ridiscendere. Una vera e propria ossessione che collega in un unico filone Natura, Uomo e agire dell’Uomo.
(Tratto da “Verso un Nuovo Mattino”, Laterza 2018)

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