Così vicino, così lontano: il Grande Trapezio

Tutte le volte che imbocco un rettifilo che punta ad occidente non posso fare a meno di focalizzarmi su quell’immenso trapezio che giù in fondo sembra che voglia occludere la Valle di Susa. E’ così evidente che quasi quasi passa inosservato, anche quando, per molti mesi dell’anno, si riveste di bianco e mantiene il candore molto più a lungo delle montagne a lui vicine.
Un trapezio dunque, e qui occorre fare una piccola lezione di geometria: base maggiore, base minore e i due lati esterni quasi uguali, tali da poter definire isoscele la forma della nostra montagna. Nei due punti inferiori, limiti della base maggiore, si trovano a sud il Passo Clopacà, che accede alla Conca di Galambra e a nord il Colle dell’Agnello Superiore, che immette sul Vallon d’Ambin, tributario della Valle dell’Arc. Gli estremi della base minore sono invece le due cime gemelle, il Niblè e la Punta Ferrand, nomi intercambiabili se si accetta la toponomastica francese, dove il Niblè diventa Pointe Ferrand e la Ferrand diventa Pointe Niblè, giusto per creare un po’ di confusione: A prescindere, le loro altezze sono ragguardevoli: 3365 la prima e 3348 la seconda. Ancor più ragguardevoli sono i dislivelli, se si pensa di utilizzare l’accesso naturale, il fondovalle della Val Clarea a quota 1100, in questo caso superano i 2200 metri, mica uno scherzo per chi vuol salire su di lì.
In estate i dislivelli sono ammansiti, potendo distribuirli su due giorni, utilizzando come punto d’appoggio il Rifugio Vaccarone, i cui accessi sono comunque sempre rilevanti. Il più semplice e più corto parte dal Piccolo Moncenisio, via Lac du Savine – Col Clapier. Quest’ultimo passaggio assume valenze storiche con la “Glorieuse Rentrée” dei Valdesi; inoltre, con un po’ di fantasia e secondo alcuni storici, ci facciamo passare pure Annibale coi suoi elefanti: mi piacerebbe vedere discendere gli elefanti sul terreno ripido ed impervio che adduce al fondo della Val Clarea!
E già il Vaccarone: uno dei pochi rifugi di alta montagna che può definirsi tale per via dell’isolamento, collocato com’è in un angolo remoto. E dire che, se si presta attenzione, in alcune ore del giorno e con ottima visibilità, si può scorgere dal fondovalle della Bassa Val di Susa il luccichio che vetri e lamiere riflettono, quasi il rifugio voglia dire “io sono qui, venite a trovarmi”. In effetti, fuori dalla stagione estiva, la zona del rifugio si avvolge di solitudine e di quiete, se non fosse per i camosci che vi scorazzano in lungo e in largo.
Ma è l’inverno, o meglio, la primavera che l’immenso lenzuolo, che si dipana dalle cime sin giù a valle, mi ha attratto ed affascinato. L’idea di vagare in quegli ambienti così vasti, così solitari ha fatto scattare il desiderio di addentrarmi nei suoi meandri.
La prima volta fu solo un assaggio. Ero riuscito a convincere un gruppetto di “temerari” scialpinisti, nonostante fossero consci che: il pegno da pagare per accedere al “demaine skiable” del Niblè fossero i primi 500 metri di dislivello assolutamente insciabili e che l’approdo ai primi candidi pendii era collocato in un vallone dal nome evocativo: “il Tiraculo”. Sono 500 metri con sci in spalla, su per un’antica mulattiera che si inerpica su ripide balze e boschina imperante. Certo che quando calzammo gli sci, il percorso che si palesava fu assolutamente soddisfacente ed appagante. In quella circostanza optammo per una meta non troppo complicata: il passo di Clopacà, che tutto sommato ci permise di sciare per 1200 metri di dislivello. Ci insinuammo dunque nei valloncelli e nelle conche del Tiraculo, con un percorso gradevole ed agevole. Certo avevamo solo fatto il solletico alla grande montagna, ma allora fummo soddisfatti di questo primo approccio.
Tuttavia il senso di insoluto, di incompiutezza o più precisamente lo stimolo della ricerca si annidò nella mia mente sino a quando presi la decisione di ritornare e, più nel concreto, prendere un giorno di ferie. Fu così che, solo soletto, raggiunsi la Val Clarea, dal cui fondo mi incamminai verso una meta che non avevo ancora ben delineato. Mi ritrovai comunque sempre su questa prima tratta da fare a piedi. La mulattiera era agevole, con un po’ di neve ma non ghiaccio. Sbucato sui primi pendii aperti del Vallone del Tiraculo, anziché seguirne le sue pieghe, mi spostai gradatamente verso destra in direzione del Rifugio Vaccarone. Mi trovavo nel pieno e nel cuore di questa immensità, solo con me stesso e con lo stupore di vivere dei momenti di totale estraneità dalla vita quotidiana. Sentivo l’abbraccio della montagna che si svelava dosso dopo dosso, conca dopo conca. Non posso dire che ero solo, perché tutt’intorno branchi di camosci correvano sui pendii innevati o si affacciavano curiosi dalle sommità dei costoni, a vedere cosa diavolo combinava quell’omuncolo che saliva sempre più su. Arrivai al rifugio, nei cui pressi mi fermai per una meritata sosta. Avevo già percorso più di 1600 metri di dislivello. Non mi restava che scegliere la destinazione finale. Per non esagerare e non cercarmi grane, pensai che il Colle dell’Agnello o la cima omonima sovrastante, potevano ben rappresentare la meta di quel giorno. Fu così che mi inoltrai sui cordoni morenici, che portano verso il Ghiacciaio dell’Agnello. Mentre sulla destra si apriva il vallone e i ripidi pendii che conducono alla Rocca d’Ambin, alla sinistra passai sotto le seraccate di ghiaccio verde, che ancora evidenziavano l’esistenza del ghiacciaio, le cui sorti ai tempi attuali sono assai precarie. Il percorso era evidente, così arrivai al Colle dell’Agnello Sud a 3160 metri, da cui mi diressi, con breve e facile percorso, sulla Cima dell’Agnello a 3188 m. Avevo superato i duemila metri di dislivello e potevo ritenermi soddisfatto, tanto più che mi godetti la sosta sulla cima rimirando montagne a me ben note ma viste da angolazioni differenti. Non avevo fretta perché l’ora non era ancora tarda. Poi non mi restò che divallare. La discesa fu inebriante, fu uno dei momenti in cui ci si sente immersi ed in sintonia con la natura. La neve era bella e gli sci scorrevano che era un piacere; potevo vagare su pendii immensi e, egoisticamente parlando, tutti a mia disposizione. Era un viaggio in cui gli sci erano soltanto il mezzo e l’essenza del viaggio erano le emozioni che stavo vivendo, l’aria fresca sulla faccia, la montagna che mi accoglieva con benevolenza. I pendii sembravano infiniti, ma tutto termina. Raggiunta la mulattiera, sci in spalle, scesi con animo lieve fino al fondo della Val Clarea.
Se le gite lasciano in me ricordi gradevoli ed indelebili, mi piace condividerle e riproporle agli amici. Fu così che, qualche anno dopo, si compose un gruppetto di amici pronti a fare un altro viaggio sul “Grande Trapezio”. A comporre il gruppo si presentarono oltre al sottoscritto, Al, Popi, Marco e Lucy; un quintetto che di neve ne aveva pestata in abbondanza e non si scomponeva difronte a forti dislivelli, a ripidi pendii e a portage importanti, il tutto condito con una buona dose di entusiasmo.
Questa volta il tratto da fare a piedi fu un po’ più corto e ci abbuonò duecento metri di dislivello: una sterrata e la guida ardimentosa di Al ci portarono a 1300 m, nei pressi di una baita; ne restavano solo più 300 di portage. Quando uscimmo sui terreni aperti, una stratificazione di nuvole alte rese l’ambiente grigio e triste. Fu solo quando arrivammo nei pressi del Vaccarone che la nuvolaglia incominciò a sfrangiarsi e, in seguito, a dileguarsi. L’umore della compagnia raggiunse lo stadio di “entusiasmosi multipla”, ulteriormente rafforzato dai terreni che stavamo percorrendo. Abbandonammo la linea morenica per addentrarci nell’ampio vallone che porta verso la Rocca d’Ambin. Più pendio che vallone; pendio che si faceva sempre più ripido man mano che salivamo, fino al punto in cui occorse fare un gran traverso verso destra, delicato per le barre rocciose sottostanti. Oltre il traverso giungemmo ad un’ampia sella pianoro, dalla quale Al, Popi e Marco proseguirono sui pendii terminali della Rocca d’Ambin, meta appartata ma assolutamente di grande rilevanza. Nel frattempo Lucy ed io avevamo adocchiato sulla destra una cima ampia a forma di grande cupola e di accesso semplice, il Gros Mouttet 3245 m. Curiosa montagna questa qua: apparentemente insignificante invece è assai rilevante per la sua parete ben riconoscibile vista da oriente. Avevamo sfondato la barriera virtuale dei duemila metri, quella dove, simbolicamente, suonano le campane dello scialpinista.
Ben presto gli amici scesero con belle pennellate giù dalla Rocca e poi via, tutti insieme lungo questa interminabile discesa, che assaporammo divallando sui vasti pendii del Trapezio, con l’occhio che già cercava nuove linee per gite future. Raggiunti gli avvallamenti del Tiraculo, ci infilammo nel valloncello che si faceva sempre più stretto sino ad entrare nella boscaglia assai fitta ma che, per via di una neve portante, ci permise di scendere con passaggi obbligati e divertenti fino al punto in cui non restava che un modesto portage lungo la mulattiera d’accesso. Giunti all’auto vedemmo arrivare il proprietario della baita nei cui pressi avevamo parcheggiato. Arrivò munito di due bottiglie, un cavatappi e una toma di capra indimenticabile, come indimenticabile fu la gentilezza di questa persona e la gita che avevamo appena concluso.
Lorenzo Barbiè

 

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