Antonio Cabras, il pastore che diventò guida del Supramonte

In questi anni tanti sono stati i trekking proposti dal CAI UGET Torino  ed organizzati dalla nostra Valeria con la Cooperativa Goloritzè ed Antonio Cabras alla scoperta del “Selvaggio Blu”
sperando di poterci ritornare presto cogliamo l’occasione del bell’articolo di Vittorino Mason che racconta la storia di Antonio Cabras.

Cabras: “Mio padre mi ha trasmesso la conoscenza del territorio e ho toccato con mano la dura vita dei pastori di capre che oggi racconto ai gruppi di persone accompagnandoli lungo i sentieri che loro percorrevano…”
In Sardegna, ma in particolare tutto il territorio del Supramonte, tra natura e uomo si è stabilito un rapporto speciale, autentico, senza maschere, un rapporto di alleanza tra due entità dai caratteri forti, schietti, predominanti. Forse da questo trae anche origine la famosa “cocciutaggine” che caratterizza i sardi, qui, con l’accezione positiva, nel loro sentirsi indipendenti, un popolo a sé. E non potrebbe essere altrimenti per chi da sempre è stato costretto ad ottimizzare, lottare, lavorare duro e sudare per sopravvivere in una terra tanto bella, quanto selvaggia ed aspra.

Terra di capre e pastori che ha visto nel turismo una possibilità di lavoro, di risollevarsi facendo conoscere le bellezze naturalistiche, i profumi, i cibi e la cultura di un popolo fiero e coraggioso. Un figlio di questa terra, che non ha mai dimenticato le sue origini, è sicuramente Antonio Cabras.

Nato e cresciuto nel Supramonte di Baunèi, nel cuore dell’Oliastra, Antonio Cabras 54 anni, prima di diventare guida ambientale ed escursionistica ha conosciuto la fame e l’odore forte e selvatico delle capre. Figlio di un pastore, per anni si è mosso al seguito degli animali, lungo la macchia mediterranea, tra fioriture di giglio marino, lentisco, corbezzolo, olivastri selvatici (da cui il nome Oliastra), lecci e ginepro.

Caratteristico passaggio in Selvaggio Blu. Foto arch. Vittorino Mason

Ma un giorno, stanco di fare il pastore, decise che invece delle capre era giunto il momento di accompagnare le persone lungo i selvaggi sentieri della sua terra che solo lui e pochi altri conoscevano e frequentavano. Fu così che Antonio diventò la prima guida locale e dal 1991 ha il titolo di guida ambientale escursionistica.
Con alle spalle diversi corsi di arrampicata e una grande conoscenza del territorio, ha messo a frutto la sua passione non solo per accompagnare clienti, ma anche per tirarli fuori dai guai, avendo fatto parte per molti anni del Soccorso Alpino di Nuoro.

Nel 1997 Antonio è stato il primo baunese a cimentarsi nella scalata della Guglia di Goloritzè (V e VI), ma non è tanto la verticalità ad interessare il suo andare ed abitare sull’altopiano basaltico del Golgo, quanto l’identità culturale che, come un cordone ombelicale, un amore atavico, lo lega a questa terra. Sono le rocce calcaree, gli spini, i frutti, le rughe dei suoi compaesani, il vento grecale, che a volte maledice e a volte chiama, sono le cale bagnate di spume e le lune che si ostinano nelle notti d’estate ad emozionarlo e a farlo cantastorie del Supramonte.

Antonio Cabras in una calata in doppia lungo Selvaggio Blu. Foto arch. Vittorino Mason

Antonio non è il prototipo di guida alpina: alto, atletico, uomo dalla faccia scolpita e lo sguardo freddo; no, lui incarna propria la figura dell’uomo semplice, ma fiero e forte, che sa emozionare ed emozionarsi, che sa come far entrare uno straniero in punta di piedi nella sua terra e dentro un’avventura, che sa regalare a chi è capace di guardare e ascoltare, un momento, un pezzo, un attimo, una pagina della sua storia, dei racconti della sua gente: aneddoti, barzellette, vicende, storie, lotte per la sopravvivenza, poesia intrisa di ginepro, lentisco, cisto, rosmarino e quel profumo di mare che è sempre lì.

Forse è per questo che chi si rivolge ad Antonio, prima di cercare il volo del falco della regina, dell’aquila reale, dell’astore e del falco pellegrino, prima di volere vedere gli aspri paesaggi selvaggi disseminati di calette, rupi, falesie, guglie, doline, canyon, valli e voragini carsiche, cerca un’umanità ormai dimenticata, cerca un uomo antico che, come pastore, sappia condurre nei sentieri del tempo, attraverso i villaggi e nei colori del giorno, alla riscoperta di un’armonia e al rispetto per la natura.

Tu sei cresciuto e hai sempre vissuto sull’Altopiano del Golgo; cosa significa per te?
Il senso di appartenenza perché è una terra che lega ed esprime in maniera molto forte il carattere di noi sardi. Se nasci in un luogo come l’Altopiano del Golgo non puoi che amarlo e sentirti unito da un legame materno.

In un ovile Antonio Cabras racconta le storie dei pastori. Foto arch. Vittorino Mason

Sei figlio di un pastore di capre. Lo hai sentito come un limite o una ricchezza?
Da bambino è stato un limite, oggi devo dire che è stata la mia fortuna. Aver potuto conoscere profondamente la vita di chi mi ha preceduto, le gesta, la cultura, le tradizioni, la fatica, rappresenta per me una ricchezza che mi porto dentro. Come ben sai, ti possono portare via tutto, ma le esperienze che hai vissuto no!
Mio padre mi ha trasmesso la conoscenza del territorio e ho toccato con mano la dura vita dei pastori di capre che oggi racconto ai gruppi di persone accompagnandoli lungo i sentieri che loro percorrevano; mi sento onorato di poter mantenere in vita la memoria dei pastori e di mio padre.

Cosa ti ha insegnato tuo padre?
Il rispetto di tutto: degli uomini, dei luoghi, della natura e della vita. Per necessità, fin da bambino, ho seguito mio padre lungo gli impervi sentieri del vasto e impervio territorio del Golgo. Lui mi ha insegnato a conoscerlo per evitare i pericoli, per non perdermi e per trarne sostentamento. In primis come trovare l’acqua in un territorio carsico, avaro di questo elemento così importante per la vita degli uomini e degli animali. È grazie a lui che oggi posso muovermi sull’altopiano sentendomi come a casa.

Come la maggior parte degli isolani, anche tu appartieni a un popolo affacciato sul mare che però guarda sempre alla montagna. Perché?
Da sempre la montagna viene considerata e vissuta come una sorta di protezione contro gli invasori. L’isola è sempre stata terra di conquista e anche il Golgo, da Dorgali a Santa Maria Navarrese, ha potuto difendersi grazie alle sue falesie a picco sul mare. Dopo la difesa la montagna ha rappresentato il sostentamento di tutte le famiglie: montagna significava pastorizia, pastorizia latte, formaggio, carne e cuoio. Non solo, sull’altopiano del Golgo, proprio grazie alla tipologia del terreno, molto fertile, fino al 1971 si potevano coltivare anche alcuni tipi di cereali.

Selvaggio Blu. Antonio ossserva attento come si muovono i partecipanti del suo gruppo.Foto arch. Vittorino Mason

Come sei diventato guida ambientale ed escursionistica?
Avevo vent’anni quando sono diventato guida. Prima avevo fatto il pastore al seguito di mio padre e comunque, quando lui ha venduto le capre ed è sceso dalla montagna, ho pianto. Poi ho fatto diversi lavori e una sera al bar vidi un cartello con scritto “Corso di guida ambientale”, non ci pensai su e mi iscrissi subito. Non prima però di aver chiesto al mio principale se gentilmente poteva licenziarmi, perché il corso era riservato a disoccupati.
Si iscrissero in ottanta e dopo una selezione ci presero in venti. Il corso fu molto impegnativo, ma alla fine sono diventato guida e, anche se a Baunèi ci prendevano per matti, io ero fiero di poter tornare alla montagna, non più al seguito delle capre, ma per accompagnare delle persone.

Chi ti ha insegnato le manovre di corda e ad arrampicare?
Devi sapere che, quando ero ragazzino, per prendere i falchetti nei nidi, con gli amici ci sfidavamo a chi saliva più in alto sulle falesie a picco sul mare; naturalmente in libera. Salire era abbastanza facile, ma a scendere no: era un’impresa. Lì ho fatto una buona pratica di arrampicata e il resto l’ho imparato con gli occhi, mettendomi sotto la guglia di Goloritze a guardare quelli che la scalavano. Così, capendo che oltre a salire bisognava imparare anche a scendere, mi iscrissi ad un corso di arrampicata per imparare le tecniche e l’uso dei materiali.

Antonio controlla che tutto sia apposto prima di una delle famose calate a picco sul mare di Selvaggio Blu. Foto arch. Vittorino Mason
Parte conclusiva di Selvaggio Blu. Antonio indica dove mettere il piede in un tratto di cengia esposta. Foto arch. Vittorino Mason

E la tua prima volta da guida?
È stata nel 1991. Assieme ad altre tre guide abbiamo accompagnato un gruppo di sessanta persone da Cala Gonnone a Santa Maria Navarrese in un giro itinerante di più giorni. Una sera avremmo dovuto traghettare da Cala Goloritzè a Portu Cuau, ma a causa del mare mosso dovemmo rinunciare. Per sfida, alcuni dei partecipanti dissero: “Perché non ci andiamo a piedi?”.
Non ci pensai su e risposi alla provocazione: “Io sono pronto e voi?”.
Alcuni accettarono la sfida e con le pile frontali, camminando tutta la notte, raggiungemmo la nostra meta all’alba, e fu una grande esperienza. Ma i primi tempi non riuscivo a vivere col mestiere di guida e così dovetti adattarmi a fare molti lavori stagionali.

Sull’Altopiano del Golgo tu ed altri amici avete dato vita alla Cooperativa Goloritzè, che tra le altre cose gestisce un rifugio.
Sì, la Cooperativa è nata nel 1991. Subito dopo il corso di guida escursionistica, una parte di noi decise di unire le forze e mettere in piedi una nuova realtà locale per dare lavoro ad alcune persone e valorizzare il territorio. Nel 1992 abbiamo costruito un maneggio con una piccola casetta in legno che fungeva da sede della cooperativa e nel periodo estivo proponevamo delle escursioni a piedi e a cavallo sull’Altopiano del Golgo. Naturalmente i nostri compaesani ci ridevano dietro. “Ma dove andate a piedi?” ci domandavano. La fortuna ha voluto che un giorno, tra i partecipanti ad una escursione, ci fosse una giornalista della rivista Trekking; lei ci dedicò molte pagine e questo fece conoscere la Cooperativa Goloritze al grande pubblico, dando una svolta decisiva alla nostra attività. Il rifugio invece è una storia abbastanza recente, del 2001. Oggi in Cooperativa siamo dodici persone stabili, che diventano diciotto nel periodo estivo.

Il rifugio gestito dalla Cooperativa Goloritzè

Mario Verin e Peppino Cicalò compresero le potenzialità del tuo territorio e immaginarono un percorso a tappe che poi si è tramutato in “Selvaggio Blu”.
Sì, nel negli anni ’80 loro, alpinisti che da molto tempo frequentavano questa parte della Sardegna, attratti più dal mare e dalle falesie, per primi furono affascinati dalla bellezza selvaggia di questa parte di costa. Faticosamente percorsero diversi tratti dei sentieri dei pastori e le antiche mulattiere dei carbonai di fine ’800, unendole poi con percorsi cercati e scoperti tra i calcari e la vegetazione del Supramonte. Il risultato è stato un itinerario di cinquanta chilometri, sospeso sull’orlo estremo di una falesia verticale che, partendo da Pedra Longa, per cale e mulattiere, arriva sino a Cala Sisine. Questo è “Selvaggio Blu”, quello che viene considerato il trekking più impegnativo d’Italia.

Come venne presa dai baunesi la notizia di questo trekking?
Inizialmente non bene. Popolo da sempre chiuso, si domandava a cosa servisse. Ma per risponderti devo partire da lontano. Pensa che dalle nostre parti già nel 1967 si parlava del Parco Nazionale del Gennargentu che avrebbe compreso anche il territorio di Baunèi, ma non come un’occasione, ma come un fulmine che avrebbe scacciato tutti i pastor,i impedendo loro di vivere in e di montagna. Si diceva che tutto il territorio sarebbe diventato riserva di caccia, con divieti ovunque. Ci fu una grande rivolta dei pastori che avevano paura di essere scacciati. Anni di battaglie fecero si che l’idea del parco venisse poi accantonata. Nel frattempo il comune di Baunèi presentò alla Comunità Europea un progetto di sviluppo del territorio che, tra le altre cose, comprendeva il ripristino delle mulattiere con accesso al mare, la costruzione di strutture ricettive (rifugi) e una rete di sentieri, tra i quali Selvaggio Blu che, nonostante le difficoltà, nel 1989 fu completato.

Tranquillo sopra un vecchio ginepro Antonio Cabras recupera la corda prima di affrontare un traverso esposto. Foto arch. Vittorino Mason

Dopo Verin e Cicalò, nel 1994 tu sei stato il primo a ripercorrerlo. Che effetto ti ha fatto?
La prima volta che l’ho percorso completamente è stata un’emozione unica. Ero in compagnia di due amici e devo dire che, nonostante conoscessi buona parte del territorio nella quale si sviluppa, non mi ero mai cimentato nelle calate a corda doppia e questo mi lasciò a bocca aperta. Naturalmente, in alcuni punti, prima avevamo predisposto dei viveri. Nonostante ciò è stato molto impegnativo perchè avevamo zaini che pesavano almeno venti chili. Ma ho trascorso quattro giorni che poi mi sono serviti per capire come avrei potuto accompagnare delle persone nel trekking.

Tu poi hai anche collaborato all’edizione de Il Libro di Selvaggio Blu degli autori Mario Verin e Giulia Castelli.
Sì. Loro gli ho conosciuti in Selvaggio Blu. Erano tornati dalle mie parti a distanza di anni, da quella volta che i baunesi gli scacciarono via per timore che il territorio e le loro attività venissero compromesse. Andai con loro più giorni, strinsi amicizia e da lì nacque il progetto del libro fotografico Selvaggio Blu e poi della guida I 41 sentieri del Selvaggio Blu di cui sono coautore.

Cosa rende unica l’esperienza di Selvaggio Blu?
È dal 1995 che accompagno in Selvaggio Blu delle persone. Prima erano tre anni che un gruppo Cai di Pinerolo continuava a venirci a trovare per conoscere e percorrere i sentieri del Golgo, ma dopo tutto questo tempo mi dissero che dovevo inventarmi qualche altro itinerario; è lì che scattò l’idea di portare gruppi in Selvaggio Blu. Ma per renderlo più agevole pensammo dei posti da bivacco e un servizio di rifornimenti. Detto ciò il trekking rimane un’esperienza impegnativa, ma bellissima per molti aspetti. Ad ogni passo il mare si sposa alla montagna, lo sguardo traguarda scenari unici, da toglierti il fiato, e il profumo della salsedine si confonde a quello della macchia mediterranea. Ho percorso almeno quattrocento volte Selvaggio Blu ed ogni volta è sempre come la prima: meraviglia.
Ma poi sono le cene attorno al fuoco, le storie e gli aneddoti che lui racconta, i bagni quando arrivi stanco e accaldato in una cala, l’alternanza del paesaggio che offre momenti di arrampicata a camminate lunghe e discese a corda doppia, anche di 50 metri, a renderlo un’avventura straordinaria.

Antonio che racconta le storie dei pastori in un posto da bivacco. Foto arch. Vittorino Mason

Cosa cercano i frequentatori di Selvaggio Blu: l’ebrezza del vuoto sopra il mare o qualcos’altro?
Credo che le persone siano principalmente attratte dal connubio tra mare e montagna. Poi bisognerebbe fare un distinguo: mentre trent’anni fa veniva solo gente molto preparata che sapeva ciò che l’aspettava, le difficoltà alpinistiche e le grandi fatiche, oggi, anche grazie o per colpa dei media, il trekking è stato screditato. Detto ciò le persone vengono anche per il brivido delle calate, per la sua nomea di trekking difficile, ma alla fine della settimana di Selvaggio Blu, i partecipanti dei gruppi che accompagno dicono sempre: la cosa più bella del trekking è stata il tuo raccontare la storia dei luoghi e delle tue genti.

La famosa cengia Giradili è il tratto più interessante del trekking o ce ne sono altri?
No. Pur essendo un tratto molto bello, è riduttivo considerare solo la cengia Giradili; tutto il trekking è spettacolare! Ogni angolo del percorso è un’emozione unica.

Il trekking è disseminato di coiles, ovili, che rimandano a volti e fatiche di pastori…
Esattamente. Senza questi ovili non ci sarebbe Selvaggio Blu. È un filo d’Arianna con la storia dei pastori questo andare. Sono stati i loro passi, il calpestio dei loro piedi e le roncole a segnare e disegnare il tracciato. Gli ovili erano le loro case e le stalle di transumanza stagionale; lì i pastori mungevano e producevano i formaggi, lì trascorrevano le giornate in compagnia delle capre.
Quando mi fermò con i gruppi in un ovile, la nostalgia mi attanaglia l’anima. Non posso dimenticare la mia vita da pastore al seguito di mio padre: cosa significava perdere una capra, le fatiche, la ricerca dell’acqua, la bellezza del territorio, questa natura potente e silenziosa che parla a chi sa ascoltarla.

Il ginepro crea arte a cielo aperto. Foto arch. Vittorino Mason

E degli scalones, i caratteristici ed impegnativi passaggi sui tronchi di ginepro, cosa mi racconti?
Devi sapere che questi tronchi di ginepro venivano tagliati e scortecciati nel periodo non vegetativo e in luna calante, in modo che diventassero resistenti come il ferro. Gli scalones servivano per attrezzare dei passaggi aerei di 4\5 metri, spesso su roccia, che permettevano poi il proseguo laddove sarebbe stato impossibile transitare con le capre. Per realizzarli intrecciavano bene più tronchi che poi fissavano alle pareti, più spesso li appoggiavano con un sistema tale da somigliare a una lunga e rudimentale scala.

Oltre a Selvaggio Blu la Cooperativa propone altre escursioni?
Sì, molte. Per lo più sono escursioni giornaliere verso il mare, ma senza escludere l’entroterra: escursioni turistiche e altre difficili. C’è anche un Selvaggio Blu soft, la visita al sito archeologico di Tiscali, l’escursione bellissima alle Gole di Gorropu.

Che tipo di guida sei?
Sono una guida che, più che accompagnare le persone in luoghi spettacolari, cerca di farglieli conoscere ed apprezzare. Più che far vivere ebrezze atletiche, mi piace raccontare aneddoti, parlare della morfologia del territorio, della natura, della vegetazione, ma soprattutto di come questi luoghi siano stati vissuti dalla mia gente.

Puoi raccontarci un aneddoto, una di quelle storielle che sei solito raccontare la sera davanti al fuoco?
Intanto devi sapere che un tempo, in Sardegna, più che parlare si gesticolava. Ad esempio, per dire no, si emetteva un suono con le labbra, simile allo schiocco di un bacio. Bene, ci sono due pastori: un padre e il figlio che devono recuperare le capre. Il padre è sopra un promontorio, il figlio in basso. “Antoniooo…”, “Siiii…” gli fa eco il figlio. “Hai trovato le capre?”. E il figlio gli risponde facendo schioccare le labbra in segno di no. “Antoniooo…, le hai trovato le capre?” insiste il padre non avendo avuto risposta. Il figlio allo stesso modo ripete il gesto di prima che il padre, essendo molto lontano, non vede e non sente. Allora il padre, anche un po’ scocciato, alza il tono della voce e gli grida: “Antoniooo…, hai trovato le capre?”, e il figlio, stanco di ripetergli sempre la stessa cosa, facendo schioccare di nuovo le labbra gli risponde: “Ti ho dettooo… nthu”.

Cosa significa per te essere rimasto nella tua terra e lavorare per farla conoscere a persone che giungono da ogni parte del mondo?
Un’emozione fortissima e l’emanazione di questa scelta e di quanto ho fatto è che ancora oggi, chi ha potuto condividere con me uno spazio tempo in questo territorio, mi telefona, mi scrive e mi invita per delle conferenze. Forse l’unico rammarico è che, nonostante tutti gli sforzi profusi e quanto mi sia speso per valorizzare questo territorio, non siamo ancora riusciti a renderlo adeguatamente fruibile a tutti con un trekking di più giorni, con delle strutture ricettive come ovili o rifugi, che darebbero da lavorare a molti giovani che invece sono costretti a emigrare.

Qual è l’elemento che ti lega di più a questa terra?
Sicuramente la montagna. Considera che, se non avessi fatto la guida, sicuramente sarei andato via. Prima da pastore, poi da guida, la montagna mi ha dato da vivere. Sai, si ha un bel dire quando si parla della bellezza del paesaggio, ma se non hai di che mangiare, anche il posto più bello non riesci a guardarlo nella sua interezza e con riconoscenza.

Selvaggio Blu. Un Antonio sorridente intrattiene il gruppo con le sue storielle . Foto arch. Vittorino Mason

Quanto è rimasto e cosa è stato perduto?
Sicuramente è rimasto un territorio con una grande valenza naturalistica e paesaggistica che stiamo cercando di valorizzare in vari modi. Allo stesso tempo, questo, che è un grande valore e ha un potenziale enorme, viene preso d’assalto. Pensa che un tempo l’Altopiano del Golgo era un territorio vergine dove la tradizione della pastorizia aveva accesso come in una sorta di tempio Silvano. Un’altra qualità che si è perduta è il rispetto sotto ogni punto di vista. Un tempo si aveva più cura di questa terra! Si prestava molta attenzione ad ogni cosa che si faceva, si pensava alle conseguenze di ogni gesto, mentre oggi si è frettolosi, distratti e spesso senza scrupoli.

Tu hai sempre pensato al tuo territorio come un luogo da preservare e far conoscere nel rispetto della natura. Ti sei fatto paladino a difesa di tutte le forme che lo abitano. Non c’è il rischio che un giorno di Selvaggio Blu rimanga solo il blu?
Antonio ha sempre voluto bene a questa terra, quello che succederà dopo di lui io non posso prevederlo. Mi auguro solo che il lavoro che è stato fatto per convivere in armonia con la natura tutta, che poi è l’essenza stessa del nostro vivere, continui. Certo è che alcune sirene d’allarme hanno cominciato a farsi sentire. Baunei si sta animando; stanno aprendo diversi B&B, alberghi e altre strutture ricettive, per ospitare i tanti turisti che ci vengono a trovare. Per gestire al meglio le richieste di Selvaggio Blu, in accordo con il Comune di Baunèi, abbiamo messo una tassa turistica di 30 euro a persona e un numero chiuso.
Considera che sulla spiaggia sottostante la Guglia di Goloritzè, fino allo scorso anno bivaccavano anche cento persone a notte: un albergo a cielo aperto con tutte le conseguenze. Poi, nei posti tappa di Selvaggio Blu, dove prima poteva bivaccare solo un gruppo e alla sera ci si trovava anche in tre o quattro e per mancanza di spazio si finiva sempre per baruffare, adesso, con delle regole, una gestione e un controllo del territorio da parte dei barracelli (sorta di guardie comunali) questo non avviene più.

Hai due figli: sei riuscito a trasmettergli l’amore per la terra che gli ha visti crescere?
Credo di sì. Considera che tutti e due hanno fatto il corso di guida e mentre uno ancora studia, dandoci una mano solo d’estate, l’altro, terminato il liceo scientifico, ha deciso di lavorare con la Cooperativa perché è convinto di realizzarsi con questo mestiere. Mi auguro di aver lasciato il testimone in buone mani e che la tradizione dei Cabras, uomini-pastore, continui a girovagare sulle montagne del Golgo, non più al seguito di capre, ma per accompagnare le persone a vivere un’esperienza totalizzante in armonia con la natura.

Vittorino Mason

Si ringrazia Vittorino Mason per aver concesso la pubblicazione dell’articolo già apparso su www.mountainblog.it

 

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