CHARLIE chiama TANGO

Il treno arriva puntuale alle 13:41 alla stazione di Bardonecchia. Esco, mi guardo intorno. Non è cambiato nulla. Zaino in spalle mi incammino nella direzione della valle Stretta. Vallèe Etroite. Un breve tratto da percorrere e sarò in Francia. Dopo i primi passi altrettanto puntuale arriva una chiamata sul cellulare. Da casa vogliono mie notizie. “Sono riuscito a prendere il treno proprio al volo, sto bene e ci sentiamo domani al ritorno” dico per rassicurare tutti.  Conosco perfettamente il percorso che mi separa dalla stazione ferroviaria fino al rifugio che devo raggiungere per trascorrere la notte, ma non scordo di attivare la localizzazione della mia posizione sulla app che mi traccia ad ogni passo, la quale mi fornirà informazioni a posteriori su questa due giorni in montagna. Come si usa fare di questi tempi, potrei anche condividere il mio tracciato gpx in tempo reale con altri della community via social. Potrei.

Poco oltre la prima rotonda trovo parcheggiata la navetta che fa spola tra il paese e la valle stretta. Ben stampigliata sulla portiera, affinché sia ben visibile, il costo del trasporto: 2€.  “Così poco vale la mia camminata di oggi? “E’ il primo pensiero che mi viene in mente.  Poi ci rifletto un attimo e penso che non possiamo valutare tutto secondo la logica del costo. Mi avrà ben spinto fin qui qualcosa che non può essere quantificato con il solo valore economico. Il ricordo del passato, l’emozione del momento e lo sguardo ai prossimi giorni che verranno hanno un prezzo?  Se camminassimo per il solo esercizio fisico, raggiungere una meta o un obiettivo sarebbe poco più che una inconsapevole necessità. In realtà camminare ha un senso solamente se lo arricchiamo con i nostri pensieri che lo rendono ricco di significati.

A quel tempo. Quarantaquattro anni fa non c’erano ancora i cellulari. L’unico telefono che avevamo in casa era un duplex con i nostri vicini di pianerottolo.  Salutata mia mamma uscendo di casa lei mi avrebbe rivisto dopo due settimane. Nel frattempo, solamente i pensieri ci avrebbero tenuto in contatto. Per le emergenze c’era il numero di telefono della casa alpina dove si sperava qualcuno rispondesse nel tempo degli squilli. Da qui tutto si comunicava via radio. Le comunicazioni in montagna avvenivano solamente con le radio ricetrasmittenti. I baracchini.  Ognuna di loro aveva un nome.  Nel paesino di Château Beaulard dove ogni vacanza aveva inizio, era presente il baracchino della stazione radio fissa. Dalle iniziali del paese derivava il nome di fantasia Charlie.  Mentre Tango era il baracchino posizionato nella meta finale alle pendici del monte Thabor. Poi c’erano le radio utilizzate durante gli spostamenti: Lima, Sierra… Tutti questi nomi scaturivano della fantasia del “don” che ci accompagnava in montagna. Diremmo oggi il capogita o direttore di escursione.  In realtà era molto di più. Era un pilota di aerei che vestiva l’abito talare.

Oggi mai mi sognerei di dare un nome al mio cellulare e sarei in difficoltà nel tentare di associare almeno il modello ad un nomignolo. Una sigla impossibile da pronunciare zeppa di consonanti numeri e caratteri speciali.

Percorro tutta la strada che si snoda in diagonale rispetto la via principale. Tantissime volte l’ho percorsa in auto. E’ il tratto obbligato arrivando sia dalla autostrada e sia dalla immediata statale, il passaggio veloce prima del posto dove parcheggiare l’auto ed iniziare l’escursione. Questa volta la percorro a piedi anche se sono certo non proverò lo stesso stupore di quando la percorsi uscito per la prima volta dal quartiere dove abitavo. La mia prima uscita nel mondo e che mondo!  Ma non voglio correre nelle anticipazioni. Cammino guardandomi attorno ed incontrando quasi nessuno considerata l’ora dell’immediato dopo pranzo. Proprio in fondo al viale della Vittoria, così si chiama la via, arrivo a Campo Smith primo segno tangibile dei tempi che cambiano anche nelle montagne. Una serie di hotel, sky bike school, lounge bar e park mi proiettano velocemente nel futuro. Presto non serviranno più i miei scarponcini per salire i sentieri della valle.  Arrivo poco oltre un piccolo bosco alla frazione del Melezet e sono già a metà del cammino. Anche qui il paesaggio è cambiato e di molto. C’è un prima olimpiadi ed un dopo Olimpiadi (2006). Ora quella che una volta era l’ultima isolata frazione prima del confine si è arricchita di piste per lo sci (una olimpica) e lo snowboard, abitazioni, locali per ristoro, una distesa di ombrelloni da sembrare quasi di essere in spiaggia. Gente in costume prende il sole del pomeriggio. Magari domenica prossima vado al mare e sono certo troverò lo stesso ambiente colorato.  Ovviamente non poteva mancare un ampio parcheggio ed una strada nuova temporanea da anni. È la strada deviata a causa di una frana che una notte di una decina di anni fa per puro caso non si è portato via tutto ciò che in fretta era stato costruito. Sono giunto a metà del cammino. Il primo euro non speso se ne è andato e non ho ancora visto niente.D’estate la frontiera del Melezet, un caseggiato basso in mezzo ad un ampio piazzale, era il punto di passaggio obbligato per chi scendeva dalla valle stretta dopo dieci giorni passati in montagna e rientrato in Italia si dirigeva verso la città. Era un punto ideale di scambio tra la vita da “montanari” e quella che avremmo assunto da lì a qualche giorno. Tornavamo ad essere “cittadini”. Luridi e sporchi ma abbronzati ci lasciavamo alle spalle le settimane trascorse a camminare per i monti del delfinato.  C’era un bar che ci accoglieva a poche decine di metri passata la frontiera. Per il ritorno alla civiltà bastava uno stick alla coca-cola nel migliore dei casi ma per i più affamati un panino non mancava mai.  I gendarmi francesi proprio non si affannavano a controllare tutta quella ciurma di ragazzini che arrivando alla spicciolata in piccoli gruppetti che superata la frontiera si accampavano per terra attendendo l’arrivo degli altri. Era una festa ad ogni arrivo. Ci eravamo lasciati solamente qualche ora prima, quando partiti tutti insieme, con differenti passi ci eravamo distanziati lungo il sentiero e già festeggiavamo un nuovo incontro. Stranezze di gioventù.

Prima che la strada svalichi in Francia è ancora necessario percorrere un lungo tratto e più precisamente la zona del pian del Colle. Percorro la strada solamente in inverno quando è completamente ricoperta di neve. In estate percorro il sentiero che risale la valle dalla parte opposta al torrente tutto nel bosco (le indicazioni in francese sono Vallèe Etroite vers la rive gauche). Si imbocca proprio in prossimità della ferrata del Rouas. Si evitano il campeggio, il campo da golf, il vecchio baraccato in disuso della frontiera francese costruito poco prima che entrasse in funzione il trattato di Schengen e poi ancora il ceppo che traccia il confine adottato con gli accordi post-bellici del 1947, la diga, il bivio che porta al col de l’Echelle (da dove si può proseguire giungendo a Nevache in Vallèe de Clarèe).  Il sentiero si inerpica nel bosco dopo un breve tratto sulla sterrata e dall’alto si possono osservare sulla riva opposta i tornanti della strada che periodicamente viene risistemata a causa delle consuete frane invernali che la ostruiscono.  Si costeggia dall’alto il rio di valle stretta che ora diventa “ruisseau de la Vallèe Etroite” che prima o poi inghiottirà la strada costruita sul suo fianco. L’erosione. La strada sale e diventa sterrata per poi tornare asfaltata. Quando in prossimità di una ultima curva proprio in salita si intravvede il monte Thabor prima e si giunge alla parete dei Militi poi.  In realtà io sotto la Parete dei Militi ci arrivo con il sentiero dalla parte opposta del rio che con il suo scendere rumorosamente a valle copre ogni suono. Il suono delle auto che salgono, nelle belle giornate di sole, ininterrottamente la valle.

Al Pian dei Militi, l’anno successivo al ’77, posizionammo il nostro campo estivo. Sostammo in quell’accampamento qualche giorno. Il tempo necessario perché il campo che ci aveva preceduti terminasse il proprio più in alto. Furono giorni passati ad ammirare e vivere con il naso all’insù le pareti verticali dei Militi. La notte seduti attorno al falò quell’immensa parete verticale ci sovrastava e incuteva timore. Sono pareti mirabili che di lì ad una decina di anni sarebbero diventate terreno di competizione per esperti scalatori provenienti da tutto il mondo. SPORTROCCIA per chi si vuole documentare. Quelle prime arrampicate sulle sue pareti erano l’embrione di quello che negli anni sarebbe diventato uno sport e per la prima volta in questa edizione 2021 una disciplina olimpica.

Noi ragazzini di quel tempo ci divertivamo in modo diverso come la notte che, in altra valle, fummo visitati da un “alieno extraterrestre”.  Quella sera il falò fu posizionato poco distante dall’accampamento ed al ritorno alle tende trovammo la sorpresa di vedere strani segni disegnati su di esse.  Iniziò un tira e molla con gli accompagnatori più grandi di noi. Ci fu chi scappò dal campo all’avvicinarsi di uno strano gigantesco essere che in lontananza si intravvedeva fra gli alberi. Anche il cane del “don”, opportunamente addestrato, pareva abbaiare e mostrare paura. Questo autentico terrore durò più di un’ora fra urla, concitati piani di difesa e pianificazione di improbabili turni di guardia all’accampamento.  Tutto inutile. Trovai uno degli accompagnatori più vecchi con una bomboletta di vernice fosforescente ridere divertito quando all’ennesimo grido “uscite tutti dalle tende” io, già vestito scarponi compresi, mi precipitai fuori dal sacco a pelo e dalla tenda pronto a scappare il più lontano possibile.

Da qui la montagna diventa montagna.  Arrivo al rifugio prima dell’imbrunire e prima che lo spettacolo del cielo stellato abbia inizio. Che per la cronaca quest’anno non ho visto. Pioveva a dirotto. “Avrò modo di rivederlo domani mattina quando ripartirò poco prima dell’alba”: mi dissi. Conviene sempre in questa stagione partire molto prima che il sole albeggi soprattutto perché la neve che ancora ricopre parte del sentiero che porta alla cima preferisco percorrerlo con il manto gelato.  La cena e il riposo dei pensieri. La sveglia all’alba delle 4:30 mi permette di vivere il rifugio ancora immerso nel silenzio e la colazione con un poco di caffè lasciato nel thermos insieme ad un po’ di latte sono i soli vizi culinari che mi concedo prima della camminata. Il rifugio a quell’ora non pare il rifugio del mezzogiorno o del pomeriggio quando il vociare dei tanti che lo frequentano poco lo differenziano da un frequentato albergo di montagna affollato di turisti. Che sia ben chiaro non ho nulla contro i turisti e ben che meno contro gli alberghi di montagna, constato però che a quest’ora del mattino il rifugio è un rifugio. Da provare. In silenzio.   Uscito dal rifugio nel semi buio del mattino accendo la frontale. Lontano sento gli ululati di un lupo. Mi ha visto. Affascinante. Non sono il solo che cammina nella notte. Non ho paura. Mi sento a casa in questa valle.

Mi incammino su per il sentiero supero il bivio che porta al lago verde. “Magari ci passo sulla via del ritorno”: penso. Non ci sono passato. Sono invece passato sul ritorno alla Maison des Chamois.

Se raccontassi che nel ’79 ci fu un campo estivo dove i ragazzini/e erano più di 100? Per ospitare tutti non bastò la casa. La chiamo casa ma a quel tempo non era proprio come nella immagine sottostante e nemmeno il refettorio sul lato posteriore aveva le sembianze attuali. Un solo locale era riscaldato. Però era già bianca e rossa. Per ospitare tutti le tende furono montate ovunque. I più lontani la mattina per fare colazione dovevano camminare un buon quarto d’ora per arrivare alla Maison. Erano altri tempi. Ora gli affollamenti, ed ho quasi timore a scrivere questa parola in questi giorni, si notano solamente il terzo sabato di ogni mese di luglio. Quando ancora a distanza di tanti anni si commemora una sfortunata disgrazia occorsa decenni or sono.  Si ritrovano da circa quarant’anni il terzo sabato di luglio chi più giovane e chi meno ha avuto modo di “passare per la Maison”. Per chi vuole, anche per questo evento, è possibile trovare tanta bibliografia basta cercare I RAGAZZI DI VALLE STRETTA.

Io sono stato là.

Cento ragazzini in un solo campo in quel tempo richiedevano uno sforzo logistico, di volontà e di energie che non ci sarebbero mai state se qualcuno fosse stato solamente mosso dalla rigida logica della organizzazione. Lo ricordo a me stesso quando organizzo le escursioni. Un po’ di sana moderata incoscienza è sempre necessario in montagna.  Così come quando durante le traversate su questi monti del delfinato spostandoci da Plampinet verso Nevache ci avventuravamo, noi ragazzini poco più che tredicenni, zaino in spalla con un solo biglietto in tasca con su scritto “Je suis perdu, emmène-moi à la gendarmerie”.  La sera ci contavamo. Mai nessuno si è perso. Forse qualcuno recuperato dal Land Rover che faceva la spola. Mai dispersi.

Sarà stato un caso?La settimana scorsa mentre scendevo dal col des Acles (2.273m) in arrivo da Claviere dopo aver percorso parte del Gr5 Alpes Cotè d’Azur lontano vedevo la valle stretta. È sempre una emozione vedere il Gran Serru dall’alto (2.887m).  Imponente. C’è chi impropriamente lo chiama dente del gigante. Ora dopo averlo costeggiato per lungo tempo giunto al Vallon du Diner (2.610m), dove per altro è ancora possibile trovare un po’ di acqua, proseguo per il Col des Meandes (2.727m).  Qui solitamente si incontrano gli alpinisti francesi che salgono dal refuge du Thabor ed io mi concedo una pausa.

Mi guardo intorno, ma è ancora presto per gli incontri ed i lupi che attendevo forse mi osservano da lontano.

Il verde dirada. Ora Il sentiero si inerpica per un ripido sentiero fino ai 2.910 m della zona denominata le Croix (per noi sono le tre croci). Non si è propriamente in vetta poiché mancano ancora almeno 300 metri di dislivello da percorrere ma è qui che incomincia la magia del Thabor.  A causa della fatica difficilmente ci si volta a guardare lo spettacolo che è dietro le nostre spalle. In quegli ultimi trecento metri lo sguardo è sempre volto alla cappella di vetta che ora pare più vicina ed ora più lontana.  Quest’anno c’è anche la neve. Non è una novità. Montagna di terra, pietre e neve. Per questo la cappella della vetta da qualche anno ha subito gravi lesioni a causa dello scioglimento del permafrost. Sono fortunato ad averla ancora vista intatta. Vorrei dilungarmi sul nostro patrimonio artistico montano, parlare della necessità di tramandare talune tradizioni delle nostre montagne (in questa valle, ad esempio, salgono gli abitanti della frazione Melezet ogni anno nel mese di agosto nel giorno di san Bartolomeo). Vorrei scrivere sulla nostra responsabilità nel lasciare a chi popolerà questi luoghi dopo di noi. Non voglio annoiare nessuno e sono affaticato dalla salita. Sono pensieri, i discorsi seri a valle.  Non si arriva mai. Vorrei essere in vetta ed invece mancano sempre gli ultimi venti minuti di salita.  Si, proprio i soliti venti minuti che racconto come unità di tempo con la quale misuro i tempi in montagna. Chi viene con me lo sa. Già.

Siamo a tremila. Ormai manca poco.

Inizia la viola. Un accenno. Una nota

Poi attaccano i violini. Una introduzione tutta strumentale in un rincorrersi di ritardi con l’incessante presenza del basso.

Dominus a dextris tuis” il primo soprano.

Confregit in die irae suae reges” poi il secondo soprano.

Un passo e poi un altro ma prima del successivo scende il tenore con “Dominus a dextris tuis” che dialoga con i soprani.

Ancora poche note e si inserisce il basso con la sua possente voce che assola.

Cantano all’unisuono.

Dominus a dextris tuis
Confregit in die irae suae reges

Impressionante.

Ora non è più fatica camminare.

Poi una dopo l’altra le singole voci si uniscono.

Ora cantano insieme.

Camminano insieme.

I violini legano le voci ed inizia il corale. (Dixit Dominus HWV 232 – 1707 – G.F Haendel)

I 2 euro che avrei potuto spendere il giorno prima togliendomi gran parte della camminata? Dimenticati. Non c’è prezzo per la fatica della salita, non c’è prezzo per il paesaggio che si ammira dalla cima, non c’è prezzo per il pensiero degli amici che non possono più salire.

Non ho ricordi di pensieri per quella mia prima salita da adolescente al monte Thabor.  Proprio non ricordo nulla anche se penso che l’unica mia attenzione fosse la fatica. Però posso affermare con certezza che se dopo più di quarant’anni sono ancora qua a salire la stessa montagna è perché ho compreso che i nostri passi non sono solamente un camminare vuoto e meccanico. Non è nemmeno per ammirare le bellezze delle cime che frequento la montagna malgrado lo spettacolo dalla sommità del monte Thabor sia fra i più belli che ho visto. Penso in questo momento che scrivo, ma non solo, alla bellezza della Barre des Ecrins innevata. Ghiacciata.  Forse ma solamente forse ogni nostro gesto, anche il più elementare come il camminare, può assumere un significato.  Già.  Un significato. Proprio come ho scritto all’inizio di questo racconto.  Nell’epoca che ha svuotato di ogni valore ogni nostra azione, affermare questo può sembrare una blasfemia. Nel tempo dove tutto è fatto per la sola immediatezza di un tornaconto quale è il significato del nostro camminare?Nel luglio del 1977 furono circa 50 i ragazzini che salirono sul monte Thabor per la loro prima volta.  Altri nelle settimane successive e molti molti altri negli anni che vennero. Tutti provenienti dalla periferia sud di Torino. Nichelino. Un paese divenuto città in pochi anni pieno di soli palazzi e asfalto dove l’altura più elevata erano i mucchi di terra dei giardinetti pubblici di via Stupinigi ancora a quel tempo da ultimare. Molti di noi erano cresciuti senza aver mai visto una montagna dall’alto.  Alcuni di noi non le avevano mai viste da vicino. Altri non erano mai usciti dal quartiere dove abitavano. Altri forse non sapevano cosa fosse una montagna.

Ovviamente, ma non era necessario scriverlo, arrivammo tutti in cima. Esausti, felici e sorridenti.   Poi venne la gioia ma questa è troppo difficile da descrivere. Immaginatela a modo vostro.

Sono salito su questa montagna in ogni stagione dell’anno ma ho impiegato quarant’anni per imparare a capirla.

Tango chiama Charlie
Siamo in vetta.
Sono in vetta.
Passo e chiudo “.

17 luglio 2021
Emilio Botto

P.S.
Per la cronaca del tempo il “don” è Don Paolo Gariglio classe 1930.
Ordinato sacerdote negli anni ’60, ha svolto il suo ministero prima nelle periferie della Torino operaia di Mirafiori sud e Lingotto poi a Nichelino.
La sua predicazione coinvolse migliaia e migliaia di giovani e fu luce nel nulla. Fu per molti come osservare il primo raggio di sole che all’alba illumina la tete de Chien stando seduti sui gradini della Maison des Chamois.

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