Capucin

Grazie all’importante lavoro di Alessandro Gogna con il suo bellissimo blog (www.gognablog.com) pubblichiamo, della grande produzione di scritti dell’ugetino Gian Piero Motti, quello che probabilmente è stato il primo articolo da lui pubblicato: il racconto di una salita primaverile alla parete est del Grand Capucin con l’amico ugetino Dino Rabbi.
Ci teniamo a ricordare che questa parete su salita per la prima volta nel 1951 dalla cordata di Walter Bonatti e l’ugetino Luciano Ghigo.

(pubblicato su Bollettino della GEAT n. 3-4 del 1967)

«Basta con le staffe!», brontola Dino sbucando da un ennesimo
strapiombo; da ore sotto di noi non vediamo che il bianco del ghiacciaio e la fatica comincia a farsi sentire.
Siamo agli ultimi tiri di corda sulla parete est del Grand Capucin. Da circa nove ore non facciamo altro che agganciare e sganciare staffe, non facciamo altro che passare da un chiodo all’altro con arrampicata dura, faticosa e monotona. Il sole da un po’ ci ha lasciati, siamo alla fine di aprile e fa ancora decisamente freddo. Oltre tutto il tempo sta cambiando, il Bianco infatti si va incappucciando di neri nuvoloni per nulla simpatici. Comincia a nevicare.

Sulla via Bonatti-Ghigo alla parete est del Grand Capucin

Avendo già percorso la via l’estate scorsa, per ora non mi preoccupo; ormai solo due lunghezze ci dividono dalla vetta e poi spero di trovare nel canale i cordini per le corde doppie (utopia…).
Una traversata sotto un tetto, l’ultima staffa agganciata all’ultimo chiodo e mi raddrizzo sulla comoda spalla nei pressi della vetta. Ci liberiamo delle staffe, dei cordini e della maggior parte dei moschettoni e finalmente buttiamo qualcosa nello stomaco. Ma è tardi, è sera e bisogna scendere in fretta: il tempo va mettendosi decisamente al brutto.
Sentiamo voci. Devono essere i quattro francesi con cui stamattina abbiamo iniziato l’arrampicata; sono molto bassi, ancora sotto il muro, e, certo, non li invidiamo.
Le nostre mani fanno quasi pena. Evidentemente l’inizio di stagione si fa sentire sulla pelle ancora «cittadina».
La «facile» traversata che dovrebbe condurci in vetta ci obbliga ad una lotta all’ultimo appiglio, tanto è verglassata. Sto scalinando un canalino di ghiaccio lucido quando uno strano ronzio si leva nell’aria. So bene per esperienza cosa significa.
Dino mi raggiunge in pieno temporale; i fulmini cominciano a tenerci la loro compagnia per nulla gradita, nevica abbondantemente e in un attimo tutto è imbiancato, tutto è estremamente scivoloso e ci obbliga alla massima prudenza. A tentoni trovo i chiodi della prima doppia. Non ci si vede quasi, sono le sette di sera del primo giorno di maggio.
Scendo venti metri, ricordo che la seconda doppia inizia sullo spigolo sinistro non molto in basso. Con la pila in bocca mi sposto, mi abbasso, ma non trovo nulla, tutto è ghiacciato e ricoperto dalla neve che continua a cadere. Finalmente mi imbatto in un cordino, mi sistemo sulle staffe dove Dino mi raggiunge. Ora è buio completo.
Con calma, con estrema calma discendiamo quei quaranta metri lungo una parete strapiombante che sembra non finire mai, poi tocchiamo l’intaglio. L’autoassicurazione sulle corde comincia a rendersi veramente utile.
Le corde scorrono male, tiriamo come dannati, la stanchezza sulle braccia si fa sentire e per di più una strana sonnolenza ci rende le palpebre sempre più pesanti.
Il canale è in condizioni deprimenti. Tutto è intasato dal ghiaccio e la neve fresca complica ancor di più la situazione.
Scendo quaranta metri, mi fermo e comincio a cercare un ancoraggio per la doppia successiva. Trovo un aborto di spuntone che cerco di utilizzare liberandolo dal ghiaccio. A tratti mi giunge il battito ritmato degli scarponi di Dino che cerca di scaldarsi i piedi battendoli contro la roccia.
Riparto, i piedi mi scivolano, mi sbilancio e il piccozzino mi sfugge andandosene giù per il canale. Ora siamo veramente a posto.
Ha smesso di nevicare, qualche stella brilla tra le nubi; fa tanto freddo, sui guanti si è formata una spessa crosta di ghiaccio, gli occhiali appannati mi danno molto fastidio. E poi ho sonno, ho tanto sonno.
Sono le undici di sera, Dino mi raggiunge, mi scuote, mi sveglia, mi incita. Penso a tante cose, al caldo, al mio letto; gli parlo del sole, del mare, degli amici che ci aspettano a Courmayeur e che forse dormono tranquilli. Laggiù è primavera.
Ora scende ad attrezzare Dino, io ne ho a sufficienza. Fissiamo un paio di doppie su blocchi cementati dal ghiaccio attorno ai quali abbiamo passato un cordino. Ogni gesto va eseguito con estrema calma e non è permessa la minima disattenzione. Le pile stanno per esaurirsi.
Sentiamo chiamare, gridare, vediamo fasci di luce percorrere la parete nord. Fantastico! I francesi si ritirano lungo la parete nord! La scena ha qualcosa di altamente suggestivo, qualcosa di infernale.
Ancora doppie e poi finalmente giungiamo al canale di neve che ci condurrà al ghiacciaio. E’ l’alba.
Lentamente, assicurandoci, scendiamo il canale; tutto è imbiancato attorno a noi. Sono le sei di mattina, quando lasciamo la crepaccia alle nostre spalle.
Calziamo gli sci e passo dopo passo giungiamo al caldo, al comodo, al meraviglioso rifugio Torino. Bevande calde, tanti amici e poi una veloce discesa a Courmayeur.
Alla «Brenva» ci aspetta una tavola imbandita di ogni ben di Dio. Si ride, si scherza con gli amici.
Mai come oggi mi rendo conto di quanto siano belli i boschi, i fiori, l’azzurro del cielo. Tutto ha un sapore nuovo e particolare. Il Capucin è lontano, appartiene al passato.
Ma se chiudo gli occhi, rivedo il canale, il buio, sento brividi di freddo, ancora mi giungono le grida dei francesi…
No, non mi sto svegliando da un brutto sogno. Incontro un viso sereno, due occhi profondi, un sorriso. Ecco, il brutto sogno è finito

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