Alpinismo e arrampicata sportiva: una convivenza possibile

Grazie al gognablog  riproponiamo un articolo bello e lungimirante dell’Amico Andrea Mellano  pubblicato su Scandere nel 1989

Quel giorno di luglio del 1985, allorché l’atletico e sconosciuto giovanotto tedesco Stefan Glowacz, sulle rocce della parete dei Militi in Valle Stretta, si fermò in perfetta spaccata sotto uno strapiombo e, da quella posizione incredibile estratto dal sacchettino della magnesite uno spazzolino da denti, con calma si mise a pulire gli appigli minuscoli che gli avrebbero consentito il superamento dell’ultimo tratto della via di finale e vincere la prima gara di arrampicata della storia dell’alpinismo occidentale, tutti noi vecchi « rocciatori» che eravamo alla base della «mitica» parete con gli occhi stralunati per lo spettacolo di tecnica e classe cui stavamo assistendo, ci rendemmo conto che quel tipo di arrampicata con l’alpinismo non aveva più nulla a che fare.

Le gare di arrampicata sono state certamente un avvenimento traumatico per i più tenaci cultori della ortodossia alpinistica: un elemento disgregatore e sovvertitore dei princìpi sui quali l’alpinismo ha costruito la propria immagine storica.

Bardonecchia 1985. Al centro, Stefan Glowacz (a sinistra) e Thierry Renault.

Le polemiche che già prima della gara di Bardonecchia si erano accese in Francia e in Inghilterra — in Italia non se ne parlava ancora, almeno a livello ufficiale — dopo quel fatidico luglio ’85 ripresero vigore e sulle riviste specializzate divennero l’argomento principale che ebbe, se non altro, il merito di vivacizzare la monotona pubblicistica dell’alpinismo.

Mai attività come l’arrampicata sportiva (il termine «sportiva» è ormai riconosciuto più pertinente dell’improprio «Free Climbing») ebbe il potere di generare tensioni così forti con prese di posizione da parte di molti alpinisti al limite dell’isterismo. L’arrampicata sportiva (quindi protetta) avendo come fine, nella sua dimensione agonistica, la competizione esplicita e diretta, era vista come una attività provocatoria e perciò da respingere e ignorare.

Come parte in causa (purtroppo non come praticante per ovvie ragioni di anagrafe, ma per averne posto, con gli amici Emanuele Cassarà e Marco Bernardi, le basi ideologiche e sportive), mi sono subito chiesto il perché di questa avversione ringhiosa e violenta. In fondo, si trattava di rendere esplicite in una branca dell’alpinismo come l’arrampicata su roccia le tendenze agonistiche dei giovani protagonisti, cercando di dare dignità sportiva alla nuova disciplina che si stava sviluppando.

Bardonecchia 1985. Stefan Glowacz in arrampicata. Lo osserva Marco Bernardi.

La provocazione poteva essere forse la ragione più ovvia di tanta avversione. Ma ne esisteva un’altra molto più complessa ed era, a mio avviso, quella del timore che l’arrampicata sportiva potesse sostituire nell’immaginario della gente ciò che sino allora era stato di pertinenza esclusiva dell’alpinismo.

Ecco allora i custodi delle sacre reliquie alpinistiche richiamare l’attenzione sui «valori» morali e civili dell’alpinismo, che stavano per essere travolti dall’eresia di questo nuovo modo di arrampicare solo per il piacere del gesto atletico e magari anche per vedere subito chi era il più bravo in modo esplicito e senza rischiare l’osso del collo.

Per la gente comune, l’arrampicata sportiva è certamente di più immediata comprensione dell’alpinismo, tutto pervaso di complessi e motivazioni da far venire il mal di testa alle persone cosiddette normali: sì, perché gli alpinisti in virtù di sapere, più o meno, andar per monti si sono sempre sentiti gente speciale e non hanno fatto molto, nei duecento e passa anni della loro storia, per farsi capire più di tanto.

A voler leggere tra le righe la storia dell’alpinismo, però, non risulta poi tanto vero che gli alpinisti siano tutti dei candidi angioletti non competitivi. La sempre conclamata mancanza di agonismo nell’alpinismo è una falsità bella e buona; certo, la variabilità delle situazioni ambientali e le condizioni del terreno rendono difficile la competizione diretta (ma eccezioni non tanto rare si sono verificate nel corso della «conquista» delle montagne e delle «vie nuove»), ciò non toglie che un fiero spirito agonistico abbia animato i protagonisti delle imprese di ogni epoca.

Lasciando da parte le solite litanie sugli effetti deteriori e diseducativi della competizione nella pratica ludica, per altro confutate dalla storia dello sport, che se non altro è utile, pur con mille difetti, per incanalare l’aggressività insita nel­l’uomo verso i suoi simili in un gioco retto da regole precise che tutti devono rispettare, posso dedurre che l’avversione all’arrampicata sportiva sia anche dovuta ad un inconscio istinto di conservazione delle proprie motivazioni e gratificazioni derivanti dall’essere alpinista.

Alpinisti siamo tutti: campioni e mezze tacche; la non competizione esplicita pone tutti sullo stesso piano, cosicché tutti possiamo sentirci Bonatti o Messner, tanto, si dice, la soddisfazione è la stessa, sia che si salga una via di secondo grado sia che si scali un «6000» per la prima volta.

Questo transfer di gratificazione è alla base della cultura che origina e dà forza ai conclamati valori dell’alpinismo.

Pubblicizzare e praticare una attività che al contrario dell’alpinismo richiede sempre, anche a livello amatoriale, un confronto tecnico e atletico potrebbe voler dire mettersi contro e in concorrenza con l’attività alpinistica, senza dubbio più complessa e che per molti rappresenta un modo di essere anche fuori dell’ambiente alpinistico.

Vorrei rassicurare gli amici alpinisti che nessuno ha mai pensato di sostituire l’alpinismo con l’arrampicata sportiva, non solo dal punto di vista dell’immagine ma soprattutto sul piano dei «valori». Oggi che l’arrampicata sportiva ha trovato la sua dimensione autonoma, dovrebbe essere chiaro a tutti (almeno spero) che si tratta di una attività diversa dall’alpinismo con il quale non sono possibili confronti in merito.

Ma diversità non vuole dire incompatibilità, tra le due attività esiste una base comune di esperienze tecniche e didattiche che possono risultare utili per ampliare l’area dei praticanti le discipline attinenti gli sport della montagna.

L’arrampicata sportiva, elaborando e adattando le tecniche della arrampicata alpinistica, ha formulato una sua etica e nuove forme di comportamento nella arrampicata su roccia, le quali, di riflesso, hanno influenzato positivamente anche l’arrampicata alpinistica.

Il concetto sportivo della ripetizione del tentativo per il superamento delle difficoltà ha imposto norme precise per l’incolumità dei praticanti. La prima regola, quindi, per l’arrampicata sportiva è la garanzia della sicurezza nel corso della azione. La gratificazione è data dal risultato raggiunto grazie all’abilità e alla preparazione e non al coraggio e allo sprezzo del pericolo dimostrati.

Il «valore» dell’integrità fisica dei praticanti (per la maggior parte giovani e giovanissimi) è senza dubbio la caratteristica più importante della arrampicata sportiva che può essere applicata anche nella arrampicata alpinistica, malgrado l’avversione che gli alpinisti hanno per la limitazione del rischio, considerato lo stimolo princi­pale della loro attività e un simbolo di libertà di azione.

La possibile collaborazione tra l’arrampicata sportiva e l’alpinismo si può sviluppare innanzi tutto nel settore giovanile della promozione e della didattica, come dimostrano le avanzate esperienze compiute all’estero, in particolare in Francia dove l’arrampicata sportiva è insegnata nelle scuole elementari ed è diventata una disciplina sportiva utilizzata nei corsi di educazione fisica dei ragazzi.

Al di là dunque delle finalità agonistiche che l’arrampicata sportiva si propone, vi sono aspetti ricreativi ed educativi di grande interesse che possono essere sviluppati a qualunque livello di impegno.

Bardonecchia 1985. In mezzo a molti volti noti, al centro (in canotta bianca) è Thierry Renault.

Attraverso l’esperienza della arrampicata intesa come sport e gioco, i giovani possono giungere anche all’alpinismo con una mentalità e un concetto della sicurezza che privilegia l’aspetto sportivo e tecnico a quello del rischio fine a se stesso, con il risultato che in montagna ci saranno forse meno eroi ma molti più ragazzi che tornano a casa.

L’avventura della arrampicata sportiva, iniziata per merito dei torinesi a Bardonecchia nel 1985, ha già assunto dimensioni internazionali di rilievo. Le gare di arrampicata sono state accettate perfino dall’UIAA che si è posta, con un apposito Comitato del quale fanno parte il CAI (in posizione di attesa) e la FASI, la Federazione che in Italia rappresenta l’arrampicata agonistica. Nel 1989 sono state organizzate dal Comitato internazionale gare di Coppa del Mondo in Europa, Russia, Stati Uniti; per il 1990 sono previste competizioni in tutti i continenti per la disputa del Campionato del Mondo e una dovrebbe svolgersi proprio a Torino sulla palestra «Guido Rossa», il primo e storico impianto per l’arrampicata indoor.

Le gare e i campionati ad alto livello sono certo importanti e un segnale della diffusione di questa nuova disciplina sportiva, ma altrettanto importanti sono quelle iniziative volte a contribuire lo sviluppo dell’educazione sportiva nei giovani, mediante una disciplina che stimoli, divertendo, il loro interesse per l’azione e l’esercizio fisico.

Questo è uno degli scopi principali della Federazione e uno dei più importanti punti di convergenza sul quale potrà svilupparsi la collaborazione con il Club Alpino Italiano e le sue sezioni nazionali AGAI e CAAI.