Un giorno diventerò grande

Da sinistra. Giuse e Luca

Non sono nuovo a idee strampalate, per mia fortuna ho amici che le appoggiano. Il Monte Bianco in giornata? Perché no…

 

 

Il tempo di una telefonata alla persona giusta e tutto è già organizzato, la telefonata recita più o meno così:

“Sà Giuse sabato il meteo è buono, il Bianco sembra in condizioni ottime, visto che tu hai il tempo contato partiamo dopo lavoro venerdì, andiamo a Chamonix, arriviamo in cima e rientriamo, per le 16:00 di sabato sei a casa!”.

Ci troviamo al casello autostradale di San Giorgio alle 21:00 di venerdì 27 Maggio. Con Giuse cerco di regolare un suo sci sul mio scarpone da gara. Forse è solo Giuse che maneggia lo sci, io penso piuttosto a mangiare quello che ci siamo portati da casa: per una salita del genere non posso distrarmi, devo alimentarmi. Il problema è che partendo da casa mi sono accorto che un attacchino non è perfettamente funzionante e non mi fido a salire e, soprattutto, a scendere con quello. A conti fatti devo dire che lo sci di Giuse mi aiuterà e non poco.

Durante il viaggio ripassiamo i tratti cruciali della salita: io ripeto che ce la facciamo, Giuse naturalmente ribadisce l’esatto opposto. Arrivati al tunnel del Monte Bianco, forse per scaramanzia propongo: “Facciamo il dieci corse, ci costa meno e almeno se non riusciamo a salire questa volta torniamo la prossima settimana”.

Giunti in terra francese non abbiamo il tempo di prendere fiato, appena usciti dal tunnel si parcheggia sulla sinistra e via. Partiamo di buon passo con gli sci in spalla, lo zaino non è dei più leggeri, però il morale è tornato alle stelle. Le temperature sono decisamente alte, in maglietta e scarpe da ginnastica saliamo bene. I problemi iniziano quando incontriamo alcune lingue di neve: perdiamo il sentiero più volte, ci bagniamo i piedi e rallentiamo la salita.

All’arrivo della vecchia funivia a quota 2400m circa calziamo scarponi e sci: siamo a circa due ore di salita. Dal Ghiacciaio dei Bossons ci separa “solo” più un tratto ripido, in cui l’assenza di rigelo ci fa sprofondare nella neve fino al ginocchio. Arrivati sul ghiacciaio, eccoci nel caotico mondo di seracchi, crepacci e sinistri scricchiolii:  attraversarlo la notte è stato più rilassante che sotto il sole. Ci leghiamo: ramponi e sci in spalla per un centinaio di metri.

Le luci di tante frontali ci precedono e ci segnano il cammino verso un cielo stellato che sembra di buon auspicio. Fino al Rifugio dei Grands Mulets la traccia battuta il giorno prima è diventata una striscia di ghiaccio. La concentrazione è massima per evitare di sprecare forze inutilmente, procediamo legati senza dire una parola.

Ci coglie il giorno verso quota 3500m dove inizia la cresta del Gouter, raggiungiamo cordate partite dal rifugio, ramponi di nuovo ai piedi e su per questa cresta affilata che sembra portarti in paradiso. Il passo è ancora buono, arrivati sui 3900m dove si possono calzare gli sci veniamo colpiti dal sole, che bellezza potersi sedere sullo zaino mettersi gli occhiali, bere un sorso e mangiare qualcosa.

La ripartenza qui segna la svolta della salita, giunti sul piano nei pressi del Col du Dome sotto la Capanna Vallot, siamo presi da un sonno incredibile: siamo partiti dopo una giornata di lavoro e non abbiamo ancora dormito. Le cordate che superiamo sono tantissime di ogni nazionalità ed età, alla Vallot sembra ci sia un raduno di cadaveri viventi, ma decidiamo di partecipare anche noi alla festa: giù di nuovo lo zaino e via con bevande e barrette. Sono le 8:30, fossi stato a piedi sarei tornato indietro, invece con gli sci al seguito continuo a scrutare la parete Nord: si scende dalla cima sci ai piedi, non possiamo mollare.

Il percorso

Da qui in avanti, sci in spalla, saliamo lungo la Cresta des Bosses, la neve è dura e la traccia buona, ma è il passo a non essere dei più sicuri.

La cima sembra irraggiungibile: molte cordate come noi e con il nostro stesso sogno sono lì. Dopo l’ennesimo dosso che nasconde la vetta, mettiamo piede sul tetto d’Europa! La salita è finita e d’ora in avanti sarà solo discesa sui nostri amati sci.

Mi succede spesso al termine di un grande sforzo di commuovermi, anche questa volta è successo, credo ne sia valsa la pena, anche per Giuse che non lo ammeterebbe mai.

Vista della parete nord del Bianco,siamo scesi sopra il seracco

La discesa è filata via veloce tutto a ritroso giù per la Nord e poi sulla normale dei Grands Mulets. Alle 14:30 siamo all’auto, alle 16:30 a casa. Meno di venti ore per un Bianco da ricordare.

I tempi non sono da record, abbiamo gestito la salita da uomini di esperienza e non da atleti, categoria a cui non mi sento di appartenere. Alla base di tutto la grande passione per la montagna, la voglia di soffrire e di misurare le proprie capacità di resistenza, quello che ti dà quella soddisfazione una volta alla macchina di dire a te stesso: “Hai visto? Ci sei riuscito”.

Non mi resta che riaprire il libro dei sogni che per me è ancora lontano dal terminare, e come un bambino sognare nuovi progetti e nuove avventure…

Luca Berta

Il mio Ultra Trail del Monte Bianco

Tea Geraci, Ultra Trail Monte Bianco 2016

Una breve premessa per chi fosse lontano dal mondo trail anzi ultratrail. L’Ultra Trail del Monte Bianco rappresenta la gara regina di una serie di gare di vario percorso che si svolgono a Chamonix nell’ultima settimana di Agosto, e dove si misurano atleti di grande livello internazionale e gente comune come la sottoscritta.

L’UTMB, con i suoi 171 km e 10.000 m di dislivello positivo, è il sogno di molti trailer, per potervi partecipare occorre prima aver concluso alcune gare di qualificazione, raggiungere un punteggio, e infine, dato il grande numero di richieste, incredibile ma vero, anche essere estratti.

Ed è a questo punto che inizia l’avventura, almeno così è successo a me, e da Gennaio in poi i mesi sono trascorsi pensando sempre all’UTMB, alla preparazione, alle gare intermedie, ma anche a non esagerare, e a curarsi gli acciacchi che inevitabilmente sono arrivati.

Nel 2014 avevo già partecipato alla CCC, Courmayeur-Champex-Chamonix, 100 km e 6100 m disl, questa volta avrei completato l’anello partendo da Chamonix.

Quante emozioni, a cominciare dalla partenza, atleti provenienti da tutte le parti del mondo, riconosco qualcuno incontrato in altre gare, riconosco qualche top runner, e mi piazzo nelle retrovie, sono lenta e il mio obiettivo è superare i cancelli orari lungo il percorso e arrivare, mi ripeterò spesso “ il ritiro non è contemplato”, e nei momenti di crisi “esiste davvero una ragione sufficiente a farmi ritirare proprio adesso?”.

La gara parte alle 18, i primi 8 km sono in piano e corribili, poi la prima salita, bella tosta, a Le Delevret, discesa e dopo il ristoro di Saint Gervais  non mi sento troppo bene, sintomi da svenimento, devo coricarmi lungo il ciglio del sentiero, molti mi chiedono come sto, arriva anche un uomo dell’organizzazione, ma rassicuro tutti, tranquilli non è niente!

Insomma, non è vero che sia proprio niente, ma non accetto l’idea di mollare, mangio un gel pensando ad una crisi ipoglicemica non gestita bene, mi rimetto in piedi e riprendo faticosamente a camminare, però mi sento affaticata e per qualche ora rimugino nefasti pensieri di ritiro, il traguardo è mostruosamente lontano!

Ma mi riprendo fisicamente e psicologicamente, e da quel momento divento un caterpillar e macinerò km, salite e discese e avrò sempre pensieri positivi.

Capirò più tardi che dovevo aver avuto una sorta di congestione per una manciata di pezzi di banana ingurgitati al ristoro, non a caso per tutto il resto della gara, e ancora parecchi giorno dopo, la sola vista delle banane mi procurava nausea. Quindi MAI sottovalutare la gestione dell’alimentazione.

Da Les Contamines si sale sempre e inesorabilmente fino alla Croix du Bonhomme, non fa freddo, ma la giacchetta ci sta, discesa a Les Chiapieux e poi lunga salita, la prima parte su asfalto, noiosissima, fino al Col de la Seigne.

Durante questa lenta salita su asfalto, che chi sa correre corre, mi venivano i colpi di sonno, ciondolavo, letteralmente!

Finalmente arrivo al col de la Seigne, Italia, un abbozzo di discesa, ma subito ancora una salita, piccola ma bastarda, al Col des Pyramides Calcaires, variante introdotta proprio quest’anno. Non ne sentivamo la necessità giuro.

Panorama da fiaba, tra il sonno e la stanchezza così mi appare…  Siamo sopra le nuvole che ancora coprono il Lac Combal, discesa brutta brutta tra i massi e finalmente Rifugio Elisabetta e lungolago.

Ancora una salita e poi Courmayeur, preceduta naturalmente da una discesa ripida e tecnica. Non ne azzecco una di previsione di tempi di discesa, sempre sassi e radici tra i piedi, e visto che la strada è ancora lunga meglio non rischiare.

Al ristoro di Courmayeur mi aspettano gli amici tra cui Silvia la mia psico-coach, una volta tanto non sono da sola e ho un po’ di assistenza, ma ne parlerò dopo.

Il ristoro di Courma è una base vita, mi fermo un po’ di più, mangio una pasta, cambio maglia e scarpe, ma non posso perdere tempo, non siamo ancor a metà quindi on the road again.

Obiettivo Col Ferret, ma prima i rifugi Bertone e Bonatti, dal profilo altimetrico ricordavo che dopo la salita al Bertone, che caldo pazzesco, si arrivasse con un dolce saliscendi al Bonatti, ma non è vero, questi saliscendi chissà perché sono prevalentemente sempre sali ed i rifugi sono sempre dietro l’angolo ma lassù!

Ad Arnouva ci sono di nuovo i miei amici a salutarmi e poi su verso il Colle.

Panorama superbo ovunque, per non parlare dell’accoglienza e dell’incoraggiamento ai ristori e lungo il percorso.

La discesa a La Fouly è prima tecnica poi corribile, non so come faccio ma una corsetta in discesa riesco ancora ad abbozzarla, i tetti che vedo dall’alto però non sono quelli del ristoro, ancora giù giù a fondovalle.

A Champex di nuovo incontro Silvia, mangio la minestrina e riparto. C’è un temporale, sento tuoni e vedo i fulmini ma sono ancora lontana e quindi ne evito le fasi più temibili, solo un po’ di pioggia giusto il tempo per farmi indossare i pantaloni impermeabili che già ha smesso.

Una eterno falso piano in salita e poi discesa in teoria corribile, ma ho un sonno sonnissimo, ogni tanto mi fermo per sedermi su qualche scomoda pietra, i massi più comodi sono già occupati, ma riesco lo stesso ad addormentarmi per pochissimo tempo, forse neanche un minuto, ma basta per resettare il cervello e riprendere.

Siamo a 130km, penso mancano “solo” più 40km, meno di una maratona, meno di un trail medio, ma mancano ancora tre temibili salite, Bovine, Catogne, Tete aux Vents.

Prima di Col de Montets e Tete aux Vents vedo ancora gli amici a Vallorcine dove arrivo poco prima delle 11.

E siamo a 150km, davvero siamo quasi alla fine, sto bene, anche se sono un po’ rallentata, non me accorgo ma poi rivedendo i filmati è ben evidente, e ho anche avuto le allucinazioni da privazioni di sonno, tutto regolare insomma.

Nell’allucinazione più nitida e articolata mi sembrava di vedere sedute su una panchina lungo il sentiero di discesa a Vallorcine due figure, di cui una donna vestita di verde, pensavo fossero parenti di qualcuno, ma in realtà non c’erano né la panchina né le persone, e il vestito verde erano le foglie degli alberi…

Per non parlare poi delle immagini provocate dai giochi di luce della pila frontale, ho visto interi palazzi costruiti nel cuore del bosco!

L’ultima salita a Tete aux Vents penso di ricordarmela bene dalla CCC, ma non abbastanza bene infatti me la prendo comoda e poi dovrò correre come non avrei pensato di poter ancora fare per non mancare il cancello orario di La Flegere, perché quel vantaggio che avevo ai cancelli dopo la seconda notte è andato via via riducendosi.

Ancora 7 km di discesa e poi l’arrivo, ma ancora dobbiamo soffrire su un sentiero ostico, vorrei correre un po’ per arrivare prima e fermarmi. Negli ultimi 2km posso accelerare, ormai ci siamo, corricchio e finalmente imbocco il percorso lungo il torrente dove uno mi chiama, mi dice brava, mi fa una foto da mandare ad un’amica, lui che applaude me, una tapasciona, è un trailer molto forte di Torino, saprò dopo che si era ritirato.

L’emozione all’arrivo non si può descrivere, sono ormai tra gli ultimi, dopo di me poche decine ancora, ma il pubblico applaude e ti porta alle stelle, mi fermo poco prima del tappetino, è occupato dai fotografi e altri dell’organizzazione, finalmente ancora un passo e tutto si è compiuto, sono FINISHER!

Siamo partiti in 2555 e siamo arrivati in 1468, 1087 runner hanno lasciato il proprio sogno lungo il percorso, ma io ce l’ho fatta.

E ho portato al traguardo con me mio marito Ezio, il mio personale angelo custode, perché anche lui amava correre in montagna, ma ora non è più tra noi perché un maledetto male lo ha scelto.

Devo necessariamente aprire una parentesi relativamente ad una parte molto particolare del mio allenamento. Silvia è una cara amica psicologa che l’anno scorso ha iniziato un master di psicologia dello sport con il prof. Giuseppe Vercelli dell’Unito nonché psicologo e trainer di campioni olimpici.

Essendo alla ricerca di un caso per la sua tesi Silvia mi propone di lavorare insieme, accetto ben volentieri e inizia un percorso di applicazione della metodologia SFERA.

E’ difficile condensare in poche parole in cosa consista, si lavora sulle paure, sul dialogo interiore, ma anche aspetti più pratici quali gestione dell’energia e del sonno. Fondamentalmente si deve giungere ad una sincronia tra corpo e mente affinché il corpo esegua ciò che la mente pensa.

Non so come sarebbe andata senza l’esperienza SFERA, impossibile dirlo, ma sicuramente mi è stata di grande aiuto perché molte volte sono ricorsa a quanto avevo imparato e accolto in questi mesi.

Inoltre penso che per concludere una prestazione di endurance si debba partire con l’intima convinzione e consapevolezza che sarà molto molto faticoso, senza distinzione tra i primi e gli ultimi si soffrirà, che nulla sarà regalato e tutto dovrà essere conquistato. Altrimenti la disillusione può fermare ancora prima della reale necessità fisica o fisiologica.

 

Monte Bianco, un ritorno

Vista dalla Vetta del Monte Bianco (Claudio Aceto)

Da molti anni mi frullava nella testa di tornare in cima al “Bianco”, ma dal versante Italiano, per me praticamente sconosciuto. Anche il fatto che non avessi mai visto il rifugio Gonella, ristrutturato da qualche anno da parte della nostra sezione Uget mi incuriosiva. L’occasione si presentava a luglio con l’amico Claudio. Per lui, che l’aveva già tentata tre volte, ahimè senza successo, era ormai una questione personale a tu per tu con la montagna. Le condizioni sul massiccio quest’anno erano particolarmente favorevoli, il meteo per il week end era stabile, quindi l’occasione era di quelle da non perdere. Sabato mattina si parte alla volta di Courmayeur e, poco dopo le 9:00, siamo alla sbarra de La Visaille. Un ultimo sguardo allo zaino e via, si parte!

Dopo un tratto noioso di strada si arriva allo Chalet du Miage per imboccare il lunghissimo vallone. Si monta sulla morena e, quando questa termina contro la parete sulla destra orografica del vallone, si abbandona per scendere nel centro dello stesso. Da questo punto, di fronte a noi si presenta tutto il bacino del Miage nella sua grandezza ed imponenza. Il rifugio è talmente lontano che non si può nemmeno indovinare la sua posizione, sulle balze in fondo a destra. Come dicevo all’inizio le condizioni sono particolarmente favorevoli, Claudio infatti mi dice che è la prima volta che percorre il vallone su veloci lingue di neve, invece che nella noiosa pietraia, che fortunatamente è stata ricoperta dalle perturbazioni di fine giugno.
In effetti la progressione su neve è rapida e tutto l’ambiente, ricoperto dalla bianca coltre, possiede un aspetto ancora più maestoso, semmai ce ne fosse bisogno. Solo verso la fine di questi cinque chilometri calziamo i ramponi perché si vedono i primi crepacci, li aggiriamo con semplicità per giungere sotto la bastionata rocciosa alla confluenza del bacino del Dome, che sostiene il rifugio. Sono passate quasi tre ore dalla partenza ed è ora di pranzo. Complice una cascatella ci fermiamo proprio all’inizio del tratto attrezzato che in circa un’ora ci porterà alla meta di oggi. Durante la mattinata abbiamo incontrato molte persone che salivano o scendevano; la provenienza spaziava dagli U.S.A. alla Spagna, segno del fatto che pur non essendo un posto particolarmente frequentato a causa della sua lunghezza, ci sono nel mondo una serie di estimatori che non si lasciano perdere l’occasione. Che fortuna avere questo parco giochi così vicino a casa!
In circa un’ora quindi raggiungiamo il Gonella. Dalla piazzola sospesa di fronte alla struttura l’elisoccorso compie un paio di avvicinamenti, ci informeranno in seguito che una cordata è caduta in mattinata sulla zona del Piton des Italiens a causa del forte vento e una ragazza si è rotta un piede. Ed eccoci finalmente al Gonella. Mi fa piacere scrivere che si tratta di un rifugio sistemato con un concetto davvero moderno e funzionale; il salone da pranzo è luminosissimo e, aprendo le vetrate esterne si accede direttamente sulla terrazza che guarda il fondovalle e la zona del Petit Mont Blanc. La giornata è splendida e ci si rilassa alternando il sole potente fuori ad un fresco piacevole dentro. E’ divertente fare due chiacchiere a volte in francese ed altre in inglese con chi è di fianco a noi a scrutare la montagna. Di fronte, dall’altra parte del vallone che percorreremo domani, si intuisce il tetto della capanna Sella. In linea d’aria dista solo qualche centinaio di metri, ma arrivarci è davvero un viaggio. Da lì in poi si apre il bellissimo itinerario dello sperone della Tournette che porta sempre in cima al tetto d’Europa.

Rifugio Gonella (ph Claudio Aceto)

Ore 18:30 è ora di cena. La qualità del cibo è buona e i ragazzi che gestiscono il rifugio sono gentili ed organizzati. Non indugiamo molto dopo la cena perché la sveglia è tra poche ore e quindi si va a nanna. Anche i letti sono confortevoli e le ore che ci separano dalla colazione si riposa davvero.

Il versante Ovest del Monte Bianco dal Rifugio Gonella (Foto di Claudio Aceto)

Ore 00:30 sveglia! Veloce colazione e poi tutti fuori a prepararsi per la partenza. Il terrazzo è troppo piccolo per tutti e quindi diventa abbastanza difficoltoso mettere i ramponi, legarsi e prepararsi per la partenza.
Poco prima dell’1:30 ci mettiamo in marcia e dopo un breve tratto a mezzacosta scendiamo di qualche metro per mettere piede sul ghiacciamo del Dome. Luci davanti, luci dietro, ci si incammina tutti verso l’alto. La temperatura non è troppo fredda, speriamo solo che il vento sia calato; molte cordate incontrate ieri sono infatti tornate a mani vuote a causa delle raffiche troppo forti sulla cresta di confine. Il ghiacciaio è ben coperto e i crepacci visibili da attraversare sono molto pochi. Velocemente si prende quota e ci troviamo ora di fronte ad un ‘impennata della pendenza alla nostra sinistra. Siamo sotto il colle des Aiguille Grises che rapidamente si raggiunge. Montiamo su di una crestina che intervalla roccette e neve, ed in breve arriviamo in cresta al Piton. E’ ancora completamente buio e lo spettacolo di lucine delle cordate che salgono dalla normale del Gouter è splendido. Sullo sfondo le luci dei paesi francesi ancora immersi nel sonno.
Qui la temperatura cambia di colpo. Il vento infatti è calato rispetto a ieri ma è comunque ancora intenso. Ci copriamo e proseguiamo sulla cresta che inizialmente è abbastanza stretta e va quindi salita con attenzione. Siamo nei pressi del Dome de Gouter quando albeggia e, ormai dietro di noi, si svela in tutta la sua eleganza la cresta dell’Aiguille de Bionassay. La temperatura scende ancora e le raffiche a volte sono davvero fastidiose. ci copriamo con tutto ciò che abbiamo. Arrivati alla Vallot ci fermiamo cinque minuti ma non entriamo nemmeno (la sua fama di sporcizia la precede), non ci resta che salire gli ultimi 450 metri di cresta delle Bosses e saremo in cima. Claudio davanti procede senza fermarsi e la cresta quest’anno è larga, non resta che mettere un piede davanti all’altro per prendere quota velocemente.

Il sorriso di Roberto Fullone verso la cresta (ph Claudio Aceto).

Ore 7:00, siamo in cima. Siamo davvero felici (credo che Claudio lo sia di più perché era la quarta volta che ci provava) ma le condizioni sono davvero difficili. La temperatura percepita è almeno di 20 gradi sotto zero, la mia borraccia appesa allo spallaccio dello zaino è un blocco di ghiaccio, tornerà ad essere acqua solo quando saremo tornati al Gonella. Non è piacevole stare in cima e dopo una decina di minuti si decide di scendere. Scendendo incontriamo molte cordate che erano con noi al Gonella, ci si saluta ed in poco tempo si ripassa dal Dome. La discesa verso l’Italia diventa più ripida e quindi necessita di maggiore attenzione. Solo un pezzo di 100 metri circa richiede di rallentare, il resto è tutto percorribile con un minimo di prudenza.
Scendendo incontriamo alcune cordate che sono “solo a 4000“ e intendono salire in cima al Bianco. Arrivano dal rifugio Durier e hanno appena compiuto la traversata dell’Aiguille de Bionassay, complimenti! La stanchezza inizia a farsi sentire e non vediamo l‘ora di arrivare al rifugio. Sono molte ore che siamo in cammino e abbiamo bevuto e mangiato pochissimo. Finalmente verso le 12:00 siamo al Gonella.
Ci prendiamo un’ora abbondante per risistemare lo zaino, mangiare, bere e sdraiarci su di una panca per riposare la schiena. E’ dura rimettersi in cammino! Si sta così bene qui. Ma non si può, domani si lavora e quindi via per sul sentiero attrezzato che ci depositerà sul ghiacciaio. Il resto del percorso è una lunghissima camminata quasi in piano, contornati da pareti imponenti fino all’arrivo alla morena che indica l’approssimarsi del fondo del vallone. Come sempre, la strada percorsa in salita sembra molto più lunga che all’andata e il parcheggio di La Visaille pare non arrivare mai.
Ore 17:20, siamo all’auto e abbiamo voglia di berci qualcosa, quindi al primo bar ci fermiamo per una birra ampiamente meritata.

Il Bianco dalla normale italiana è davvero un bel viaggio. Salire in cima contando solo sulle proprie gambe, senza utilizzo di funivie è una bella soddisfazione. La via non è tecnicamente difficile, solo molto impegnativa fisicamente per la sua lunghezza, il secondo giorno infatti si salgono 1800 metri, e se ne scendono 3100. L’ambiente è severo ed imponente; aver visitato questa parte del massiccio è stata una scoperta, ci tornerò sicuramente, Claudio mi ha già messo in agenda la Bionassay nel 2017.

Roberto Fullone

Per visualizzare tutte le foto clicca qui.

Massiccio del Monte Bianco

La nostra biblioteca si è arricchita del volume Monte Bianco fotografato da un pilota di montagna di Cesare Balbis, editore Glamox Italiana, di Aosta.
Il volume, uscito a fine 2015, dopo oltre un anno di ricerche e riprese fotografiche aeree, tratta ogni particolare del massiccio, dall’orogenesi a tutti i rifugi e capanne, la storia delle funivie, la fauna e flora, la storia delle glaciazioni, il trenino a cremagliera di Montenvers, il Tramwy du Mont Blanc e la nuova funivia Skyway. Sono oltre 250 le fotografie riprese dall’aereo.
L’editore con questo volume ha inteso “raggruppare libri e libricini riguardanti la formazione e descrizione generale del Massiccio del Monte Bianco”.
E’ diviso in cinque capitoli: piccolo trattato di geologia sulla nascita del massiccio, foto riprese sui versanti italiano, francese e svizzero e descrizione dì tutti i rifugi del Monte Bianco.

240 pagine, formato 23×33 cm, 29,50 €.