Cuore di ghiaccio

Nel rugby c’è chi il pianoforte lo suona e chi lo trasporta

Così afferma un detto francese. La scienza non differisce di molto: se Bartolomeo Vigna, illustre speleologo e stimato professore del Politecnico, afferma di voler svolgere uno studio sul ghiacciaio dell’abisso Scarason, ad un campo esplorativo sul massiccio del Marguareis, puoi avere la ragionevole certezza che tu non sarai quello davanti allo spettrometro di massa – o a qualsiasi diavolo di strumento usino – che osserva meditabondo i risultati delle analisi sui campioni, sorseggiando un caffè.
È invece assai più probabile che tu sia quello che si sciropperà un paio di punte per andarli a prendere, quei campioni.
L’idea di fondo è studiare la formazione del ghiacciaio, che alcuni ritengono molto antico, andando a rintracciare nei campioni il segno inequivocabile dell’era moderna: gli elementi sparsi nell’atmosfera da quarant’anni di esperimenti nucleari. Cercare pezzettini di Mururoa all’interno delle Alpi liguri, dunque. Semplice, no?
Non rimarrà che percorrere la conca delle Carsene, all’estremo lembo meridionale del Piemonte, in un’assolata giornata di agosto, riflettendo sull’assurdità della condizione umana, in generale, e di quella speleologica, in particolare.
In questo giorno, in questo peculiare angolo di mondo, su questa balconata calcarea sospesa a strapiombo sull’alta Val Pesio, può sembrare che le possibilità di osservare dell’acqua in forma solida si riducano al portarsela dietro in appositi contenitori o all’uso di peyote.
Come, peraltro, anche le possibilità di osservarla in forma liquida.
L’abisso in cui entriamo per procurarci i cubetti, destinati – ahimè – a provette e non a bicchieri, è stato esplorato negli anni ’60 da speleologi nizzardi.
L’armo è alla De Coubertin, tipicamente francese, spiccatamente sportivo. Per fortuna abbiamo portato i fix e il trapano per metterli. Per la precisione ho portato due trapani, lasciando gli altri senza. Mi varrà una candidatura alla Volpe d’argento, annuale premio del Gsp all’azione più stupida.
Dopo aver steso corde per un centinaio di metri, ci caliamo finalmente nel pozzo da 40 metri che scende dritto sul ghiacciaio.

Quaranta metri di pozzo (ph B. Vigna)

Solo che, dopo quaranta metri, il pozzo non è finito: il ghiacciaio ha perso almeno una decina di metri. Giusto quelli che avanzano dalla corda, più lunga, che avevamo preparato nel sacco.

Dopo essere tutti atterrati, gironzolando ammiriamo lo spettacolo che ci circonda: piramidi di ghiaccio, arcate trasparenti che sostengono macigni di svariate tonnellate, forme sinuose e forme affilate che si lasciano attraversare dalla luce; dietro, un liscio calcare grigio fumo venato di bianco. Meraviglioso.
Troviamo la volta sotto cui Michel Siffre, speleonauta, ha dimorato dal 16 luglio al 22 agosto del 1962 in uno dei suoi esperimenti di isolamento “fuori dal tempo”.
Dopo un the e un boccone, il freddo comincia a mordere. Lo dico a Pibbo (al secolo Stefano Bocchio). Lui commette l’errore di dirlo a voce alta. Mi viene messo in mano un chiodo da ghiaccio, mentre a Pibbo viene dato il sacco coi contenitori e le istruzioni per raccoglierli.
“Così vi scaldate”
“E voi che fate?”
“Le foto”

La piramide di ghiaccio (ph B. Vigna)

Cominciamo a fare i carotaggi, alla base di un arco di ghiaccio che regge, con meno di un metro di spessore, una concessionaria di utilitarie in pietra.
“Non possiamo farli là?”
“Eh, ma qui si vedono bene gli strati, mi interessano in particolare quelli meno trasparenti.”
“Se quell’arco cede diventiamo trasparenti noi”
“Perché dovrebbe cedere proprio adesso?”
“La legge di Murphy: se qualcosa può andar male lo farà.”
“Ma figurati, prima iniziate, prima finite.”

Evidentemente la scienza ha bisogno di martiri.

Carotaggio, sguardo al ghiaccio, carotaggio, sguardo al ghiaccio, carotaggio, sguardo al ghiaccio. Un paio di ore dopo abbiamo guadagnato quindici campioni e perso altrettanti anni di vita.
Anche perché, nella grande sala, ogni tanto una pietra rotola, mossa dai nostri compagni o semplicemente dalla gravità, e Pibbo e io ci guardiamo, con gli occhi enormi. Finito.
Torniamo immediatamente al campo di Siffre, sotto la rassicurante volta di roccia in posto.
Gli altri si stanno preparando a risalire, ci accolgono con un: “Disarmate voi, vero?”
Il resto è corda e roccia, e un sacco pieno di ghiaccio che presto si scioglierà.

Federico Gregoretti

Scrivere di grotte

È in stampa un libro edito dal Cai Uget e dall’Associazione Gruppi Speleologici Piemontesi (AGSP) e scritto da Giuliano Villa, socio Uget dall’inizio degli anni ’70. Medico, speleologo, antropologo, bibliofilo, bibliotecario, paleontologo, fotografo, musicista e un’altra dozzina di cose ancora, Giuliano Villa era un uomo eclettico e meticoloso. Questo lavoro, l’ultimo, impegnò le sue doti di ricercatore tra biblioteche e archivi per una decina di anni, all’inseguimento dei dotti personaggi che in qualche modo si erano occupati del fenomeno carsico piemontese nel corso dei secoli. Lavoro certosino sulle tracce di uomini che di grotte scrivono per sentito dire o che ripetono quanto letto in precedenza, come nel caso del leggendario “cuniculus” nel quale dovrebbe scomparire il Po, inesistente ma rievocato per più di quindici secoli da Plinio in poi. Il risultato è un libro che parla di grotte ma non di speleologia, affollato di valdesi, santi ed eruditi e che passeggia tra le leggende e i racconti che le grotte piemontesi nel corso di duemila anni hanno saputo evocare. Giuliano Villa scriveva così del suo lavoro:

Questa storia, che ripercorre le tappe della letteratura speleologica in Piemonte, vuole invece trattare l’argomento da un punto di vista della storia delle frequentazioni e delle esplorazioni delle varie grotte, dando più spazio alle curiosità, alle leggende, spesso cercando di confrontare il modo di “vedere” le grotte da parte di osservatori differenti. Soprattutto nei secoli XVII e XVIII le grotte citate sono sempre le stesse: Rio Martino, Pugnetto, Bossea, la Balma Ghiacciata, ecc., grotte che già da tempo eccitavano la fantasia dei locali. Una sorta di percorso sulle testimonianze scritte da esploratori, storici, scienziati o di semplici ardimentosi visitatori che hanno lasciato scritti, a volte curiosi, a volte più interessanti sulle grotte piemontesi, fino ai primi lavori di tipo scientifico e, nonostante le ovvie ripetizioni, non dovrebbero scoraggiarci nella lettura.

Rio Martino, 1906

Il lavoro è impostato quindi come un commento alle singole opere con abbondanti citazioni dai testi originali. In particolare si è curato di mantenere rigorosamente l’originalità degli scritti anche se, per quelli più antichi, la lettura è spesso poco fluida. Seguendo il percorso cronologico, partiremo dalle prime timide esplorazioni del mondo sotterraneo ad opera di pochi e colti ardimentosi. Vedremo che nello scorrere dei secoli si sono spesso modificati i toponimi, con difficoltà a volte a riconoscere e ad identificare certi luoghi e certe grotte. Risalendo più indietro nel tempo le notizie scritte sono sempre più incerte fino a sfumare nelle credenze dei locali e nelle leggende, cioè le tradizioni orali che gli autori antichi puntualmente riportano, spesso con particolari discordanti e fantasiosi. Quali sono le basi su cui costruire le conoscenze partendo da questi testi? In alcuni casi, confrontando gli scritti tra di loro, spesso redatti in tempi e da autori diversi, è possibile risalire alla storia della grotta. In altri casi ci devono soccorrere le ricerche sul campo, magari ricercando ancor oggi qualche traccia residua di tradizioni orali tramandate nelle nostre montagne per secoli, oltre che, importantissima, la rivisitazione di grotte ormai purtroppo dimenticate da noi speleologi perché già esplorate da tempo. È una ricerca affascinante questa perché il mondo sotterraneo, vero scrigno naturale, ha sempre attratto l’uomo e le storie e le leggende tramandate si sono conservate a volte di più che non quelle degli ambienti alla luce del sole, purtroppo spesso completamente stravolti dalla civiltà e dal progresso.