Il mio Ultra Trail del Monte Bianco

Tea Geraci, Ultra Trail Monte Bianco 2016

Una breve premessa per chi fosse lontano dal mondo trail anzi ultratrail. L’Ultra Trail del Monte Bianco rappresenta la gara regina di una serie di gare di vario percorso che si svolgono a Chamonix nell’ultima settimana di Agosto, e dove si misurano atleti di grande livello internazionale e gente comune come la sottoscritta.

L’UTMB, con i suoi 171 km e 10.000 m di dislivello positivo, è il sogno di molti trailer, per potervi partecipare occorre prima aver concluso alcune gare di qualificazione, raggiungere un punteggio, e infine, dato il grande numero di richieste, incredibile ma vero, anche essere estratti.

Ed è a questo punto che inizia l’avventura, almeno così è successo a me, e da Gennaio in poi i mesi sono trascorsi pensando sempre all’UTMB, alla preparazione, alle gare intermedie, ma anche a non esagerare, e a curarsi gli acciacchi che inevitabilmente sono arrivati.

Nel 2014 avevo già partecipato alla CCC, Courmayeur-Champex-Chamonix, 100 km e 6100 m disl, questa volta avrei completato l’anello partendo da Chamonix.

Quante emozioni, a cominciare dalla partenza, atleti provenienti da tutte le parti del mondo, riconosco qualcuno incontrato in altre gare, riconosco qualche top runner, e mi piazzo nelle retrovie, sono lenta e il mio obiettivo è superare i cancelli orari lungo il percorso e arrivare, mi ripeterò spesso “ il ritiro non è contemplato”, e nei momenti di crisi “esiste davvero una ragione sufficiente a farmi ritirare proprio adesso?”.

La gara parte alle 18, i primi 8 km sono in piano e corribili, poi la prima salita, bella tosta, a Le Delevret, discesa e dopo il ristoro di Saint Gervais  non mi sento troppo bene, sintomi da svenimento, devo coricarmi lungo il ciglio del sentiero, molti mi chiedono come sto, arriva anche un uomo dell’organizzazione, ma rassicuro tutti, tranquilli non è niente!

Insomma, non è vero che sia proprio niente, ma non accetto l’idea di mollare, mangio un gel pensando ad una crisi ipoglicemica non gestita bene, mi rimetto in piedi e riprendo faticosamente a camminare, però mi sento affaticata e per qualche ora rimugino nefasti pensieri di ritiro, il traguardo è mostruosamente lontano!

Ma mi riprendo fisicamente e psicologicamente, e da quel momento divento un caterpillar e macinerò km, salite e discese e avrò sempre pensieri positivi.

Capirò più tardi che dovevo aver avuto una sorta di congestione per una manciata di pezzi di banana ingurgitati al ristoro, non a caso per tutto il resto della gara, e ancora parecchi giorno dopo, la sola vista delle banane mi procurava nausea. Quindi MAI sottovalutare la gestione dell’alimentazione.

Da Les Contamines si sale sempre e inesorabilmente fino alla Croix du Bonhomme, non fa freddo, ma la giacchetta ci sta, discesa a Les Chiapieux e poi lunga salita, la prima parte su asfalto, noiosissima, fino al Col de la Seigne.

Durante questa lenta salita su asfalto, che chi sa correre corre, mi venivano i colpi di sonno, ciondolavo, letteralmente!

Finalmente arrivo al col de la Seigne, Italia, un abbozzo di discesa, ma subito ancora una salita, piccola ma bastarda, al Col des Pyramides Calcaires, variante introdotta proprio quest’anno. Non ne sentivamo la necessità giuro.

Panorama da fiaba, tra il sonno e la stanchezza così mi appare…  Siamo sopra le nuvole che ancora coprono il Lac Combal, discesa brutta brutta tra i massi e finalmente Rifugio Elisabetta e lungolago.

Ancora una salita e poi Courmayeur, preceduta naturalmente da una discesa ripida e tecnica. Non ne azzecco una di previsione di tempi di discesa, sempre sassi e radici tra i piedi, e visto che la strada è ancora lunga meglio non rischiare.

Al ristoro di Courmayeur mi aspettano gli amici tra cui Silvia la mia psico-coach, una volta tanto non sono da sola e ho un po’ di assistenza, ma ne parlerò dopo.

Il ristoro di Courma è una base vita, mi fermo un po’ di più, mangio una pasta, cambio maglia e scarpe, ma non posso perdere tempo, non siamo ancor a metà quindi on the road again.

Obiettivo Col Ferret, ma prima i rifugi Bertone e Bonatti, dal profilo altimetrico ricordavo che dopo la salita al Bertone, che caldo pazzesco, si arrivasse con un dolce saliscendi al Bonatti, ma non è vero, questi saliscendi chissà perché sono prevalentemente sempre sali ed i rifugi sono sempre dietro l’angolo ma lassù!

Ad Arnouva ci sono di nuovo i miei amici a salutarmi e poi su verso il Colle.

Panorama superbo ovunque, per non parlare dell’accoglienza e dell’incoraggiamento ai ristori e lungo il percorso.

La discesa a La Fouly è prima tecnica poi corribile, non so come faccio ma una corsetta in discesa riesco ancora ad abbozzarla, i tetti che vedo dall’alto però non sono quelli del ristoro, ancora giù giù a fondovalle.

A Champex di nuovo incontro Silvia, mangio la minestrina e riparto. C’è un temporale, sento tuoni e vedo i fulmini ma sono ancora lontana e quindi ne evito le fasi più temibili, solo un po’ di pioggia giusto il tempo per farmi indossare i pantaloni impermeabili che già ha smesso.

Una eterno falso piano in salita e poi discesa in teoria corribile, ma ho un sonno sonnissimo, ogni tanto mi fermo per sedermi su qualche scomoda pietra, i massi più comodi sono già occupati, ma riesco lo stesso ad addormentarmi per pochissimo tempo, forse neanche un minuto, ma basta per resettare il cervello e riprendere.

Siamo a 130km, penso mancano “solo” più 40km, meno di una maratona, meno di un trail medio, ma mancano ancora tre temibili salite, Bovine, Catogne, Tete aux Vents.

Prima di Col de Montets e Tete aux Vents vedo ancora gli amici a Vallorcine dove arrivo poco prima delle 11.

E siamo a 150km, davvero siamo quasi alla fine, sto bene, anche se sono un po’ rallentata, non me accorgo ma poi rivedendo i filmati è ben evidente, e ho anche avuto le allucinazioni da privazioni di sonno, tutto regolare insomma.

Nell’allucinazione più nitida e articolata mi sembrava di vedere sedute su una panchina lungo il sentiero di discesa a Vallorcine due figure, di cui una donna vestita di verde, pensavo fossero parenti di qualcuno, ma in realtà non c’erano né la panchina né le persone, e il vestito verde erano le foglie degli alberi…

Per non parlare poi delle immagini provocate dai giochi di luce della pila frontale, ho visto interi palazzi costruiti nel cuore del bosco!

L’ultima salita a Tete aux Vents penso di ricordarmela bene dalla CCC, ma non abbastanza bene infatti me la prendo comoda e poi dovrò correre come non avrei pensato di poter ancora fare per non mancare il cancello orario di La Flegere, perché quel vantaggio che avevo ai cancelli dopo la seconda notte è andato via via riducendosi.

Ancora 7 km di discesa e poi l’arrivo, ma ancora dobbiamo soffrire su un sentiero ostico, vorrei correre un po’ per arrivare prima e fermarmi. Negli ultimi 2km posso accelerare, ormai ci siamo, corricchio e finalmente imbocco il percorso lungo il torrente dove uno mi chiama, mi dice brava, mi fa una foto da mandare ad un’amica, lui che applaude me, una tapasciona, è un trailer molto forte di Torino, saprò dopo che si era ritirato.

L’emozione all’arrivo non si può descrivere, sono ormai tra gli ultimi, dopo di me poche decine ancora, ma il pubblico applaude e ti porta alle stelle, mi fermo poco prima del tappetino, è occupato dai fotografi e altri dell’organizzazione, finalmente ancora un passo e tutto si è compiuto, sono FINISHER!

Siamo partiti in 2555 e siamo arrivati in 1468, 1087 runner hanno lasciato il proprio sogno lungo il percorso, ma io ce l’ho fatta.

E ho portato al traguardo con me mio marito Ezio, il mio personale angelo custode, perché anche lui amava correre in montagna, ma ora non è più tra noi perché un maledetto male lo ha scelto.

Devo necessariamente aprire una parentesi relativamente ad una parte molto particolare del mio allenamento. Silvia è una cara amica psicologa che l’anno scorso ha iniziato un master di psicologia dello sport con il prof. Giuseppe Vercelli dell’Unito nonché psicologo e trainer di campioni olimpici.

Essendo alla ricerca di un caso per la sua tesi Silvia mi propone di lavorare insieme, accetto ben volentieri e inizia un percorso di applicazione della metodologia SFERA.

E’ difficile condensare in poche parole in cosa consista, si lavora sulle paure, sul dialogo interiore, ma anche aspetti più pratici quali gestione dell’energia e del sonno. Fondamentalmente si deve giungere ad una sincronia tra corpo e mente affinché il corpo esegua ciò che la mente pensa.

Non so come sarebbe andata senza l’esperienza SFERA, impossibile dirlo, ma sicuramente mi è stata di grande aiuto perché molte volte sono ricorsa a quanto avevo imparato e accolto in questi mesi.

Inoltre penso che per concludere una prestazione di endurance si debba partire con l’intima convinzione e consapevolezza che sarà molto molto faticoso, senza distinzione tra i primi e gli ultimi si soffrirà, che nulla sarà regalato e tutto dovrà essere conquistato. Altrimenti la disillusione può fermare ancora prima della reale necessità fisica o fisiologica.

 

The Last Desert

La serie delle gare 4Deserts è considerata una delle competizioni di corsa più dure al mondo. La serie consiste in quattro gare, ognuna da 250 km:  Atacama Crossing (Cile), Sahara Race (Giordania), Gobi March (Cina), The Last Desert (Antartide). Si corre su terreni di gara durissimi in completa autonomia, vengono fornite solo acqua e una tenda. Le ho completate in quattro anni, dal 2013 al 2016, l’ultima in Antartide.

Se dovessi dire nel modo più sintetico ed essenziale a cosa mi sono serviti questi anni di folli corse, risponderei che mi hanno permesso di conoscere ed apprezzare la spinta interiore che pochi di noi hanno così radicata dentro, di ricercare elementi che potrebbero essere considerati singolarmente di totale inutilità ma che formano il carattere, le ambizioni e il coraggio. Discorsi, sogni, progetti restano dentro di me grazie all’adrenalina e alle endorfine rilasciate durante la corsa.

Antarctica, The Last Desert. Il “last” mette tutto in prospettiva assoluta, traccia una strada da percorrere, lancia un sogno. Quid ultra? La corsa in sé non è la più dura al mondo, esiste di molto peggio, ma per me è stata un raggiungimento di una cima, a lungo pensata.

Una delle cose che più mi appassiona dei nostri sport avventurosi è l’immaginazione che precede un risultato. Arrivare in cima al Monte Bianco per me era un sogno, un sogno che mio padre non ha potuto raggiungere per il maltempo, lui voleva continuare, sapeva che se non avesse raggiunto la cima quel giorno, a 66 anni, non l’avrebbe più raggiunta, ma gli amici lo hanno fatto ragionare e tornare indietro.

Fino a quando non sei lì, non sai, e quanti film si fa la nostra mente prima di arrivare in cima? Come immaginiamo la capanna Vallot prima di entrarci, le Bosses, quali sensazioni avremo in cima? Il nostro cervello è mostruosamente potente, le sensazioni che registra in momenti particolari sono indelebili, tatuaggi neuronali. Il dolore e la fatica li fissano, indescrivibili. Fotografie, numeri, racconti non possono restituire certe sensazioni.

La preparazione al quarto deserto è durata un anno, mentre andavo avanti indietro da Modena, mentre nel week end mi svegliavo, andavo a correre, stavo con le mie bellissime donne, andavo di nuovo a correre, andavo a dormire. Poco spazio per altro, a parte il sogno Antartico. Arrivare in Antartide richiede pazienza, un giorno e mezzo di volo, qualche giorno a Ushuaia e due giorni e mezzo di navigazione in uno dei mari più tempestosi al mondo. Per correre 250 km, in sei giorni.

Qualche corsetta al sole per ambientarsi… (ph Myke Hermsmeyers)

Immaginavo una gara dura, soprattutto perché correndo in assetto competitivo, la testa della competizione vedeva atleti professionisti di tutto il mondo alla linea di partenza. La strategia si definisce a tavolino qualche mese prima e poi si esegue, dopo i primi giorni la stanchezza diventa così elevata che non si può più ripensare.

Qualche corsetta di allenamento sotto la neve, per ambientarsi… (Ph Myke Hermsmeyer)

Il primo giorno si corre a King George’s Island. Ci imbarchiamo sugli Zodiac e dopo un breve freddissimo tragitto sbarchiamo sulla costa.

Andrea Girardi sbarca sullo Zodiac (Ph Myke Hermsmeyer)

Corriamo tra la base antartica cilena e quella cinese, passando da quella russa, in un anello da 11km. La neve è molle, in alcuni punti marcia e profonda, certe salite non finiscono mai, verso la base cinese si corre invece su una strada dove scorrono grandi rivoli di acqua. I piedi sono marci e freddi, la strategia di preparazione aveva previsto lunghe corse con i piedi bagnati e freddi, per preparare la pelle. Arrivo secondo pari merito a Filippo (CH), davanti Kyle (US), dietro Tommy (Taiwan), con circa 88 km e tredici ore di corsa.

Mangiamo e andiamo a letto, non riesco quasi più a salire le scale della nave. Il giorno successivo la corsa parte alle 7, mi sveglio alle 4 e per due ore cerco di muovere le gambe in tutti i modi possibili per trasformare due pezzi di legno in due affari che possano funzionare. Sbarchiamo a Deception Island, un’isola vulcano di lava nera coperta in parte dalla neve, e corriamo per altre nove ore a perdifiato, sono giri da sei chilometri e per farci cambiare l’inclinazione del corpo dopo quattro ore ci fanno correre in senso incricetato inverso. Tengo i ritmi, la vista ti ripaga di tutto, da una parte il vulcano, dall’altra il mare e i pinguini. Nessuno molla, i giri continuano per ore, 11 giri, 88 km, vado a cena con due gambe che sembrano trampoli di legno.

Nelle precedenti edizioni il tempo brutto aveva costretto a rimanere in nave, la scorsa edizione era finita a 168 km, c’erano dei giorni di riposo. Questa mattina c’è una nevicata con vento, dopo quasi due ore di massaggio e stiramento qualcosa riparte e ci facciamo sbarcare in costa.

Paradise Bay. O forse Hell Bay? Gli anelli sono da 870 metri, meno di un chilometro, così dice il GPS. 870 metri e sei di nuovo lì, un salitone e un discesone, da ripetere e ripetere. Vai di ipod shuffle, ho solo due canzoni, “Royals” la prima,  e “New Americana” la seconda, e poi di nuovo “Royals” e poi di nuovo… correre in un anello così piccolo è alienante, ci vogliono delle strategie mentali per mantenere una concentrazione altissima mentre senti fatica e dolore. Neve marcia, fino alle ginocchia che si infila nelle scarpe. Dopo 30 giri sento freddo alla caviglia, ma anche fatica, dolore, concentrazione, solite cose. Dopo 35 giri la caviglia brucia, sarà un po’ di neve, dopo altri due giri è in fiamme, insopportabile e mi fermo alla tenda per capire. C’è un principio di congelamento ed è gonfiata parecchio. Riesco a muovermi male e dopo un altro giro prendo un antidolorifico. Dopo sette ore la terza tappa finisce.

Paradise Bay, un anello da 870 metri da percorrere 45 volte, faticosissimo (ph Myke Hermsmeyer)

I giorni dopo tengo duro, ma qualche posizione la perdo, come da programma. Il quarto giorno il maltempo ci viene in aiuto. Sbarchiamo e iniziamo a correre, ma dopo un paio d’ore il vento si alza e porta i ghiacci dentro la baia, intorno alla nave. Il capitano richiama tutti urgentemente a bordo. Navighiamo nel Gerlache Strait ed è forse uno dei momenti più belli del viaggio, incontriamo delle orche, un leone marino che ancora sporco di sangue riposa su un iceberg, e infine la base di Port Lockroy che non riusciamo a raggiungere perchè circondata dai ghiacci.

Tre piccolissime figure escono dallo shelter e ci salutano con grandi bracciate. Gli uomini che vivono in Antartide sono esploratori, scienziati, guide, eremiti, portano con sé storie importanti. Per fare passare il tempo sulla nave ci propongono bellissime lectures, sui tempi eroici dell’Antartide, sullo sfruttamento esagerato delle risorse marine, sul cambiamento climatico. Andate a leggere la storia di Shackleton, informatevi su che cosa è il Larsen Ice Shelf e imparerete a conoscere questo continente che va preservato con ogni mezzo. L’Antartide è il posto più ricco di cibo al mondo, tutto inizia dal krill e dalla sua catena alimentare e il krill lo stiamo pescando ed esaurendo in maniera scriteriata, per metterlo sugli scaffali di un supermercato come Omega-3. Come se un pezzo di carta dicesse che Andrea Girardi possiede il ghiacciaio della Brenva per questo può farci pipì sopra fino a scioglierlo tutto, più o meno. Prima o poi dovremo fermarci a riflettere, forse, un giorno. Per ora andiamo verso la distruzione con il piede sull’acceleratore.

I giorni sono proseguiti in posti magnifici, uno più bello dell’altro. Il dolore alla caviglia ha invaso parte delle sensazioni, ma lo sapevo fin dall’inizio che allenandomi dieci ore alla settimana non potevo correrne quaranta. La cima l’ho raggiunta, 250 km bellissimi, da sei edizioni i 250 km non venivano completati per il maltempo.

Si corre tra i pinguini. (Ph Myke Hermsmeyer)

Arrivo stanchissimo e il momento più bello è mio, mi sdraio sulla spiaggia circondato dai pinguini, mi metto addosso tutti i vestiti che ho e chiudo gli occhi con la testa rivolta verso un sole appena tiepido, migliaia di miglia lontano da casa. Non festeggio con gli altri al traguardo, questa volta la festa è dentro di me, ringrazio di avere una famiglia così unita che mi permette di fare anche queste gite.

That’s not about language, it’s mental.