La montagna e il tramonto dell’utopia – Testo di Enrico Camanni
Quando gli alpinisti – come tutti – escono faticosamente dalla notte della Seconda guerra mondiale, sembra che i luminosi giorni del sesto grado siano stati definitivamente spazzati dal crollo del fascismo, che ne aveva fatto un cavallo di battaglia simbolico e un motivo di propaganda nazionalista. Anche a Torino, dove l’influenza del regime è stata fortunatamente meno marcata che altrove e l’alpinismo ha mantenuto vitalità e spirito, salvandosi almeno in parte dalle degenerazioni eroiche, si avverte lo smarrimento di un tempo che si chiude, di un associazionismo senza riferimenti, di un sentimento non più patriottico, non più romantico, non ancora rinnovato. Prima della guerra, nell’estate del 1938, il mondo della montagna ha subito il duro colpo della morte di Gabriele Boccalatte sull’Aiguille du Triolet, perdendo un uomo sensibile, un fine scalatore e un caposcuola. Smarrito e sgomento, l’alpinismo torinese si è affidato all’oriundo friulano Giusto Gervasutti nella speranza di un lungo rinascimento, ma il dopoguerra è iniziato nel modo più crudele con la caduta del Fortissimo sul Mont Blanc du Tacul. Sarà proprio la scuola intitolata a Gervasutti, una delle accademie alpinistiche più attive e prestigiose, a selezionare e motivare i nuovi talenti seguendo gli insegnamenti del maestro ma allontanandosi in parte dal suo stile. «Chi si dà all’alpinismo con i soli muscoli – scriveva il friulano rivolgendosi ai giovani – si ritrarrà da esso dopo pochi anni, sazio di azioni puramente sportive; chi è alpinista con il cervello e con il cuore saprà trovarvi valori durante tutta la vita, tanto da giovane quanto da vecchio».
Giuseppe Dionisi, direttore e capo della Scuola Gervasutti, ha in mente un alpinismo asciutto e virile, poco condizionato dalle reminiscenze romantiche del passato, semmai teso al risultato in un clima di scarse confidenze e rigidi rapporti gerarchici che ricordano più la caserma che l’università. La montagna è proposta come scuola di vita attraverso un tirocinio duro, disciplinato, regolato, scarsamente affettuoso o scanzonato. E per niente ironico. La Gervasutti di Torino diventa l’emblema di un alpinismo tutto di un pezzo, dove si impara ad arrampicare e si disimpara a fare di testa propria, e dove l’insegnamento è sempre improntato al modello classico del passato, sottilmente intransigente, seppure mitigato dal solito understatement subalpino. Durante una lezione teorica Dionisi ribadisce il suo concetto di scuola e di montagna: «Non è necessario rammentare che la disciplina, in tutti i casi della vita, ha un’importanza di prim’ordine, poiché nulla si può ottenere quando essa venga a difettare […] Nella scuola che dirigo da molti anni è obbligo all’Istruttore dare del Lei all’allievo, così come, naturalmente, l’allievo deve fare rivolgendosi all’Istruttore».
A Torino la stagione del dopoguerra appartiene a una generazione di alpinisti proletari, molto diversi dagli scalatori “aristocratici” del ventennio. Su tutti spicca la personalità di Guido Rossa, classe 1934, il ragazzo-operaio che ha seguito il padre minatore dal Veneto al Piemonte, è entrato in fabbrica in giovane età e ha scoperto la montagna. Guido non ha paura di niente fuorché del conformismo. Non gli basta risolvere i problemi “impossibili” dell’arrampicata, come le spaventose Placche gialle della Rocca Sbarua, sopra Pinerolo; vuole soprattutto sperimentare, stupire, trasgredire, rompere i tabù. Una domenica raggiunge i piedi della via Gervasutti in giacca e cravatta, con le scarpe da città. «Vai a un matrimonio?» chiedono gli amici. «No, vado alla Gerva» risponde serissimo. E così, slegato, sale e ridimensiona il vecchio mito. Gli danno del matto ma ragiona benissimo. In qualche misura è l’antesignano del Nuovo Mattino. Presto scopre che l’amore per la montagna può portare lontano dalle questioni umane, sul pericoloso crinale dei puri e dei superuomini. Verso i trentanni si trasferisce a Genova e dirotta la passione sulla difesa dei deboli e l’impegno sociale, caricandosi i problemi dei colleghi operai, lottando in fabbrica e nel sindacato, all’Italsider, infine sacrificandosi a un commando delle Brigate Rosse nel cuore oscuro della città. Come non si era tirato indietro sugli scudi di gneiss della Sbarua, non esita a denunciare un operaio come lui, Francesco Berardi, sorpreso a distribuire volantini che incitano al terrorismo. «Non possiamo voltarci dalla altra parte» dice Guido. Le BR lo processano, lo condannano e lo uccidono spietatamente, il 24 gennaio 1979.
Intanto l’alpinismo è cambiato. Nei primi anni Settanta, tra Torino e la Valle dell’Orco, si è sviluppato un singolare movimento di trasgressione che deriva dalle contestazioni studentesche i riferimenti culturali, ma alle piazze preferisce le montagne. Gli esponenti del rinnovamento alpinistico sono guidati da Gian Piero Motti, giovane colto e geniale, ammiratore di Guido Rossa, ottimo scalatore e autore della più importante Storia dell’alpinismo. I nuovi arrampicatori vogliono spazzare i retaggi del vecchio alpinismo eroico, tenacemente attaccati alla tradizione piemontese: per esempio il rito della vetta, e con esso il bagaglio di croci e di morti legato alla simbologia sacrificale dell’ascensione; oppure l’immagine dell’alpinista duro e invincibile, che spesso nella vita urbana e quotidiana si rivela un uomo irrealizzato e insicuro: «Ho conosciuto molti ragazzi e molti uomini – scrive Motti in un articolo del 1972: I falliti – che avevano trovato nell’alpinismo il compenso al loro fallimento nella vita di ogni giorno. Uomini che avevano dato e che danno caparbiamente tutto se stessi alla montagna, con l’illusione di trovare un’affermazione che li ripaghi di tutte le frustrazioni, le delusioni e le amarezze della vita». I giovani contestatori cercano in parete il loro altrove, che è una verità complementare ma non conflittuale all’esperienza urbana. Rifiutano i vecchi pantaloni alla zuava e gli abiti grigi della festa, e provano a sostituirvi vestiti colorati, orari rilassati, scanzonati bivacchi sugli altipiani, giovani voci di donne, iniziazioni dai nomi simbolici: Itaca nel sole, Il cammino dei Comanches, la via della Rivoluzione. Ispirati dal mito dell’arrampicata californiana, individuano splendide pareti di gneiss a pochi minuti dalla strada della Valle dell’Orco e volando di fantasia le chiamano Caporal e Sergent, in risposta al leggendario Capitan della Yosemite Valley.
Gian Piero Motti è determinante nel processo di scoperta, non tanto perché scrive sulla “Rivista della montagna” il famoso articolo Il nuovo mattino (1974), ricavando dall’alpinismo californiano e dalla mitica via di Harding e Caldwell The wall of the early morning light (El Capitan, Yosemite, 1970) una sorta di legittimazione domestica per rompere con il passato, quanto perché dà voce, forma e dignità letteraria a un fenomeno che forse, diversamente, si sarebbe risolto in qualche scappatella psichedelica e in una gran bevuta collettiva. Nel 1972 Motti intuisce che i tempi sono maturi per il cambiamento e in autunno sale con alcuni compagni la parete del piccolo Capitan, il Caporal, per la via più logica e facile: i Tempi moderni. Le difficoltà, le tecniche e lo stile di scalata non sono poi molto diversi da quelli praticati sulle montagne vicine, dalle Levanne al Gran Paradiso, ma la concezione, almeno nell’animo dei protagonisti, è già rivoluzionaria: «è vero – scrive Motti sull’annuario del CAI di Torino – ai piedi della parete si estende la foresta, sopra, usciti dal verticale delle rocce, ti accoglie il verde e il pianeggiante altopiano. Ma quando sei impegnato in parete vivi lo stesso “istante” che potresti vivere sul Petit Dru o sulla Civetta. è lo spirito dell’alpinismo californiano. Lo scopo non è raggiungere la vetta, e nemmeno affermare se stessi. L’arrampicata è un mezzo per vivere sensazioni più profonde». Alla fine aggiunge: «Se poi qualcuno dirà che questo non è più alpinismo, di certo non ci sentiremo offesi». Gli fa eco Andrea Gobetti, il nipote di Piero, ispirato dalla speleologia e dall’arrampicata: «Quando guidato dal mio amico Roberto Bonelli passai dalle grotte alle pareti era il 1974 e lì trovai in piena fioritura un’acuta analisi sul perché si va in montagna, su come goderne anziché soffrirne. L’inutilità dei monti era ancora rispettata come il loro tesoro più grande. Era un mondo emozionante in cui potevi migliorare la tua vita reale e spirituale di tutti i giorni riflettendo e risolvendo problemi di pietra. Ritrovai così quello che mi era stato portato via davanti al naso troppo presto durante la contestazione studentesca…».
Il movimento del Nuovo Mattino dura il tempo di un sogno. Si conclude con la morte di Danilo Galante nella primavera del 1975, quando le più belle pareti della Valle dell’Orco sono ormai esplorate e ci si accorge che la trasgressione è compiuta: insistere equivarrebbe a istituzionalizzare i nuovi principi e le nuove regole, riconducendo l’alpinismo in un vicolo chiuso. Ma l’insegnamento del Nuovo Mattino, che come tutte le utopie tende a sfumare di intensità dal punto di vista ideale, lascia tracce profonde sul piano tecnico. I giovani talenti della nuova arrampicata, da Gian Piero Motti a Gian Carlo Grassi – il secondo caposcuola, che presto diventerà un alpinista di fama internazionale –, da Roberto Bonelli a Danilo Galante, hanno dimostrato che in montagna non esistono doveri e tabù, e che la scalata è un gioco pieno di vita. Nient’altro.
Non resta che compiere l’ultimo passo: isolare lo sport. E così, spogliando arrampicata e alpinismo dei loro significati culturali e tradendo più o meno consapevolmente l’idea romantica del Nuovo Mattino, i giovanissimi campioni degli anni Ottanta si accostano alla parete con motivazioni esclusivamente atletiche. Attraverso allenamenti intensivi e omologabili a ogni altro sport, fanno lievitare le prestazioni di tre gradi in pochi anni e dimostrano che si può scalare dappertutto, anche a tre passi dall’automobile o su una roccia di pochi metri. Non conta più l’ambiente: contano prestazione e stile. Il vecchio corredo di zaini pesanti e rigidi scarponi si riduce a canottiera, scarpette a suola morbida e sacchetto per la magnesite, è l’ultima rivoluzione, che nell’estate del 1985 sfocia nell’eresia delle eresie: la gara. Su iniziativa dell’accademico torinese Andrea Mellano e del giornalista Emanuele Cassarà, con il determinante appoggio tecnico di Marco Bernardi, si svolgono sulla Parete dei Militi le prime competizioni europee di arrampicata, con prove di difficoltà e velocità. I giudici fanno il loro ingresso nella storia anarchica e libertaria della montagna, con la supervisione e la benedizione di Riccardo Cassin. Atleti e atlete con numero e pettorale si esibiscono davanti a centinaia di persone festanti, in un rito collettivo e liberatorio che ricorda Woodstock e la Summer of love, non l’austera solitudine della tradizione subalpina.