Monte Rosso d’Ala

Non c’è gloria ad andare sul Monte Rosso d’Ala, non ci va nessuno. Se provate a dire a qualcuno che ci siete stato, se sa dov’è e cos’è, vi guarderà stranito. Per capirci: quando dite di essere stati sul Rocciamelone avete in risposta approvazione e compiacimento. Nessuno va sul Monte Rosso d’Ala, anche se vistoso e invitante, a sinistra risalendo la valle, imponente sopra Ala. Il motivo principale è presto detto, si parte da basso, dalla frazione La Fabbrica arrivare lassù sono 1700 metri di dislivello, un po’ tantini. E senza speranza di gloria alcuna. Perché andarci? Eppure ci siamo andati, in due, io e Giuliano Voltan. Vedete, il fatto è che quel monte è troppo vistoso e invitante per non suscitare curiosità, però se chiedete informazioni vi risponderanno che lì non ci va nessuno. Ma l’escursionismo non è solo fare delle passeggiate, si cerca sempre qualche novità, se il luogo non è frequentato tanto meglio, ci sarà qualche mistero da svelare, una cosa che diventerà nostra, poco male se non potrà essere condivisa, rimarrà dentro di noi, una risorsa, come un fuoco in cantina a scaldare la casa.
Per dirla tutta, ci siamo andati proprio perché lì non ci va nessuno. In passato avevo già parlato a Giuliano di quella strana montagna, come ad altri, con poca convinzione, era diventata una specie di gag: “Quello è il Monte Rosso d’Ala, dove non va mai nessuno, quando sarò grande ci andrò”. La cosa era, giustamente, sempre caduta nel vuoto, ma qualche giorno fa Giuliano mi telefona: “Ci andiamo?” “E perché no!”
Ci mettiamo subito a posto la coscienza fissando l’appuntamento mezz’ora prima del solito, alle 6.30; a quell’ora di traffico ce n’è poco, facciamo in fretta, alle 7.30 siamo già con gli scarponi ai piedi, la macchina la lasciamo di qua dal torrente perché dall’altra parte non c’è posto, il primo cartello tra le tante mete segnala anche il nostro Monte Rosso: 5 ore di salita. Bene, ci sta. Inizia la sterrata che presto diventa sentiero: è il numero 211. Ci si addentra nella faggeta, man mano compaiono larici e betulle, poi i ruderi degli alpeggi Lusiglietto (1618 m.) e Colau (1815 m.), il percorso continua ad essere segnato bene, anche se ogni tanto ci si trova fuori e bisogna tornare indietro a cercare i segni: ordinaria amministrazione. Poco sotto l’Alpe Radice (2150 m.) c’è ancora un bivio. Notiamo che c’è l’indicazione per l’Alpe Radice ma è sparita quella per il Monte Rosso: cercano di dissuadere? I segni proseguono nell’itinerario per il Lago Lusiglietto, per dove dobbiamo andare noi non è più segnato, si procede per tracce di sentiero e ometti, l’attenzione a non perdere la via aumenta: non ci possiamo permettere di perdere tempo.

Michele all’Alpe Radice

L’Alpe Radice è in una magnifica dolce costa, il luogo è proprio suggestivo, uno degli edifici è ancora parzialmente in piedi. La vetta è sempre alto sulla destra; a sinistra, non visibile da sotto, c’è il Colletto di Monte Rosso d’Ala (2590 m.): bisogna arrivare lì. Proseguiamo, tracce di sentiero e ometti, ad un certo punto compaiono i ruderi di un altro edificio, della malta sigillava gli spazi tra le pietre contro gli spifferi, sopra si intravedono le tracce di una stradina. Ma che ci fa una stradina lassù? Lo stupore è ancora maggiore quando compare un tratto dove la stradina, un paio di metri di larghezza, viene fatta passare sopra un muro che come un ponte supera una zona impervia di rocce. Dopo un po’ mi viene in mente il perché di quella strada e di quell’ultimo edificio rifinito, siamo vicino all’imbocco del canalino che porta al Colletto e proprio lì sulla cartina è segnalata la miniera di ferro abbandonata: la stradina era di servizio alla miniera. Al ritorno la vedremo proseguire anche sotto l’Alpe Radice, la seguiremo fino al grande pietrone erratico (grosso modo un cubo di 20 metri), lì, a destra, c’è la nostra incerta traccia di sentiero, la stradina scende da un’altra parte.
Dicevo del canalino. Per andare su bisogna passare da lì, l’imbocco è a destra, bisogna attraversare un tratto di pietraia, Giuliano è abilissimo a usare i due bastoncini, confortano piccoli ometti, si vede che nonostante tutto qualcuno ci è passato e li ha lasciati. Il canalino è rognosetto, come tutti i canalini, stranamente colonizzato dall’aglio ursino, cosa mai vista, l’unico posto dove ricordo di averlo trovato è sulla collina di Torino, a mezza strada nell’itinerario dei tre parchi per andare alla Maddalena. La pendenza si impenna, ma ci pare alla nostra portata, continuiamo a salire, con cautela, siamo ovviamente stanchi, sicuramente nella testa di tutti e due gira un pensiero: ne vale la pena? La stanchezza si sente, ma poi spiana un po’ ed ecco il Colletto: è presidiato da un ometto, miserello in verità, nessun’altra indicazione. Dall’altra parte si spalanca la vista sulla parte alta della Valle di Ala: a destra la Ciamarella dal dolce nome, cara agli escursionisti e alpinisti torinesi, dopo il Monviso la montagna più alta del Piemonte, senza contare la zona di confine del Monte Rosa; a sinistra un po’ nascosta la Torre d’Ovarda, poi la Bessanese e altre ancora in uno scenario la cui vista, guarda un po’, è buona parte della nostra gratificazione. Ci sarebbe ancora da salire la punta, la lasciamo dov’è: è tardi, siamo stanchi, ci sarebbe da arrampicare, e a quanto pare anche da cercarsi la via, perché non c’è traccia di ometti o segnalazioni. Non è il caso, anche se non credo che ci sarà un’altra occasione.

di Michele D’amico

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