Il 27 marzo Reinhold Messner è a Torino per presentare il suo spettacolo “Wild!”, in cui racconta la spedizione di Shackelton in Antartide nel 1915. La serata si svolge all’interno della rassegna In Cordata, organizzata tra gli altri dal Cai Uget.
A margine dell’evento, Reinhold Messner ha gentilmente concesso questa intervista ad Andrea Castellano: un grande momento per capire qualcosa in più di questo uomo di montagna.
Dalla parete al palcoscenico: sembri a tuo agio sia su superfici orizzontali sia verticali. Sostenere il palcoscenico richiede impegno, abilità e doti, molto più che sedersi in prima fila mentre mandano in onda l’ultimo film che ti vede protagonista. Cosa ti spinge a farlo?
Sono stato un alpinista, anche d’alta quota, un rocciatore, ho attraversato deserti, ma non sono uno scienziato, un esploratore nel senso tradizionale della parola. Sono un avventuriero e sono uno storyteller, un “racconta-storie”, due attività completamente diverse. Con la mia voce ho raccontato tante avventure di fronte a molte persone, mostrando un po’ di materiale fotografico. Ho raccontato di alpinismo e tutto questo è approdato in una struttura museale composta da sei musei distinti, ma tra loro collegati nei quali parlo di tutto l’alpinismo. Adesso, è vero, produco film di montagna: è completamente un altro lavoro. Però non “mescolo”: ci sono molti alpinisti che fanno tutto, ed è sbagliato. Non sono un alpinista se sono sul palco: sul palco sono uno storyteller e nient’altro.
Walter Bonatti ha detto di te “E’ l’ultima speranza del grande alpinismo tradizionale”. Dopo che hai lasciato la grande ribalta, è più esistito questo alpinismo tradizionale?
Ho portato avanti quest’alpinismo tradizionale. Bonatti però è stato forse l’ultimo esempio di un puro alpinismo tradizionale, ha fatto un po’ di tutto a livelli molto alti, dimostrandosi il più bravo del suo periodo. Oggi i più validi o arrampicano, o fanno speed-climbing (arrampicata di velocità) o scalata ad d’alta quota: o uno o l’altro, non è più possibile fare un po’ di tutto. L’alpinista tradizionale se ne sta andando lentamente: certo anche oggi ci sono dei ragazzi di gran talento, ma sono pochi in confronto a prima.
Te la sentiresti d’indicare un erede di questa forma di alpinismo?
Ad esempio Hervè Barmasse (presente anche lui alla serata, ndr) e Ueli Steck, anche se Steck lavora molto sulle cifre. Una volta chiamavo l’alpinismo contemporaneo “alpinismo delle cifre”, adesso lo chiamo “alpinismo della pista”. La maggior parte va dove esiste già una pista: anche sul XII grado si ha una linea da seguire, si può vedere dove mettere le mani e ci sono gli spit, altrimenti un tale grado di difficoltà non sarebbe affrontabile.
Recentemente in Piemonte si è affrontato il problema dell’industrializzazione delle valli a scapito del benessere paesaggistico e ambientale. Quale rapporto può esserci tra economia ed ecologia?
Il discorso è molto semplice: dall’ultima glaciazione in poi, l’uomo ha l’obbligo e il diritto di sfruttare o lavorare la terra fin dove riesce ad arrivare. E’ sempre stato così. Le montagne però, quelle dove l’uomo una volta non andava perché non era stupido come noi, devono essere lasciate selvagge. Pochi l’hanno capito: c’è la capacità di sopravvivere in montagna solo fino ai 2200 m massimo 2400m, oltre la gente infatti non andava. Dove c’era soltanto roccia, ghiaione, ghiaccio, l’uomo non andava. Molto semplice. E quella zona dev’essere lasciata senza infrastrutture, com’era, allora sì che ha un valore. Mentre a una quota inferiore se il contadino non riesce a portare su le bestie, tutto degrada: purtroppo Mountain Wilderness non l’ha capito questo, e proprio per questo sarebbe meglio che tacesse per sempre! Non ha capito che sono due parti, l’ecologia e l’economia della montagna, che fanno un tutt’uno che è unico. Se invece metti un divieto d’accesso al contadino che va su alla malga con un piccolo trattore per portare il sale o per portare giù una bestia morta, il contadino non può fare nulla e allora abbondona. Tutte le vostre vallate, quelle di una certa altezza sono tutte vuote…
E’ vero…
E’ vero sì, è colpa di chiacchieroni! I Verdi, Mountain Wilderness, etc. Io faccio il contadino e so come vanno le cose.
Così come il tentativo di Shackelton, così lei ha attraversato l’Antartide nel 1989-1990. Come ci si prepara a queste esperienze?
Bisogna studiare bene anche la storia, poi ho deciso di farlo con i mezzi di oggi: non con la motoslitta, certo, ma con filati di kevlar e altro materiale moderno, ma sempre con lo stesso stile che avrebbe seguito Shackelton se avesse avuto la possibilità di portare a termine la sua spedizione. Noi non abbiamo fatto altro che realizzare l’idea di Shackelton con GoreTex e Pile invece della lana.
Nel corso degli ultimi anni si è diffusa molto la pratica del trekking, dell’alpinismo e dell’arrampicata sportiva, veri e propri fenomeni sociali. Per molti l’andare in montagna è qualcosa che avvicina a un’entità trascendentale, quasi un atto religioso per avvicinarsi a Dio o a un’entità spirituale. Che ruolo ha ricoperto e ricopre nella sua vita la spiritualità?
Per me l’andare in montagna è solo un fatto storico. L’alpinismo inizia con le leggende. La leggenda più famosa è quella di Milarepa, che mille anni fa dice di essere salito sul Kailash (sorride, ndr). Non è certamente andato sul Kailash, ma dice di essere andato, o la gente lo dice: è mitologia e molti di quelli che vanno in montagna, che hanno letto un pochettino e hanno letto bene, seguono più o meno questa leggenda, questa dimensione mitologica. Hanno ragione, tutta quest’attività ha ragione di esistere: bisogna descrivere come sono queste attività, e per me l’alpinismo è un fatto culturale e non un fatto sportivo. Il descrivere la roccia, anche se nell’arrampicata sportiva indoor si parlerebbe di plastica, fa parte della cultura della montagna. Siamo arrivati a questo sport che è bellissimo, però non tocca più l’alpinismo tradizionale.
Per concludere, ti porgo una domanda da apprendista “alpinista”, hai qualche segreto o consiglio da lasciare ai giovani?
No! Se li avessi, sarei un prete e non lo sono. In particolare, io non voglio essere di esempio: ho fatto le mie esperienze, descrivo tutto quello che concerne la montagna così com’è e non in maniera idealizzata. Una malattia dell’alpinismo è l’idealizzazione: faccio la mia attività secondo la mia età, non faccio l’attività di una volta e soprattutto oggi uso altri metodi per raccontare la montagna.
Grazie Reinhold!
Prego.
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