La Commissione Gite al Santuario dell’Annapurna Nepal

Testo e foto di Alfio Minissale

I rododendri emergono possenti ai lati di questo sentiero in Himalaya, i loro fiori esuberanti e leziosi ci distraggono per qualche attimo da questi innumerevoli gradini che irregolari salgono, scendono e risalgono ancora, sbeffeggiando le nostre ginocchia scricchiolanti e i quadricipiti un po’ risentiti.

Ed immensi sono pure gli occhi dei bambini, sgranati e stupiti mentre ruotano tra le mani i nostri lapis in dono, forse pensando già al prossimo bellissimo disegno da tracciare.

Grandissimi, ancora, i sorrisi dei portatori che, noncuranti del peso che deforma le loro spalle (ma non il loro umore), procedono sulla loro personale via del Golgota.

Maestose le valanghe scese dai pendii  che ricoprono ogni anfratto nell’alta valle.

E gigantesche, ovviamente, sono queste vette che ci sovrastano, colossi di granito e neve di cui crediamo di sapere tutto, letto molteplici libri, visto mille documentari e ascoltato i più disparati racconti.

Tutto è enorme in Himalaya, e noi, a tratti, ci sentiamo piccoli ed indifesi di fronte a questa immensità.

Intanto, accumuliamo fatica e sudore con una latente apprensione per la paura di non farcela o che anche solo qualche piccolo inconveniente possa guastare il proseguo del cammino. Da un lodge all’altro, tra un gurung bread a colazione, un piatto di spring rolls a pranzo e uno di momo a cena si susseguono i giorni; sappiamo che la meta è sempre più vicina e le mattinate terse, con la visione nitida delle piramidi maestose ai lati del nostro sentiero, ci infondono carica e nuova energia.

Eccolo qui finalmente il sogno di ogni alpinista, l’ultimo spazio di slanci eroici, dove l’esotico incontra l’estremo, l’impossibile sposa l’assoluto. Certo nemmeno qui siamo del tutto esenti da quella furia consumistica che ormai in ogni angolo del mondo amalgama le voglie di ogni popolo, e poco male se qualcuno non riesce a trattenersi da un sorso di zuccherate bevande gasate, di un caffè espresso tanto agognato o di una pizza in versione nepalese. L’autenticità di questi luoghi non è in fondo ancora compromessa, nonostante paghiamo anche qui un po’ di dazio ad una globalizzazione invadente e non sempre consapevole.

Quell’Himalaya, che per anni abbiamo sognato, forse anche mitizzato filtrando la nostra immagine di picchi assoluti, crepacci, diedri dalle pagine di un Bonatti o di un Messner, si stende adesso sotto i nostri piedi e sopra la nostra testa, e attorniati da questa conturbante ma non invadente presenza  quasi  stentiamo a crederci di trovarci adesso dentro lo stesso, medesimo paesaggio delle imprese dei nostri eroi.

E quando, in questa splendida giornata di fine aprile, alle prime ore del mattino qui al campo base dell’Annapurna il primo raggio di sole svetta sul tetto del mondo riverberandosi tutt’attorno, ogni certezza o incertezza, ogni sensazione di sicurezza o precarietà, ogni senso di piccolezza o di grandezza, ogni singolo momento passato, presente o futuro si congela fissandosi eterno negli anfratti più profondi del nostro spirito.

Tutto è enorme in Himalaya eppure tutto rimane impresso nella mente e nel cuore.

Sembra quasi impossibile che questa assoluta grandezza possa essere contenuta nel singolo corpo di un uomo. Eppure, adesso, sappiamo che è così.

Il cammino riprende, si ritorna giù; ci gustiamo sorridenti un ennesimo ginger tea seduti tra le panche di questo lodge spartano ma accogliente; la tensione si è ormai allentata adesso sulla via verso casa e con le gambe stanche, la testa tra le nuvole rivolgiamo un ultimo sguardo alle altissime punte di queste montagne sacre salutandole con un arrivederci e con la speranza di salire ancora un po’ più su la prossima volta, avvicinandoci alle nuvole e toccare con un dito il cielo.