Una storia
Testo e foto di Eugenio Masuelli. Sabato 22 agosto 2020
Nell’agosto scorso avevo pubblicato sulla mia bacheca Facebook un post in cui illustravo, molto brevemente e in tono lieve, una passeggiata solitaria in media montagna, sopra Chiomonte: per l’esattezza, alla Frazione Ramats.
Raccontavo della mia scoperta del Vin Freddo (ne avevo messa una bottiglia nello zaino) e anche di aver percorso – all’inizio inconsapevolmente – un tratto della Via Francigena nel suo ramo valsusino. Vorrei qui rielaborare quelle ore in una chiave più personale. L’escursione aveva assunto, man mano, strada facendo, la connotazione del vero cammino pellegrinante: avevo iniziato un sentiero che poi era apparso pericoloso e impercorribile; ero allora tornato indietro per imboccare sotto il sole a picco la lunga strada asfaltata; ero transitato, non senza inquietudine, sotto gli altissimi piloni dell’autostrada da cui piovevano rumori e rombi ormai a me estranei; avevo creduto, per almeno tre volte, di essere arrivato alla meta. Non un’anima passava intanto per la strada; i declinanti vigneti d’altura apparivano, pure loro, deserti. Dopo gli ultimi tornanti, avevo fatto sosta presso la piccola Cappella di Sant’Andrea, da cui la visione sulla strettoia della valle era solenne. Sul parapetto – copertina dorata luccicante nel sole – ecco un piccolo libro, finemente rilegato: edizioni La Nave di Teseo. La prima riga della prima pagina del libro era sottolineata a matita, con cura. Non conteneva un oracolo, non era la risposta a una mia domanda né, tanto meno, era un incoraggiamento collegato ai miei eventi di quei giorni. Quelle poche parole sintetizzavano, con estrema durezza, quanto espresso nella prima Epistola di Paolo ai Corinzi, sgombrando la visuale da ogni considerazione di compromesso. “È meglio non vivere che non amare”. Le righe stampate potevano valere per tutti, come una dura predica dal pulpito o come una delle esegesi di Massimo Cacciari a quel famoso testo di Paolo; ma le righe ben sottolineate, proprio perché tali, erano rivolte a me. L’essenza di questo incontro, e non soltanto la sua possibilità, consisteva nella perdurante assenza di altri esseri umani: siamo soli, il libro ed io. Non si può sfuggire alla responsabilità del dialogo. So che è costume lasciare talvolta un libro, uno di quelli che si è amato, affinché lo legga il viandante successivo – e i segnali, in questo caso, c’erano tutti: ma io quel libro non ho osato prenderlo. L’ho soltanto spostato e l’ho messo in una posizione più riparata da sole e pioggia. Forse, chi l’aveva smarrito sarebbe tornato a cercarlo. Io, da lì, non prevedevo di ripassare. Magari mai più? Sono salito oltre. Dopo aver scoperto che Ramats consiste in un numero ragguardevole di frazioni che rimandano l’una all’altra – ognuna sempre posta più in alto della precedente – ho trovato una trattoria. Tutti, dall’oste ai commensali, sono stati gentili con il pellegrino non più giovane, che aveva chiesto per sé un toast e una doppia panaché: un godimento anche dell’anima, dopo la fatica. Tutti, là sotto il pergolato, erano stupiti che io fossi giunto a piedi.
Una famiglia, al tavolo di pietra posto accanto alla fontanella, festeggiava un compleanno giovanile: hanno insistito perché io accettassi una fetta di torta. In contrappunto, due uomini abbronzati, sulla cinquantina, discorrevano seduti sulla panca davanti al vecchio forno del pane: sì, certo, nei mesi passati loro avevano dovuto decidere ogni giorno chi salvare e chi no nel Pronto Soccorso, i più giovani prima dei più anziani, i più robusti prima dei più fragili – e, però, ciò era quanto nelle calamità accadeva sempre e da sempre… Venuto il momento di ripartire verso Susa, alla mia richiesta d’indicazioni per raggiungere il Sentiero Balcone, ho visto qualche viso preoccuparsi. I miei occasionali amici della trattoria mi hanno sconsigliato. Quelli, mi dicevano, erano luoghi spesso tribolati dalle contestazioni contro la Nuova Galleria: l’indomani in particolare era prevista una dimostrazione, il sentiero era destinato a trovarsi, dalle parti di Giaglione, proprio tra i due opposti fuochi dei manifestanti e delle forze dell’ordine. Ho così rinunciato, perché si sa la fine che fanno spesso i pellegrini, veri o assimilati, sui campi di battaglia. Sono disceso, per la stessa strada della salita, verso Chiomonte e sono così ripassato davanti alla Cappella di Sant’Andrea. Dopo due ore, il libro era ancora al suo posto. A questo punto i presagi favorevoli erano consolidati. Non potevo ignorarli, in quel mio nuovamente ”essere lì” in barba alle intenzioni originarie. Qualche scrupolo, però, mi toccava ancora. Allora ho recuperato dallo zaino una penna biro che da anni giaceva inoperosa e ho usato il parapetto di pietra come una ruvida scrivania per buttar giù due righe, sul retro della ricevuta fiscale della trattoria. Nelle quali io raccontavo di aver preso il libro ritenendolo un dono anonimo e voluto per me dalla sorte; ma aggiungendo che – se, invece, si era trattato di smarrimento – bastava usare il mio indirizzo mail ed io l’avrei subito restituito per via postale. Ho poi posato il foglietto sulla soglia della Cappella, sotto due piccole pietre che contrastassero il vento. Ho infilato il libretto nello zaino e ho proseguito la mia discesa. Mi sentivo soddisfatto, come mi accade di rado. La giornata, nata con luce incerta, si era rivolta totalmente a mio favore. Ci sono, di certo, pellegrinaggi più famosi e assai più lunghi dei poveri chilometri della mia strada in quel giorno – e almeno uno di questi cammini, chissà, spero ancora di poterlo percorrere: perché mi sembra di capire, da questi piccoli segni, che i pellegrinaggi funzionino piuttosto bene.
