Hervè Barmasse: la mia vita tra zero e 8000

Intervista a un grande dell’alpinismo
Testo di Giovanna Bonfante. Foto di Ilaria Truffo.

È difficile riassumere in poche righe la complessità di una figura come quella di Hervè Barmasse: protagonista di molteplici scalate sulle pareti e sulle vette di tutto il mondo, dal Nepal alla Patagonia, ma anche capace di scoprire linee nuove e l’avventura estrema sulla montagna di casa: il Cervino. Cima che egli considera quasi come un fratello maggiore, visto che è nato ai suoi piedi in un freddo inverno di quarantatre anni fa. Per un ragazzino cresciuto in montagna, con poco interesse per la scuola, il percorso più naturale è quello di cercare di “vivere di montagna”, dapprima avvicinandosi all’agonismo sugli sci e, successivamente, dopo un grave infortunio, al mestiere di maestro di sci e di guida alpina. Nonostante l’appartenenza ad una famiglia di guide, Hervè, come molti altri giovani, deve fare la propria esperienza, con errori e sperimentazioni che lo porteranno ad arrampicare per un periodo in solitaria. Questo gli consente di comprendere meglio i limiti personali e di imparare a valutare attentamente le proprie forze, ma anche di apprezzare maggiormente le bellezze della montagna, con i suoi tramonti, le fitte nevicate e i cieli invernali algidi e stellati. Successivamente Hervè si avvicina al mondo dell’alpinismo extraeuropeo, nel quale scopre anche l’importanza dell’amicizia e non solo dell’affiatamento in cordata. Progressivamente poi, sale anche alla ribalta delle cronache per il suo alpinismo semplice e puro, lontano dalle cime famose e “commerciali”, ma in grado di regalargli emozioni ed avventure che lo fanno paragonare, dalla stampa specializzata, alla figura di Messner, quasi ne fosse un erede. Con qualche domanda cerchiamo di conoscere maggiormente l’animo di questo giovane, ponderato, semplice e disponibile, che si trova ugualmente a suo agio nei salotti televisivi come su di una parete ghiacciata.

Che cosa rappresenta la frase “La mia vita tra zero e ottomila?”

“Fisicamente è una nuova sperimentazione di allenamento, poiché da quando la famiglia è aumentata e le mie bimbe amano trascorrere periodi di vacanza al mare, ho necessità di proseguire con gli allenamenti anche a basse quote. In fondo sono nato come atleta e ritengo sia fondamentale, anche nell’alpinismo, la preparazione fisica costante. Metaforicamente, invece, rappresenta gli alti e bassi, l’alternanza nella concretizzazione dei sogni o nel superamento delle difficoltà che ognuno di noi può trovarsi a dover vivere.”

Nell’autunno scorso sei stato ancora una volta in Nepal: come valuti, ad esempio, quest’ultima esperienza?

“Purtroppo non abbiamo fatto la traversata del Chamlang a causa delle avverse condizioni meteorologiche ma, su ventiquattro giorni effettivi di permanenza in quota, ne abbiamo potuti sfruttare solo tredici; non abbiamo raggiunto nessuna cima, ma poco importa perché siamo riusciti a fare un buon allenamento per un successivo progetto di spedizione al Cho Oyu dove ho intenzione di aprire una via nuova, in stile pulito, con David (Gottler n.d.a.) e l’americano Andres Marin.”

Durante le spedizioni ormai chiunque è connesso con il resto del mondo per dare notizie, quasi in tempo reale, su ciò che sta accadendo. Se questo, da un lato permette a molte persone, che forse non potrebbero mai compiere certe imprese, di viverle quasi in prima persona, dall’altro non toglie un po’ di “sapore” all’avventura che si sta affrontando?

“Beh, la mia compagna si è abituata e delle bimbe solo la più grande, che ha due anni e mezzo, percepisce la mia mancanza… Non è facile per lei, ma neanche per suo padre! Però, per il momento non sento ancora la necessità di smettere di vivere l’avventura per godermi di più la famiglia.”

Come guida sei figlio d’arte, anche se tuo papà, per un certo periodo, ha cercato di tenerti lontano dal suo mestiere. Se le tue figlie un giorno ti chiedessero di seguire le tue orme?

“Spero proprio di no! Comunque non potrò impedirglielo e se decideranno di farlo le sosterrò; nonostante sia ancora un mondo prevalentemente maschile, io, sinceramente, non faccio grandi distinzioni di genere. Inoltre, nell’ambito dell’arrampicata, ci troviamo davanti ad uno sport in cui uomini e donne hanno raggiunto livelli sostanzialmente molto simili. E’ pur vero che nel mestiere di guida ci possono essere freddo, fatica, sofferenza, caratteristiche non sempre piacevoli e che, per tradizione e cultura, sono spesso state considerate più maschili, ma fortunatamente anche in questo campo le opinioni stanno cambiando. E’ uno dei motivi per i quali ho iniziato a sostenere, dal 2010, la prima scuola di alpinismo per donne in Pakistan…”.

La tua attività ha evidentemente costi elevati che vengono anche supportati da sponsor. Come riesci a gestire la tua libertà di scelta degli obiettivi da raggiungere con le esigenze di chi ti aiuta a realizzarli?

“Questo, fortunatamente, non è mai stato un problema; non c’è mai stato nessuno sponsor che mi abbia detto di scalare una vetta o di non farne un’altra”.

Neppure in caso di un obiettivo non raggiunto?

“No, neanche in quel caso! Anche perché, se fai l’alpinista, vuoi raggiungere la vetta o un determinato risultato; ma nessuno mi ha mai fatto pressioni e in questo aspetto della mia vita sono sempre stato molto fortunato. Pure quando i miei obiettivi non corrispondevano alle richieste dello sponsor io sono sempre andato dritto per la mia strada: nessuno mi ha mai condizionato nel cercare di realizzare i miei sogni!”

Un grande “in bocca al lupo” per la realizzazione delle tue prossime avventure, Hervè. Grazie perché ci ricordi, con la tua semplicità e schiettezza, che tutti noi possiamo concretizzare i nostri sogni, in montagna e nella vita, e che sono le emozioni che proviamo a rendere grande quello che realizziamo.