Con l’intento di suscitare riflessioni e discussioni nei nostri lettori traiamo dalla lettura di Montagne mute, discepoli silenziosi a cura del gruppo “filosofia & montagna” (Ed. Il Poligrafo, 2013) due passaggi. Il primo (G. Pasqualotto, Montagne d’oriente. Il tema della montagna nelle culture orientali, ivi pagg 41 ss): “… il cammino attorno alla montagna si costituisce dunque come percorso di formazione, che non contempla necessariamente l’idea e la pratica della scalata né, tantomeno, quella di ottenere una vittoria sulla montagna, magari anche sancita piantando sulla vetta un segno. Queste due operazioni verrebbero considerate “negative” o, comunque, non propizie, se non altro per due motivi: innanzitutto perché spingerebbero l’individuo fuori di sé, schiavo del desiderio di raggiungere e “possedere” la vetta; in secondo luogo, centrando l’attenzione sull’impresa personale, esse farebbero dimenticare all’individuo che la montagna è sempre e comunque un segno concreto, tangibile e visibile del fatto che un singolo uomo è soltanto una parte – nemmeno centrale – dell’universo che lo circonda. Non solo. L’approccio tradizionale alla montagna in ambito indiano – e orientale in genere – non esige che esso avvenga come una sfida “a tu per tu” con la montagna – sfida che comporta un’inammissibile prospettiva antropocentrica in cui la montagna viene considerata un avversario da vincere o una donna da conquistare – ma comporta che si svolga secondo due principali modalità: o in forma eremitica, vivendo sulla montagna in totale solitudine; o andando alla montagna in pellegrinaggio con una compagnia più o meno numerosa e organizzata. È molto importante ricordare che, in entrambe queste modalità, non è previsto né gradito parlare dell’impresa – sia prima, nella forma del progetto, sia dopo, in quella del resoconto – cosa che, come è noto, è invece ritenuta parte integrante anzi spesso addirittura indispensabile nella quasi totalità degli approcci occidentali alla montagna. Questa differenza di atteggiamento risulta del tutto logica, considerando le premesse culturali di fondo che determinano l’approccio orientale alla montagna: essendo essa considerata sacra, nei suoi confronti si possono pronunciare solo parole di preghiera, oppure si deve rispettare un profondo silenzio…”. Il secondo (G. Gurisatti, Fantasmagorie postmoderne del limite. Montagna e alpinismo tra pratica ascetica, performance sportiva ed evento mediatico, ivi pagg. 105 e ss): “… Senza nulla voler togliere all’abilità, al coraggio e all’audacia di free climbers e simili, non si sfugge all’impressione che in queste performances iconiche ultrareali la montagna come creatura naturale imploda nella pura dimensione dello spettacolo, perda cioè ogni residua aura di autonomia e sacralità, diventando supporto scenografico e location paravirtuale di imprese che assomigliano più a un videogame che a un’attività sportiva. Con una sapiente orchestrazione dei messaggi, anche (gli) … aspetti mistico- meditativi dell’alpinismo rientrano nella scenografia, mero optional folcloristico di contorno, gadget tra gadget. Proprio di ciò si nutrono i mass media e gli sponsors, sicché l’alpinismo estremo postmoderno sembra ormai solo un “valoresegno” (Baudrillard) nell’ipermercato dell’avventura adrenalinica…”. A quale orizzonte volge il nostro sguardo, quali suoni cerchiamo all’ascolto, che significati assume a sé il nostro animo? Accettiamo trasformazioni apparentemente superficiali, manifestazioni del frenetico, tempo inconsapevole? Nel profondo, anche se non manifesto, io credo che l’antico e perenne camminare debba sempre essere preghiera e silenzio.