Tranquilli, l’acqua è ritornata ma la scorsa primavera la notizia aveva acceso la nostra curiosità spingendoci ad organizzare una passeggiata sul fondo. Sappiamo infatti che l’evento è piuttosto raro, avviene ogni 10 anni circa per consentire la manutenzione delle parti sommerse della diga e delle opere connesse.
Un po’ di geografia
Il valico, situato nelle Alpi Cozie a 2083 m, unisce il Piemonte (Val Cenischia, Val Susa) alla Savoia (Valle dell’Arc). Il versante meridionale del colle è caratterizzato da vastissimi pascoli che si estendono per chilometri prima di scendere verso Novalesa. Il piccolo lago naturale posto al centro è ora trasformato in un enorme bacino artificiale.
Un po’ di storia
Il colle del Moncenisio è noto e frequentato da migliaia d’anni. Vi è passato Napoleone, Carlo Magno, Giulio Cesare e, qualcuno dice, Annibale; ha visto transitare mercanti, soldati, pellegrini e persino i saraceni. La casa Savoia lo ha controllato per otto secoli poi, nel 1860 alla cessione della Savoia alla Francia, è diventato confine di stato fra il neonato Regno d’Italia e la Francia. Con il trattato di pace del 1947 però il confine è stato spostato di molti chilometri verso Novalesa, lasciando ai francesi tutta la parte più alta ed ampia del territorio.
Poco dopo il 1920 uno sbarramento ha ampliato il laghetto per alimentare la nuova centrale idroelettrica di Venaus. Dopo il 1960 sono stati i francesi dell’EDF a realizzare un nuovo e colossale sbarramento che ha ampliato enormemente il lago (perimetro oltre 17 km) e che alimenta una centrale in Francia oltre alla precedente di Venaus: l’acqua viene divisa fra ENEL e EDF.
E’ così che, in una bella mattina primaverile, parcheggiamo sotto alla strada che porta al Piccolo Moncenisio e iniziamo la discesa verso il fondo del lago, spostandoci verso la grande diga.
Camminiamo in un paesaggio strano, su sabbia ondulata e via via scopriamo tante cose curiose. Strade asfaltate sommerse per decenni, con muretti e spallette ancora in buono stato, opere militari demolite con l’esplosivo ma ancora riconoscibili, ponti che scavalcano rii inesistenti. Imponenti ma di difficile comprensione le opere di convogliamento del torrente Roncia verso il primo invaso.
La diga (B: Soave)
Ed ecco la diga del 1921 che presto raggiungiamo: ne attraversiamo entrambi i tratti, che sono ancora in buono stato. Fin qui è stato frequente l’incontro con altri turisti, soprattutto francesi.
A questo punto rinunciamo a proseguire verso la grande diga. Il livello dell’acqua è ormai risalito, non riusciremmo a vedere i resti dell’ospizio. Iniziamo il ritorno sul versante opposto dove troviamo un terreno più faticoso, spessi strati di sabbia talvolta fangosa per la neve che più in alto sta sciogliendo. Notiamo qui la presenza di vaste estensioni di arbusti secchi: quasi certo trattarsi dei rododendri cresciuti prima dell’immissione dell’acqua, oltre 50 anni fa. Foglie e rametti piccoli sono spariti ma le parti più legnose hanno resistito.
Aggirando le infinite anse del versante raggiungiamo finalmente il torrente del Piccolo Moncenisio, lo attraversiamo su di un vecchio ponte riemerso per l’occasione e risaliamo alla carrozzabile che ci riporta al parcheggio.
Insignificante il dislivello, stimati quasi 14 km.
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Dislivello 350 m. Tempo complessivo ore 4,00. Difficoltà E
Si percorre l’autostrada A5 e, all’uscita di Quincinetto, ci si immette sulla Strada Statale della Val d’Aosta in direzione sud tornando verso Ivrea di 4,5 km: in un’oretta di viaggio da Torino si raggiunge Montestrutto 262 m. Si parcheggia su uno slargo della statale o sul piazzale del Frantoio Comunale. La nostra escursione inizia dal centro del paese, si imbocca via Nomaglio e si segue il sentiero con segnaletica CAI n. 881, il “Sentiero del Castagno”. La nostra prima meta è Nomaglio 571 m. ed il nostro cammino inizia da subito su una splendida mulattiera lastricata.
Un tratto della mulattiera
Poche decine di metri di cammino e di dislivello e raggiungiamo una deviazione a sinistra che ci conduce alla chiesa ai piedi del Castello di Montestrutto. Breve ed imperdibile deviazione: attraversiamo un uliveto tra affioramenti di rocce montonate e ci affacciamo sul panorama che ci accompagnerà per tutta l’escursione, un’alternanza di boschi e squarci panoramici verso il grande anfiteatro morenico della Serra di Ivrea.
Siamo nel solco principale della Val d’Aosta creato dal ghiacciaio Balteo: in basso la Dora ed un fondovalle molto antropizzato alternato a vigneti ed a gibbosità rocciose su cui si intravedono campanili e ruderi di fortificazioni e di castelli.
Dopo aver percorso solo pochi metri di cammino ci rendiamo conto dell’eccezionale microclima di questa zona al confine tra Piemonte e Valle d’Aosta. Anche i più distratti percorrendo in auto il fondovalle avranno notato i bellissimi vigneti con i tralicci in legno a pergolato retti da colonne in pietra; qui anche l’olivo è di casa e ci spieghiamo il perché del Frantoio Comunale dove abbiamo parcheggiato l’auto.
Tornati sul sentiero 881 incontriamo poco dopo il bivio con il sentiero 852 per Torre Daniele e Cesnola che coincide con la Via Francigena e dal quale rientreremo al termine del nostro anello.
La nostra mulattiera prosegue oltre che tra i Castagni tra una grande varietà di piante amanti della luce e del sole, robinie, frassini, ciliegi selvatici, pungitopo, bagolari, querce, un insieme di essenze definibile “bosco mesofilo”. Da notare la buddleia le cui bacche a grappolo erano utilizzate per la tintura dei tessuti.
Lungo il percorso incontriamo dei Piloni Votivi che giustificano il nome anche attribuito al sentiero di “Sentiero dei Salmi “. Fino agli anni 60’ del Novecento qui si svolgeva il rito delle “Rogazioni”, processioni devozionali, grande evento per la comunità, che si svolgevano tra canti e litanie invocando la benedizione e protezione dei santi raffigurati. Così al Pilone della Lisetta si pregava Santa Marta (protettrice delle casalinghe e delle cuoche) e San Pietro (protettore di fabbri, mietitori e muratori); al Pilone della Pota si pregava San Bartolomeo (protegge dalle malattie della pelle), Sant’ Antonio da Padova (protettore di fornai e contadini nonché protettore da ogni tipo di contagio), Santa Caterina (protettrice delle lavandaie, delle sarte, delle ragazze da marito, ecc.); al Pilone del Mulino di Sotto oltre la Madonna del Rosario e San Pietro si pregava Santa Margherita (protettrice delle partorienti e degli agricoltori).
Arrivati a Nomaglio 571 m dopo neanche un’ora di cammino, svoltiamo a sinistra sempre sul sentiero 881. Prima una breve deviazione a destra tra le case del paese per vedere “il burnel”, un monolito di pietra pesante varie tonnellate, oggi usato come vasca per una fontana ma probabilmente lavorato ed utilizzato come sepoltura in epoca Longobarda. Per una sosta gastronomica è anche consigliabile la vicina ed onesta trattoria.
Su asfalto, lungo la via Maestra, costeggiamo l’area pic-nic e, superata la chiesa di San Grato (protettore dei campi contro le tempeste) con il suo piccolo cimitero, imbocchiamo via San Giovanni seguendo la segnaletica rosso-arancio. Poche centinaia di metri ed ecco in una splendida radura la chiesa di San Giovanni della metà del 600’. Qui, adiacente alla parete laterale, una scala in pietra ci immette su un sentiero che inizia alle spalle del piccolo edificio.
Adesso la nostra escursione cambia radicalmente aspetto: il sentiero si sviluppa con continui saliscendi tra boscaglia e rocce montonate, raggiunge un pilone Votivo dedicato a San Giuseppe (raffigurato con gli strumenti del falegname) ed a Santa Teresa d’Avila (invocata contro le malattie di cuore). Imperdibile il panorama e le piccole marmitte glaciali sulle ultime roccette prima che il sentiero si immetta nella vegetazione raggiungendo la soprastante strada asfaltata che attraversiamo proseguendo lungo le poche ma evidenti tracce nel prato a monte.
Poche decine di metri e ci immettiamo in un bel sentiero delimitato da muretti a secco che scende verso Settimo Vittone. A causa della scarsa frequentazione di questo tratto potremmo incontrare rovi ed erbacce che ci potrebbe costringere ad aggirarlo per un breve tratto. Dopo poco incontriamo nuovamente la strada asfaltata che seguiamo per poche centinaia di metri, raggiungiamo un gruppo di abitazioni rurali e subito dopo aver superato il cartello stradale con il nome della località Gen giriamo repentinamente a sinistra. Alla prima casa imbocchiamo a destra il poco visibile sentiero sempre segnalato 881 che dopo pochi metri si trasforma in un’altra bellissima mulattiera lastricata che senza più deviazioni ci conduce fino al fondovalle nei pressi di Settimo Vittone.
Al termine della discesa incrociamo la Via Francigena e ritroviamo le indicazioni per Montestrutto lungo il sentiero 852 che percorreremo per chiudere il nostro anello.
Quest’ultima parte del percorso è bellissima. Praticamente pianeggiante si sviluppa tra massi erratici costeggiando i pergolati dei vigneti.
Una grandissima muraglia: pietra e neve. Guardala da una parte come dall’altra: tutta una sfida sportiva. E per chi ci vede solo un luogo inospitale per vivere? Non resta che guardare più in basso, o davanti e di fianco ai propri passi: quello che hanno fatto per alcuni secoli migliaia di persone che sono vissute nelle valli che contornano il Monte. Quello che facevano e speravano gli alpigiani sotterrati con le loro bestie dalla frana in Val Ferret circa quattrocento anni fa. Val Veny: un gran divertimento per i geologi. Lì si infossa la placca europea sotto la placca africana. Se ne vedono i risultati di tanta tribolazione: rocce di diversa conformazione raggruppate dalla raspata gigantesca che screma ciò che è più morbido e stacca e ammucchia da milioni di anni. Tra le fessure della grattata ha trovato sfogo e il tempo di raffreddarsi un grande blocco di granito che ora chiamiamo Monte Bianco. E per la spinta delle placche si sono piegate la valle di Chamonix e la Val Ferret. Risultato che tutto attorno al Monte si trovano rocce di vario tipo, da quelle stratificate che coprivano la placca, a quelle calcaree che costituivano il fondo marino, prima che cominciasse lo scontro, a quelle nuove solidificate in profondità, nelle crepe dello scontro. Tutto ciò ha prodotto suoli ricchi di diversità chimiche e meccaniche e biodiversità. Lago Combal: come altri laghi alpini si sta riempiendo e al momento manca poco a divenire una torbiera. Tutto attorno piante palustri o di ambiente umido: i piumini o pennacchi (eriofori di varie specie) con le morbide cime bianche, contornati da vari tipi di carice (sembrano fili di erba con la punta ingrossata) e a tratti dalle “margherite” della tussilaggine. Lungo i pendii i cespugli di ontano verde, che si rischia di scambiarli per degli strani noccioli, nascondono le parti basse tra le megaforbie (piante erbacee a foglie grandi) cavolacci e cicorie alpine (adenostyles e petasites, i primi, e cicerbita): a rallegrare ci pensano i loro fiori: rosa dei cavolacci e viola, a margherita, delle cicorie. Buoni ultimi, come fioritura, i salici cominciano a riempirsi di batuffoli bianchi vaporosi che spuntano da spighe a punte. Distingue i vari salici la forma delle foglie, il colore dei rametti e le dimensioni: quelli striscianti dei pascoli sono sfuggenti perché molto piccoli, ma se si guarda bene si nota lo stesso tipo di fioritura, in scala ridotta. La Pyramid Calcaire: non dovrebbe centrare niente con una situazione di rocce continentali, invece è lì a dire che c’era un mare tranquillo, sul fondo del quale si depositavano i gusci dei molluschi compattando a costituire un fondo calcareo. Quando iniziò la spinta “africana” il fondo marino si frantumò e si ricompose man mano in un nuovo calcare a pezzi: la Pyramid, appunto, che in qualche modo galleggiò o venne espulsa dalla grattata, come il Monte. Dalla parte opposta, in Val Ferret, abbiamo trovato la corrispondenza nella Testa Bernarda (fino al colle Sapin). Un calcare frantumato, simile nell’aspetto, ma da non considerare uguale, è la “pietra di Gassino” usata per diversi monumenti Torinesi ( Superga, Palazzo Madama e altro). Quella che è la continuazione geografica della Val Veny, la Val Ferret, non lo è per la geologia: la fenditura di scontro tra le due placche continua nella valle Sapin, fino al colle, appunto. I bianchi ammassi di gesso visti tra La Visaille e il lago Combal, si ritrovano nella valle Sapin.
Tra le grasse erbe da pascolo, ormai pochissimo considerate per lo scopo, abbiamo incontrato numerosi tipi di raponzoli, blu, non ancora completamente fioriti e, dove l’erba era più bassa, i vaniglioni o nigritelle che profumavano i dintorni. Dove l’erba era più rada abbondavano le fioriture gialle: creste di gallo, doronico del calcare, qualche arnica e crepis aurea. Un colore a parte lo davano gli astri alpini, margherite blu, incontrate in particolare in Val Veny. In tutti i percorsi non è mai mancata la presenza dei gerani dei boschi, piccoli fiori viola con il centro bianco o, dove erano già sfioriti, il loro piccolo becco di cicogna.
Una presenza discreta, simpatica nella sua altezzosità, poco diffusa è stata la felce-uva o botrychium lunaria, rinvenuta un paio di volte. Stramba, per la concezione di pianta o di felce che conosciamo, alta al massimo una ventina di centimetri, divisa in due rami, uno fogliare e uno “fruttifero”(spore). E’ il ramo con le spore che attira di più l’attenzione: puntato in alto con il “grappolo”diretto al cielo, più alto della foglia dà un aspetto altezzoso ad un esserino quasi insignificante.
I boschi di protezione non hanno un cartello identificativo. Chamonix deve la propria esistenza quasi completamente ad essi: versanti ripidi e freddi, se non fosse il bosco a frenare la neve, sarebbe una valanga continua. Che sia fredda Chamonix, lo testimonia il ghiacciaio di Bossons che, nonostante il ritiro verso l’alto generalizzato dei ghiacciai, continua ad essere incombente sulla cittadina. Abbiamo percorso il versante solatio, ciò nonostante, il bosco di larici e abeti rossi finiva a 1900 metri di quota. Di fronte, sul versante a mezzanotte, il bosco finiva ben più basso. E ad avvalorare la funzione del bosco come protezione efficace, abbiamo notato che poche sono le installazioni paravalanga: lungo il nostro percorso abbiamo incontrato “solo” alcuni muri di pietra a secco, di notevole massa, ad impedire alla valanga di “partire”. La cosa curiosa è che sul versante assolato ci siano gli abeti rossi: il loro versante preferito è a mezzanotte. Una spiegazione può essere che il versante sia stato boscato da tempo immemore e che a suo tempo sia stato colonizzato da larici e latifoglie (c’erano anche piccole presenze di sorbo degli uccellatori e montano, pioppo tremulo e betulla) che hanno fatto da parasole agli abeti germogliati. In seguito gli abeti maturi hanno ombreggiato larici e latifoglie e ne hanno provocato il recesso.
Arrivederci ad una prossima passeggiata guardando lontano… e anche per terra.
Dal webmagazine altitudini.it pubblichiamo “Nascondino au Contraire”, un articolo scritto per il concorso Vagabondi delle montagne da Marina Caruso. Da cinque anni il webmagazine organizza un concorso per blogger di montagna. Blogger è chi si diverte a scrivere sul web, su un proprio sito o ospitato da altri, o, come molti fanno ultimamente, anche solo su una pagina Facebook.
Il concorso ogni anno si distingue per l’argomento scelto e per la forma. In questa edizione il tema i “Vagabondi delle montagne” chiedeva di esprimere, in un’unità multimediale composta da articolo e foto il proprio concetto di montagna come terreno di vagabondaggio, come ricerca della libertà più estrema intesa come quella di non avere una vera meta, liberi da mode e condizionamenti, capaci di liberarsi del superfluo. E i blogger “vagabondi”, provenienti praticamente da tutte le regioni italiane e alcuni anche da fuori Italia non si sono fatti attendere.
Tutte le unità in concorso sono consultabili sul sito altitudini.it Buona lettura!
Tanto i posti dove nascondersi sul Monte Cinto (M. Caruso)
L’irruente voglia di giocare che non riesco mai a tenere a bada mi ha spinta a prendere la decisione di scalare in solitaria in due giornate Monte Cinto e Paglia Orba partendo all’alba di un qualunque giorno di metà agosto. Inesperta, per niente equipaggiata e poco informata. Ma mi trovavo in Corsica per pochi giorni e chissà quando ancora avrei potuto averne qualcuno tutto per me. Le regole erano chiare e semplici: partire da Huat Asco, arrivare ad un buon orario sul Monte Cinto, raggiungere il rifugio Tighjettu dove passare la notte e il giorno dopo affrontare il Paglia
Orba.
Alle 16 del primo giorno ero arrivata sulla vetta del Monte Cinto, in ritardo di parecchio sulla mia tabella di marcia. Mancavano ancora 8 ore per arrivare al rifugio. Avevo poca acqua, le gambe sentivano la fatica, non avevo incontrato più anima viva dalla tarda mattinata. Perdo il sentiero e
inizio a camminare a vuoto, senza punti di riferimento e inveendo contro la cartina approssimativa su cui avevo deciso di fare affidamento. Ero nei guai. E così è iniziato il gioco. Una specie di nascondino al contrario: la Montagna si divertiva a nascondermi mentre io volevo farmi trovare. La conta era finita e io dovevo uscire allo scoperto quanto prima. Se da una parte il gioco mi spaventava, dall’altra questo vagare senza meta contro il tempo mi metteva addosso un’adrenalina che poche altre volte nella vita ho avuto il piacere di provare. Era quello che volevo, no? Vagabondare, silenzi, solitudine. Forse era troppo. E poi non mi sembrava più fosse una mia scelta. Ormai era calata la notte. La Montagna mi offriva i suoi nascondigli in attesa delle prime luci del sole. Ho solamente un sacco a pelo con me. Mi nascondo. Gioco. Il mattino seguente costringo le mie
gambe a proseguire. Parlo a me stessa, canto per tenermi compagnia e farmi forza. Bevo da una pozza d’acqua torbida, non ho potuto resistere. La tana sarebbe dovuta essere il mio punto di partenza, ma a metà della parete nord-est del Paglia Orba, dopo tanto girovagare, decido di seguire
l’unica soluzione sensata che il mio cervello è ormai in grado di formulare: camminare dritta davanti a me in direzione di un paesino che scorgo a valle e che scoprii poi essere Calasima, frazione Albertacce. Le gambe vanno in automatico, gocce di sangue scendono dalle mie labbra spaccate dal sole e dalla sete. Le automobili, le case, un bar. Tre uomini mi corrono incontro.
Tana libera tutti.
L’arcipelago delle Eolie, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco, prende il nome dall’antica leggenda che lo considerava la dimora di Eolo, il dio greco dei venti. Dal 28 maggio al 4 giugno 2016 la Commissione Gite ha replicato per la 3° volta il trekking alle Eolie, organizzato egregiamente da Gianni Lucarelli e Luciano Zanon, condotto con la solita maestria da quest’ultimo e da una validissima guida trentina, Genny, esperta geologa nonostante la sua giovane età (26 anni), carina, simpatica e chi più ne ha più ne metta.
Il cratere sommitale di Vulcano
Il gruppo, di 31 soci Cai Uget, era ben assortito e si è amalgamato col passare dei giorni. Già durante il viaggio in aliscafo (dopo aereo e pullman), passando dall’isola di Vulcano, abbiamo sentito un marcato odore di zolfo, tipico delle emissioni vulcaniche. E questo si è confermato il carattere dominante dell’arcipelago, grazie a ben 2 vulcani attivi, Vulcano appunto e Stromboli, nonché grazie alla conformazione vulcanica di tutte le isole, con numerosi crateri ora spenti. Infatti la 1° escursione è stata al Monte Pelato di Lipari, dove in epoca altomedioevale s’è avuta una grande eruzione che ha lasciato evidenti tracce: il sentiero percorso in salita è tutto su ossidiana, roccia vetrosa nera traslucida che è stata emessa dal vulcano e grazie alla quale l’isola s’è sviluppata fin dal Neolitico. E di origine vulcanica è anche la pietra pomice che veniva estratta fino a poco tempo fa dalle cave del M. Pelato, costituendo una delle poche industrie dell’arcipelago, poi esauritasi.
Fiamme e fumi sullo Stromboli
Eppure non è del tutto spenta l’attività vulcanica dell’isola di Lipari: nella parte occidentale, da noi esplorata verso la fine del trekking, abbiamo trovato delle fumarole. Da alcune fenditure del terreno escono esalazioni molto calde di vapore acqueo, zolfo e anidride carbonica. Inoltre, sempre in zona, alle Terme di S. Calogero, c’è una sorgente di acqua calda con temperature di oltre 35°, sfruttata già dagli antichi Romani. Invece a Vulcano c’è molto di più. Vulcano, che ha dato il suo nome a tutti i vulcani del mondo, è ancora in attività. L’ultima eruzione, risalente al 1888, ha modificato tutto il paesaggio e potrebbe ripetersi in qualunque momento. La salita al cratere è esteticamente molto bella: già originali le forme bizzarre degli spuntoni rocciosi della costa, poi salendo al di sopra del bosco si attraversa un’incredibile tavolozza di colori, dal giallo dello zolfo al verde del silicio al rosso del ferro, che risaltano sul blu intenso del mare. Scenario indimenticabile dell’enorme cratere, che abbiamo percorso interamente fino alla cima e poi giù, armati di mascherine, tra fumi, vento e calore che ci hanno fatto sentire il “respiro” del vulcano. Mi è piaciuto immensamente. “Iddu: il faro del Mediterraneo” si riferisce invece allo Stromboli, il più attivo dei vulcani delle Eolie e non solo. Ha 100.000 anni d’età e si eleva imponente dal fondo marino per 2400 m, di cui 924 sopra il livello del mare. Per andare in cima al “Pizzo”, sull’orlo dell’antico cratere Neostromboli, occorre farsi accompagnare da una guida alpina e munirsi di casco e pila frontale, per poter godere dell’incredibile scenario notturno offerto quotidianamente dal vulcano, particolarmente affascinante col buio, e scendere poi dalle ripidissime ceneri vulcaniche, in cui si affonda come fosse neve. Lo Stromboli ci ha dedicato uno spettacolo superaffascinante sulla “Sciara del fuoco”: dapprima esplosioni a base di grandi fumate, poi eruzioni violente e rumorose di fiammate e lapilli, riprese con entusiasmo crescente dai nostri instancabili fotografi! E poi giù, quasi alla cieca, per più di 900 m di ceneri. Bello, anche questo indimenticabile. Abbiamo continuato a seguirne l’attività da lontano anche nei giorni seguenti, al di sopra della superficie marina, dalle altre isole. Affascinante è stata anche Salina, l’isola più verde dell’arcipelago, formatasi dall’unione di 2 isole vulcaniche vicine, poi saldatesi grazie all’attività di numerose bocche vulcaniche. Memorabile l’escursione alla “Fossa dei Felci”, la “vetta” delle Eolie (962 m) raggiunta su un sentiero all’ombra di bellissimi alti eucalipti, con un repertorio notevole di flora endemica: ginestra del Tirreno (Genista tyrrena), citiso delle Eolie (Cytisus aelolicus), fiordaliso delle Eolie (Centaurea aeolica) dalla ricca tavolozza cromatica. La discesa attraverso un fitto bosco fiabesco, su sentiero ripido, sassoso, scalinato in modo sconnesso e a tratti disagevole, è stata rallegrata da un exploit di Sergio Colaferro, che si è esibito in una canzone abruzzese spassosa, facendoci poi cantare a turno una lunga filastrocca mentre scendevamo un’infinita scalinata. Ogni tanto si aprivano stupendi belvedere, da cui potevamo ammirare l’instancabile attività dello Stromboli, che si vedeva in lontananza sul mare azzurrissimo. Ci stava salutando…
Non c’è niente di meglio quando la storia s’intreccia con un ambiente naturale superbo.
L’idea a Luciano arriva dalla famiglia: perché non fare una gita sociale sui sentieri della Grande Guerra? Detto, fatto: andiamo sul Pasubio, nelle prealpi vicentine, dove si è consumato uno degli episodi più tragicamente importanti dell’intera storia dell’umanità: la Grande Guerra.
Percorrendo la Strada delle 52 Gallerie
Partiamo in 35 da Torino e dopo aver viaggiato tutta la mattina arriviamo a Bocchetta Campiglia (1219 m.), partenza della nostra camminata. Percorriamo la “strada delle 52 gallerie”, un sentiero escursionistico che ci porta fino al Rifugio Generale Papa a Porte del Pasubio (1928 m.). La strada è un’opera ingegneristica che costeggia la montagna, in una zona totalmente rocciosa, lungo quello che un tempo era un camminamento di guerra realizzato dal nostro esercito per portare armi e rifornimenti verso la cima del Pasubio senza essere esposti al fuoco nemico. All’imbocco del sentiero troviamo dei pannelli esplicativi che raccontano la storia di questo territorio. In breve arriviamo alla prima galleria, realizzata dal marzo al dicembre 1917.
Arcobaleno sulla Strada degli Scarrubi
La lunghezza complessiva della strada è di circa 6.300 metri, di cui circa 2.300 in gallerie di larghezza minima 2 metri e 20 e pendenza media del 12%. Le gallerie furono scavate seguendo la naturale conformazione della montagna: alcune lunghe una decina di metri, altre oltre 300. Non servivano solo a salire in quota ma diventavano depositi di munizioni e punti di controllo e di attacco.
Mentre le percorriamo ci sembra di entrare sempre di più nel cuore della montagna. Usciti dall’ultima galleria ci troviamo di fronte al Rifugio Generale Achille Papa (1935 m.), la nostra meta per il pernottamento, giusto in tempo per evitare un bell’acquazzone. Renato, il gestore, ci sorprende con la cena in cui spiccano i bigoli al ragù d’anatra e la torta di nocciole: davvero un rifugio a cinque stelle! La mattina ci raggiunge Piero, della sezione Cai di Schio; sarà la nostra guida storica per visitare la “Zona Sacra”, un museo all’aria aperta di trincee, cunicoli, gallerie, ricoveri e opere commemorative.
Il primo monumento che incontriamo è l’Arco Romano, edificato però in epoca fascista, con il cimitero della Brigata Liguria, il reparto comandato dal Generale Achille Papa, il cui motto era “Di qui non si passa”, frase riportata in ferro battuto su di un artistico supporto metallico all’entrata a monito imperituro.
Osservati da alcuni camosci, proseguiamo verso la “Selletta del Comando” dove gli austriaci quasi riuscirono a sfondare la nostra “prima linea”. Seguendo una trincea arriviamo alla località “Sette Croci” che ricorda una faida del XV secolo tra pastori finita nel sangue. Ora il sentiero inizia a salire deciso verso il Dente Austriaco (2203 m.) dove era il fronte degli imperiali. Piero ci racconta della guerra di mine e contro mine, della galleria Ellison che partendo da qui e passando sotto la selletta tra i due Denti, arriva sotto quello italiano dove fu fatta brillare la carica di 50 tonnellate che lo sconvolse.
Purtroppo non è una bella giornata, ma il vento gelido apre ampie schiarite su un panorama bellissimo. Questo freddo pungente ci può solo fare immaginare le condizioni ostili che i soldati di entrambe le fazioni hanno sofferto per tutto il conflitto. La vita sul Pasubio superò ogni umana sopportazione: “il vivere fu ben più duro che morire”.
Percorriamo la selletta che lo separa di pochi metri dal Dente Italiano (2220 m.) salendo in silenzio e commozione.
Sul Palon, la massima elevazione del Pasubio (2236 m.) nei giorni più limpidi lo sguardo arriva fino alla laguna di Venezia: oggi non è uno di quei giorni, ma la nostra vista arriva comunque fino alle Pale di San Martino nelle Dolomiti.
Dopo la foto di gruppo rientriamo verso il rifugio, dove ci congediamo da Piero e iniziamo la nostra discesa verso l’appuntamento con il pullman, percorrendo la strada degli Eroi. La sua denominazione trae origine dalle targhe commemorative dedicate ai quindici decorati con Medaglia d’Oro al Valore, fissate sulla parete rocciosa lungo i due chilometri che collegano il Rifugio Papa alla Galleria d’Havet.
Foto di gruppo sul Monte Palon, Zona Sacra
E’ stata una gita bellissima in compagnia di tanti amici che hanno condiviso forti emozioni nel ricordo dei nostri nonni e di tutti quelli che hanno combattuto e sono morti per la nostra libertà e per il nostro futuro.
La leggera discesa che percorre l’intera l’Engadina fino al confine austriaco è rasserenante e di buon auspicio – non è soltanto la via più breve. E tuttavia le persone che passeggiano beatamente sui bordi del lago di Sankt Moritz esprimono il preciso e non lieve segnale di un intero anno già trascorso per me. In un paese che ha il nome di Guarda stanno appesi nella via cartelli d’affitto: Zimmer mit Piano. Sarà proprio questo il significato, che in stanza si troverà anche un pianoforte accordato? Se sì, evviva. Durante la breve escursione inserita oggi durante il trasferimento verso il Tirolo mi accorgo di un fazzoletto che è caduto dalla tasca; rimango più di un attimo incerto sul da farsi, se tornare indietro o abbandonare sul sentiero forse l’unico residuo indebito in tutta l’Engadina: poi prevale lo scrupolo. Nel frattempo il gruppo di camminatori avvista due presenze che volteggiano sulla verticale: nibbi, falchi, poiane? Io non partecipo alla discussione ornitologica (anche perché non vedo nulla) ma nel ridiscendere i cinquanta metri per il mio recupero fingo il gioco che siano i temuti droni della Confederazione, incaricati del controllo ecologico.
Foto di Eugenio Masuelli
Dopo tanta vastità la valle ora si restringe; sta terminando l’Engadina: comincia, per me e per qualcun altro ora in ciò fortunato, l’aspetto nuovo del viaggio. Il passaggio del confine è soltanto emotivo – non scorgo nessuna interruzione, ma vedo la nuova bandiera senza croce. 2 2 Si svolta verso sud, con un certo intimo stupore che non ha nulla da spartire con le conoscenze geografiche, e lasciato il corso dell’Inn si risale la lunga valle laterale di Oetz. L’isolato borgo di Vent, la destinazione del viaggio, sarà la base per le future escursioni. L’albergatrice Katrin per l’occasione ha indossato un costume tirolese che molto le dona, pare indissociabile dalle sue linee snelle e fini. Il paese naturalmente si legge Fent, ma il gruppo italiano creerà per i sei prossimi giorni un’isola linguistica felice in cui quel nome rimarrà invece a ricordare il vento dei ghiacciai. 3 L’indomani comincia in salita anche prima di mettere gli scarponi. La stanza è la 002 e ne affido le chiavi a una compagna, perché le appoggi a nome mio alla reception dell’albergo. Nella mente la 002 è intanto diventata, per contaminazione con altri viaggi o per motivi che uno scavo nel mio profondo potrebbe rivelare, la 202 – la quale alla reception non è appesa. Faccio impazzire l’affidataria della chiave, coinvolgo anche Katrin, salgo con cuore inquieto sulla seggiovia per Stablein lasciando il problema insoluto: solo sopra i 2500 metri i numeri torneranno a posto nella mia testa e potrò chiedere scusa. Il mio pare uno strano mal di montagna, che funziona alla rovescia guarendo con la quota. Il rifugio Breslauer è un condensato di storia: costruito in terra austriaca da escursionisti prussiani alla fine dell’800, reca 3 il nome di una città che oggi è in Polonia e l’anno prossimo sarà capitale europea della cultura. All’interno è difficile spiegare alla ragazza che si vorrebbe un infuso e non un tè: alla fine arriverà soltanto l’acqua calda – d’altra parte uno dei motivi della scelta dei luoghi non era gustare intorno a sé un’altra lingua, prevalentemente incompresa? La sera visitiamo il piccolo cimitero, accessibile nel recinto attorno alla chiesa – non più di una ventina di tombe, curate di addobbi e di fiori. Le scritte indicano i pochi cognomi del paese, tra cui quello che intitola il nostro albergo. Helga e Otto – trentuno anni tra le due nascite, ventuno tra le due morti – stanno di nuovo insieme; sul lato della strada a far da guardiano c’è il postino Pirpamer che era guida alpina; riesco a tradurre l’epigrafe: “Le montagne sono state tutto, la mia culla, il mio mondo e la mia strada verso di Te”. L’ingenua retorica dei puri è l’unica valida. In albergo il via vai dinnanzi al libero erogatore di birra, vino, Apfelsaft e soda è ancora intenso: ed è con sollievo, auspicando quiete notturna nei corridoi, che osservo le sue lucine spegnersi alle dieci di sera precise. 4 Si sale oggi verso i ghiacciai più famosi, la cui vista gigantesca non deluderà nemmeno chi ne ha visti in vita sua più di chi scrive – nascosta dietro molti di questi c’è l’Italia. I sentieri sono tracciati in modo ineccepibile, a ogni bivio ci sono paline gialle che vengono fotografate come testimonianze delle fatiche e delle altitudini: accanto a una di queste – indica la via per il Gaisbergferner – è rimasta 4 abbandonata la borraccia nera. Dal momento in cui me ne accorgo (questa volta non sarebbero da ripercorrere soltanto cinquanta metri, e la fatica della salita è stata ben maggiore di quella della passeggiata in Engadina) chiedo a tutti i camminatori che incrocio in discesa di dare un’occhiata cammin facendo.
Spazi. Foto di Eugenio Masuelli
Troverò ovunque gentilezza in varie lingue: alla fine del pomeriggio un gruppo di ragazzi mi riconosce da lontano, arresta la corsa, mi chiama: gli dispiace, hanno guardato, non l’hanno ritrovata. Manterrò per tutta le settimana le speranze: qui prima o poi tutto si ritrova, come la vicenda del vicino Similaun insegna. 5 Il giovedì si sale al celebre rifugio Ramolhaus, il dominatore delle guglie. Nel briefing la gita è stata annunciata come molto faticosa, ma viene detto che esiste la possibilità di fermarsi in un pianoro panoramico prima della meta: mi pongo quello come traguardo. Dopo quattro ore di salita sto ancora cercando il pianoro, ma intanto vedo già incombere la punta sulla quale sta inerpicato il rifugio in una posizione straordinaria da castello di Nosferatu; arrivo così alla destinazione finale. La fatica non mi impedisce di verificare, prima ancora di andare in bagno, che il Ramolhaus (3006 metri di altitudine) è rifugio di Amburgo e della Bassa Elba: anche questo un sogno di montagna realizzato da tedeschi di grandi pianure, e la visuale che da qui si gode basta del tutto a spiegarlo.
Foto di Eugenio Masuelli
Al centro dei ghiacciai domina il Karles Spitze che – dal lato sud – si chiama soltanto Cima di Quaira, come spiega la meno emotiva cartina geografica. 5 All’interno del rifugio incontriamo un signore sottile di Francoforte che aspetta la zuppa di verdure. Sentendo la nostra lingua, interviene con cortesia: ama l’italiano, lo studia. Conosce, come accade a me con il tedesco, parole e frasi anche complesse e poi si ferma drammaticamente davanti a quelle più semplici e fondamentali: siamo in qualche modo simmetrici. Mi spiega che i ghiacciai solo in Austria si chiamano Ferner anziché Gletscher, dal tedesco Firn che significa neve: rimane il dubbio su questa sorta di confusione linguistica tra la neve e ghiaccio. Fuori, sulla terrazza panoramica, sono intanto in corso le foto di gruppo: io perdo la cerimonia a causa di quella conversazione ibrida scambiata nel profumo di zuppa – ma è forse giusto che si celebri solo chi già dall’inizio intendeva arrivare al termine della salita, e non un vincitore inconsapevole. La sera nella piccola hall dell’albergo si assiste alla consueta scena di persone di varie età installate sulle poltrone per chattare al telefonino e capitanate da una robusta ragazza austriaca dalle clamorose gambe nude, presenza fissa in quelle ore – il tutto nella stonatura garbata del solo lettore cartaceo, mio coetaneo, di un romanzo che non conoscevo, di un emulo (così dice il risvolto di copertina) di Joseph Roth: autore quindi consono ai luoghi. Succede però che un giovane compagno di viaggio venga improvvisamente abbandonato dalla batteria del suo I Phone, e lui passi con disinvoltura a un libretto di filosofia che prima faceva solo da sostegno al telefono: sarà pure una seconda scelta, la statistica dei presenti non si ribalta ma dal mio punto di vista migliora. 6 Di notte, nella stanza silenziosissima, mi accade un sogno in cui si ripete ossessivamente la frase interrogativa “Vox clamans in deserto, aut vox legens in extremo”? – come a voler discernere, forse, tra l’eccesso di chi profetizza troppo presto e di chi apprende invece troppo tardi. La voce tormentosa, un messaggio non di superficie, è stata certamente abilitata dalla stanchezza e dagli effetti della tachipirina – senza escludere la squisita mescola personale di birra, soda e succo di mele che, grazie all’erogatore delle libertà, aveva concluso la mia serata. 6 Oggi si annuncia una camminata più tranquilla. Il bus ci ha trasportato a oltre 2000 metri di quota, alla frazione più alta di Soelden, composta di alberghi modernissimi che d’estate sono disabitati. Si percorre per due ore il sentiero che prende il nome da un tal dr. Bachman, fino al laghetto nascosto in una conca. E’ lì che ci raggiunge la notizia della perdita, avvenuta due ore prima a Torino, di un’amica preziosa di molti di noi, che solo da poco tempo si era scoperta malata. Quella notizia e la vista del lago Peerlsee rimarranno a lungo unite nella mia memoria. 7 La sera del penultimo giorno il tempo peggiora e la temperatura si abbassa: un segnale forte ne è la robusta ragazza della hall che ora chatta indossando i pantaloni lunghi. Katrin ci presenta i suoi figli. I due gemelli dodicenni aiutano il minuto cameriere slovacco a servire in tavola, e stasera 7 indossano la versione maschile del costume contadino, con le bretelle incrociate dietro. La bimba invece è ancora piccola e viene tenuta in braccio da Katrin, che confessa come tutti nella famiglia la trattino come una piccola principessa: colei per cui tutto si fa, a cui nulla si nega. Quando chiedo alla bimba il suo nome lei si volta con uno scatto velocissimo da animaletto, nascondendo e schiacciando il viso contro il petto della mamma: un’improvvisa timidezza infantile, o l’impatto con il mio strano parlar tedesco? Quei figli, afferma Katrin, saranno la quinta generazione di albergatori: lei non ha dubbi, sembrerebbe, sulle loro future scelte. Si fanno gli ultimi acquisti nel mondano centro di Soelden, dove il fascino del non essere capiti svanisce poiché tutti parlano inglese: una nostra giovane signora ha acquistato un grembiule da cucina con scritte in gotico e bei fiori montani – rimane perplessa quando le viene raccontato da insinuanti voci maschili che l’uso è quello di non indossare null’altro sotto, mentre si gira la polenta. 8 Il bus lascia Vent. L’albergatrice in piedi sotto l’arco fiorito saluta a lungo con la mano: un’immagine da ricordare, da non sprecare con una fotografia. L’escursione finale è di quelle che promettono emozioni durature: si scavallerà il Timmelsjoch (il Passo del Rombo) per scendere in Italia con una discesa a piedi di mille metri. I dépliant descrivono il Timmelsjoch come “la porta segreta verso il Sud” – dove nel “nach Süden” c’è quanto un cuore 8 nordico sa esprimere di struggimento, di desiderio e di sogno, non esenti da invidia e diffidenza verso chi senza alcun merito ha in sorte di passare l’intera sua vita in quel mondo dei climi dolci e dei mari calmi. Il bus sale la strada ripida, che ogni tanto – come i cartelli avevano avvisato – è attraversata da mucche nere dalla coda bianca: i grandi occhi scrutano diffidenti soprattutto le motociclette e i centauri. Esattamente sullo spartiacque, sotto un’aquila di bronzo un’epigrafe recita: “Ciò che l’amicizia unisce la politica non può dividere”. Nella frase, da sottoscrivere in ogni valico e cresta e pianura di confine, non sfugge tuttavia l’implicito ruolo negativo della politica, almeno in questi luoghi: piacerebbe poter affermare che la buona politica sappia, a sua volta, anche riunire ciò che l’inimicizia ha diviso. La discesa a piedi dopo il Passo è aspra, e inizia nel freddo pungente sotto la pioggia: l’ordine, che risuona nella stretta gola montana, di usare i copri zaino regala un brivido di avventura come si dovessero inastare le baionette. E tuttavia, soltanto pochi minuti dopo il momento intimamente epico, lo scroscio dalle nubi basse e i rivoli scorrenti ovunque sul sentiero fanno nascere stimoli che polarizzano su un solo bisogno primario il camminatore non più giovane, inibendogli per un lunghissimo quarto d’ora ogni prospettiva più ampia e più alta di quella di un cespuglio possibilmente amichevole. Le mucche, forse già dell’altra nazionalità, fanno risuonare di campanacci le rupi mentre il pastore magrissimo corre su e giù senza parlare, preoccupato della nostra presenza: qualcuno insinua che lui non tenga con sé un cane in aiuto perché la compagnia gli sarebbe eccessiva. 9 Dopo alcune ore di discesa si è giunti in Val Passiria – è Italia, ma nessuno se ne accorge, né dalla lingua parlata né dalle bandiere esposte intorno a case pulitissime: vecchia storia di confini probabilmente ingiusti, frutto di guerre antiche e per certi versi ancora non terminate. La speranza di futuro viene offerta dalla denominazione del sentiero che stiamo percorrendo: E-5 è un “Itinerario Europeo”. 9 Il pasto viene consumato a Rabenstein seduti sull’asfalto e sotto gli ombrelli aperti a modo di tenda: per ulteriori conforti occorrerà essere trasportati più sotto, dove accanto al museo di Andreas Hofer mature signore dalle generose scollature – il solo aspetto in comune con Katrin è il costume tirolese, ma questa contaminazione un po’ mi dispiace – serviranno ai più fortunati di noi strudel e alti bicchieri di birra, magistralmente schiumati. A Merano – l’imperatrice più amata del mito asburgico soleva passeggiarci a lungo, e Kafka vi scriveva alcune delle lettere a Milena – la pioggia batte forte sul parabrezza dell’autobus rendendo tutto invisibile e confondendo le epoche. L’ultima scritta in tedesco compare sui pannelli luminosi dell’autostrada prima di Trento e avvisa di code a tratti: con la parola Stau l’esotico ci lascia definitivamente. Nell’attenzione emozionata di chi, per il mestiere di un tempo, sa quanto ogni faticosa complessità organizzativa sfugga al pubblico che beatamente ne fruisce, si assiste all’appuntamento al casello per la sostituzione degli autisti, obbligatoria a fronte dei tempi di guida (mentre si scendeva a 10 piedi dal Timmelsjoch l’autobus aveva compiuto il lungo giro dal Brennero – la porta verso il Sud che non è segreta). Il resto è soltanto un ritorno veloce tra saluti anticipati, con il pensiero rivolto – forse per esorcizzare la fine dell’evasione – ai bagagli che saranno da scaricare sotto l’acqua torinese. A me, nel ritirare la valigia, viene improvvisamente alla luce il numero 202: il giorno del mio compleanno. Di tutto ciò io so che scriverò; come pure so che, anche nell’ultima delle stesure, alcune delle sensazioni più forti rimarranno inespresse: c’è sempre qualcosa che teme di rimanere immutabile su una qualche forma di carta – nemmeno se scrivessi soltanto per me stesso.
Dedico queste piccole visioni di cammino al ricordo di A. B.
Salendo la scala granda, foto di PfbErba abbondante, ma passaggio pulito. Foto di Pfb
Mollia è un piccolo comune valsesiano. Il capoluogo (880 m), attraversato dalla strada provinciale per Alagna, è circondato da versanti alti e ripidi; sul lato solatio si trovano alcune frazioni e, più in alto, numerosi alpeggi. Una fitta rete di sentieri univa queste realtà, un tempo popolose, situate fra gli 800 e i 2000 m di quota. In particolare le frazioni Grampa (956 m) e Piana Fontana erano collegate al sovrastante alpeggio Orticosa (1397 m) da una ardita “accorciatoia” dal nome significativo: la Scala Granda, che consentiva ai montanari di evitare un lungo giro riservato ai carichi più grevi e alla transumanza.
La Scala Granda, che definirei esempio di ingegneria spontanea, segue un tracciato decisamente ripido che si insinua su cenge e spaccature di balze rocciose alte decine di metri. I salti, altrimenti impercorribili, vengono superati con vere e proprie scalinate in pietra, da cui il nome del sentiero.
L’abbandono degli alpeggi e dei coltivi avvenuto nel corso del ‘900, ha portato a trascurare e spesso dimenticare capolavori come questo. Frane, smottamenti e l’inesorabile ritorno dei boschi avevano quasi nascosto la Scala Granda ma un gruppetto di volontari, di cui fa parte Claudio Romagnoli, attuale sindaco di Mollia, lavora per ridare agibilità ai sentieri del suo territorio. Uno degli ultimi interventi è stato effettuato proprio sulla Scala Granda nella primavera 2014. L’itinerario è ora fruibile in sicurezza anche con l’acqua dei rii abbondante.
Abbiamo approfittato di un incontro con Claudio per porgli alcune domande. D: Cosa vi spinge a questi lavori di riscoperta e ricupero?
E’ importante e doveroso mantenerli, nel rispetto dei sacrifici compiuti dai nostri predecessori e per far conoscere agli escursionisti la bellezza del camminare su sentieri storici. D: Il vostro intervento volontaristico trova appoggio negli enti pubblici (comuni, regione) o da parte del CAI?
I finanziamenti di queste opere sono della Comunità Europea attraverso il “G.A.L. Terre del Sesia”, emanazione della Comunità Montana. D: Questi sentieri riscoperti e ripristinati confluiranno nel catasto regionale sentieri o sulle pubblicazioni del CAI?
Sì, vengono segnalati dai volontari e inseriti nel catasto a cura della Sezione di Varallo Sesia del CAI. La Scala Granda porta i numeri 282 e 282a.
Grazie Claudio complimenti e buon proseguimento.
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