Tutti gli uomini di Mara

Il trofeo Mezzalama è una competizione internazionale di sci alpinismo che si svolge ogni due anni sul Monte Rosa. E’ nato negli anni 30 del secolo scorso, a memoria di Ottorino Mezzalama, uno dei pionieri dello sci alpinismo in Italia, nonché socio dello storico Ski Club Torino, il primo Ski Club d’Italia.

Dopo una serie di interruzioni pluridecennali, nel 1997 la competizione è ritornata con continuità e con frequenza biennale, sfruttando il sempre crescente sviluppo degli sport di fatica in ambiente montano, e forse contribuendo anche ad alimentare questa nuova tendenza.

Le peculiarità che  rendono unico il Trofeo Mezzalama sono il fatto che si svolge in ambiente di alta montagna, per buona parte intorno ai 4000 metri di altezza, ed in squadre di tre componenti per ragioni di sicurezza.

Viene denominata la maratona bianca, e come le maratone delle grandi città vede sulla linea di partenza i migliori professionisti insieme con gli sportivi della domenica, seppur ben preparati.

Siamo partiti da Cervinia alle 5,30 di mattina del 22 Aprile e siamo arrivati a Gressoney dopo un percorso di 45 km e circa 2800 metri di dislivello in salita e 3000 in discesa; passando dal colle del Breithorn, poi dalla punta del Castore, attraversando una bellissima cresta aerea, e siamo giunti a Gressoney dopo avere scavalcato l’asperità finale del Naso del Lyskamm.

Un percorso mozzafiato e “spaccafiato”, che per essere affrontato richiede preparazione ed esperienza in montagna. Tutto il tratto in quota viene affrontato dai componenti di squadra legati in cordata, in condizioni che richiedono affiatamento e forte spirito di collaborazione.

Veniamo ora alla mia esperienza.

Per me il Mezzalama 2017, pur essendo il quinto, è stato unico ed irripetibile. Nel 2007, in occasione della mia quarta partecipazione, avevo pensato che sarebbe stata l’ultima. L’età che avanza, la famiglia che cresce e gli impegni di lavoro. Queste situazioni cambiano notevolmente gli scenari, rendendo più difficile preparare questo tipo di competizione.

Poi è successo l’imprevedibile: mio cognato Andrea ha sparigliato le carte invitandomi a farlo insieme a lui ed a suo papà Livio, nonché mio suocero.

Fin da subito ho avuto il supporto di mia moglie Mara, che ha mostrato grande entusiasmo nell’appoggiare questa iniziativa che impatta sull’organizzazione famigliare in quanto comporta impegno ed allenamento nei mesi precedenti. E’ stata questa la vera fatica, più che quella del giorno della gara. Considerato il lavoro ed i figli ancora piccoli, solo una grande motivazione ed un profondo volersi bene ha potuto sostenere questa decisione. Non è stato il mio Mezzalama ma il nostro Mezzalama.

Gli allenamenti nella valli di casa

Ho avuto un pretesto unico per vivere ciò che mi piace tantissimo: la montagna nella sua dimensione dell’attività fisica e della condivisione di momenti speciali con le persone a cui vuoi bene. Sono stati mesi vissuti con impegno e spensieratezza, scorrazzando per le montagne con un chiodo fisso in mente: partecipare con successo al Trofeo Mezzalama. Ed in questa competizione, per uno sci-alpinista della domenica, il successo coincide con il concludere la gara, senza particolari velleità di classifica.

Il 22 Aprile, giorno della gara, è stato unico. Nella prima parte, che si è svolta in parte al buio, l’unica preoccupazione era di arrivare al colle del Breithorn entro il cancello orario di tre ore, pena l’esclusione dalla gara. Lavorando di squadra e sostenendoci a vicenda abbiamo centrato l’obiettivo cronometrico per nulla scontato. Poi siamo ascesi fino al Castore, calzando i ramponi e legati in cordata. Nello spettacolare tratto in quota le emozioni hanno preso il sopravvento: insieme ai miei compagni abbiamo dedicato un pensiero ad Ugo, un caro amico con cui ho avuto l’onore di fare la stessa gara nel 2003, che ora non è più con noi. Ho poi pensato a tante persone a cui ho voluto bene e con cui ho passato tanti bei momenti in montagna, che ora non ci sono più. Pensieri accompagnati da lacrime di commozione. Emozioni positive; come se questa perfezione di ambiente circostante, di fatica, di comunione con i compagni, fosse una condizione di maggior vicinanza a chi non c’è più e mi manca ancora tanto.

Un momento della gara

Seppur nei dubbi della fede che accompagnano tutti, difficile pensare che ciò di bello che ho vissuto sia solo frutto del caso e non ci sia il disegno di un Dio che veglia su di noi e ci rende liberi di vivere la vita con pienezza.

Tutti gli uomini di Mara: da Sinistra Andrea e Livio Berta, Luciano Peyron e il piccolo Giacomo.

Poi la lunga discesa, prima legati e poi sciolti dal vincolo della cordata nella parte finale. Quale emozione l’arrivo, dove alcuni parenti e molti amici del CAI Uget e dello Ski Club Torino, per cui abbiamo gareggiato, ci aspettavano. Quale regalo vedere mio figlio Giacomo che anche dieci anni fa mi aveva aspettato a questo traguardo, e che ora è motivato ancora di più ad andare in montagna con me. Unica anche la gioia di Mara che ha visto passare insieme la linea del traguardo fratello, padre e marito.

di Luciano Peyron

The Last Desert

La serie delle gare 4Deserts è considerata una delle competizioni di corsa più dure al mondo. La serie consiste in quattro gare, ognuna da 250 km:  Atacama Crossing (Cile), Sahara Race (Giordania), Gobi March (Cina), The Last Desert (Antartide). Si corre su terreni di gara durissimi in completa autonomia, vengono fornite solo acqua e una tenda. Le ho completate in quattro anni, dal 2013 al 2016, l’ultima in Antartide.

Se dovessi dire nel modo più sintetico ed essenziale a cosa mi sono serviti questi anni di folli corse, risponderei che mi hanno permesso di conoscere ed apprezzare la spinta interiore che pochi di noi hanno così radicata dentro, di ricercare elementi che potrebbero essere considerati singolarmente di totale inutilità ma che formano il carattere, le ambizioni e il coraggio. Discorsi, sogni, progetti restano dentro di me grazie all’adrenalina e alle endorfine rilasciate durante la corsa.

Antarctica, The Last Desert. Il “last” mette tutto in prospettiva assoluta, traccia una strada da percorrere, lancia un sogno. Quid ultra? La corsa in sé non è la più dura al mondo, esiste di molto peggio, ma per me è stata un raggiungimento di una cima, a lungo pensata.

Una delle cose che più mi appassiona dei nostri sport avventurosi è l’immaginazione che precede un risultato. Arrivare in cima al Monte Bianco per me era un sogno, un sogno che mio padre non ha potuto raggiungere per il maltempo, lui voleva continuare, sapeva che se non avesse raggiunto la cima quel giorno, a 66 anni, non l’avrebbe più raggiunta, ma gli amici lo hanno fatto ragionare e tornare indietro.

Fino a quando non sei lì, non sai, e quanti film si fa la nostra mente prima di arrivare in cima? Come immaginiamo la capanna Vallot prima di entrarci, le Bosses, quali sensazioni avremo in cima? Il nostro cervello è mostruosamente potente, le sensazioni che registra in momenti particolari sono indelebili, tatuaggi neuronali. Il dolore e la fatica li fissano, indescrivibili. Fotografie, numeri, racconti non possono restituire certe sensazioni.

La preparazione al quarto deserto è durata un anno, mentre andavo avanti indietro da Modena, mentre nel week end mi svegliavo, andavo a correre, stavo con le mie bellissime donne, andavo di nuovo a correre, andavo a dormire. Poco spazio per altro, a parte il sogno Antartico. Arrivare in Antartide richiede pazienza, un giorno e mezzo di volo, qualche giorno a Ushuaia e due giorni e mezzo di navigazione in uno dei mari più tempestosi al mondo. Per correre 250 km, in sei giorni.

Qualche corsetta al sole per ambientarsi… (ph Myke Hermsmeyers)

Immaginavo una gara dura, soprattutto perché correndo in assetto competitivo, la testa della competizione vedeva atleti professionisti di tutto il mondo alla linea di partenza. La strategia si definisce a tavolino qualche mese prima e poi si esegue, dopo i primi giorni la stanchezza diventa così elevata che non si può più ripensare.

Qualche corsetta di allenamento sotto la neve, per ambientarsi… (Ph Myke Hermsmeyer)

Il primo giorno si corre a King George’s Island. Ci imbarchiamo sugli Zodiac e dopo un breve freddissimo tragitto sbarchiamo sulla costa.

Andrea Girardi sbarca sullo Zodiac (Ph Myke Hermsmeyer)

Corriamo tra la base antartica cilena e quella cinese, passando da quella russa, in un anello da 11km. La neve è molle, in alcuni punti marcia e profonda, certe salite non finiscono mai, verso la base cinese si corre invece su una strada dove scorrono grandi rivoli di acqua. I piedi sono marci e freddi, la strategia di preparazione aveva previsto lunghe corse con i piedi bagnati e freddi, per preparare la pelle. Arrivo secondo pari merito a Filippo (CH), davanti Kyle (US), dietro Tommy (Taiwan), con circa 88 km e tredici ore di corsa.

Mangiamo e andiamo a letto, non riesco quasi più a salire le scale della nave. Il giorno successivo la corsa parte alle 7, mi sveglio alle 4 e per due ore cerco di muovere le gambe in tutti i modi possibili per trasformare due pezzi di legno in due affari che possano funzionare. Sbarchiamo a Deception Island, un’isola vulcano di lava nera coperta in parte dalla neve, e corriamo per altre nove ore a perdifiato, sono giri da sei chilometri e per farci cambiare l’inclinazione del corpo dopo quattro ore ci fanno correre in senso incricetato inverso. Tengo i ritmi, la vista ti ripaga di tutto, da una parte il vulcano, dall’altra il mare e i pinguini. Nessuno molla, i giri continuano per ore, 11 giri, 88 km, vado a cena con due gambe che sembrano trampoli di legno.

Nelle precedenti edizioni il tempo brutto aveva costretto a rimanere in nave, la scorsa edizione era finita a 168 km, c’erano dei giorni di riposo. Questa mattina c’è una nevicata con vento, dopo quasi due ore di massaggio e stiramento qualcosa riparte e ci facciamo sbarcare in costa.

Paradise Bay. O forse Hell Bay? Gli anelli sono da 870 metri, meno di un chilometro, così dice il GPS. 870 metri e sei di nuovo lì, un salitone e un discesone, da ripetere e ripetere. Vai di ipod shuffle, ho solo due canzoni, “Royals” la prima,  e “New Americana” la seconda, e poi di nuovo “Royals” e poi di nuovo… correre in un anello così piccolo è alienante, ci vogliono delle strategie mentali per mantenere una concentrazione altissima mentre senti fatica e dolore. Neve marcia, fino alle ginocchia che si infila nelle scarpe. Dopo 30 giri sento freddo alla caviglia, ma anche fatica, dolore, concentrazione, solite cose. Dopo 35 giri la caviglia brucia, sarà un po’ di neve, dopo altri due giri è in fiamme, insopportabile e mi fermo alla tenda per capire. C’è un principio di congelamento ed è gonfiata parecchio. Riesco a muovermi male e dopo un altro giro prendo un antidolorifico. Dopo sette ore la terza tappa finisce.

Paradise Bay, un anello da 870 metri da percorrere 45 volte, faticosissimo (ph Myke Hermsmeyer)

I giorni dopo tengo duro, ma qualche posizione la perdo, come da programma. Il quarto giorno il maltempo ci viene in aiuto. Sbarchiamo e iniziamo a correre, ma dopo un paio d’ore il vento si alza e porta i ghiacci dentro la baia, intorno alla nave. Il capitano richiama tutti urgentemente a bordo. Navighiamo nel Gerlache Strait ed è forse uno dei momenti più belli del viaggio, incontriamo delle orche, un leone marino che ancora sporco di sangue riposa su un iceberg, e infine la base di Port Lockroy che non riusciamo a raggiungere perchè circondata dai ghiacci.

Tre piccolissime figure escono dallo shelter e ci salutano con grandi bracciate. Gli uomini che vivono in Antartide sono esploratori, scienziati, guide, eremiti, portano con sé storie importanti. Per fare passare il tempo sulla nave ci propongono bellissime lectures, sui tempi eroici dell’Antartide, sullo sfruttamento esagerato delle risorse marine, sul cambiamento climatico. Andate a leggere la storia di Shackleton, informatevi su che cosa è il Larsen Ice Shelf e imparerete a conoscere questo continente che va preservato con ogni mezzo. L’Antartide è il posto più ricco di cibo al mondo, tutto inizia dal krill e dalla sua catena alimentare e il krill lo stiamo pescando ed esaurendo in maniera scriteriata, per metterlo sugli scaffali di un supermercato come Omega-3. Come se un pezzo di carta dicesse che Andrea Girardi possiede il ghiacciaio della Brenva per questo può farci pipì sopra fino a scioglierlo tutto, più o meno. Prima o poi dovremo fermarci a riflettere, forse, un giorno. Per ora andiamo verso la distruzione con il piede sull’acceleratore.

I giorni sono proseguiti in posti magnifici, uno più bello dell’altro. Il dolore alla caviglia ha invaso parte delle sensazioni, ma lo sapevo fin dall’inizio che allenandomi dieci ore alla settimana non potevo correrne quaranta. La cima l’ho raggiunta, 250 km bellissimi, da sei edizioni i 250 km non venivano completati per il maltempo.

Si corre tra i pinguini. (Ph Myke Hermsmeyer)

Arrivo stanchissimo e il momento più bello è mio, mi sdraio sulla spiaggia circondato dai pinguini, mi metto addosso tutti i vestiti che ho e chiudo gli occhi con la testa rivolta verso un sole appena tiepido, migliaia di miglia lontano da casa. Non festeggio con gli altri al traguardo, questa volta la festa è dentro di me, ringrazio di avere una famiglia così unita che mi permette di fare anche queste gite.

That’s not about language, it’s mental.