Sua Maestà Shapur I

Didascalia: Il Re dei Re, Shapur I

Un mese in Iran, privi di velleità esplorative o ipogee, per portare in vacanza gli occhi. Il progetto prevede di vagare un po’ per il paese, rigorosamente con mezzi pubblici, per vedere cose belle e camminare per montagne senza blasone, ma fornite di calcare, per il solo gusto di mettere un piede davanti all’altro. E magari curiosare un po’ nel carsismo iraniano.

Così vagabondando ci troviamo a Shiraz, nella parte centro meridionale del paese, antica città achemenide, ottima base di partenza per tutta una serie di cose che stanno nei dintorni. Dove dintorni è da intendersi in maniera piuttosto ampia in modo che con solo quattro ore di bus arriviamo a Bishapur, sito sasanide enorme e magnifico.

Qui veniamo a sapere dell’esistenza di una statua alta sei metri posta all’ingresso di una ineffabile caverna. La Lonely Planet conferma la notizia e da un’indicazione un più: occorre risalire per una stretta gola. Una successiva indagine svelerà come la gola sia in effetti il vallone largo quattro chilometri che abbiamo davanti. Come al solito Lonely parla di cose che non conosce.

Si tratta di risalire il suddetto vallone per un’ora abbondante, arrivare a un villaggio e di qui imboccare un ripido sentiero che risale la montagna fino alla famosa caverna. E fin qui è facile: poi si tratterà anche di tornare alla civiltà, coprire in qualche modo i 25 km che ci separano dalla stazione dei bus in tempo per l’ultima corsa che ci dovrebbe riportare a Shiraz, 250 km più a est.

La salita è una corsa ma alla fine la statua c’è davvero, malconcia ma c’è. Ha partito un po’ le ondate arabe del 650 d.C. e ancor più i recenti restauri: ora ostenta un paio di tremende gambe in cemento armato che non sminuiscono però i suoi sei metri di altezza. Si tratta di Shapur I re dei Sasanidi che può vantarsi, unico nella storia, di avere catturato in battaglia un imperatore romano (Valeriano) e avere, di fatto, fermato l’avanzata imperiale in Asia.

Dietro la statua la cosiddetta caverna presenta aspetti inaspettati: una galleria freatica larga una ventina di metri si inoltra nel buio. Quindi una gigantesca grotta lunga circa un chilometro che alterna grandi sale a laghetti concrezionati da scoprire con l’aiuto delle scarne luci che casualmente avevamo con noi.

All’uscita l’ultima sorpresa: un sedicente speleologo locale in transito ci organizza via telefono un passaggio per la stazione bus alla quale arriveremo col lussuoso anticipo di una decina di minuti sull’ultima corsa per Shiraz.

Scrivere di grotte

È in stampa un libro edito dal Cai Uget e dall’Associazione Gruppi Speleologici Piemontesi (AGSP) e scritto da Giuliano Villa, socio Uget dall’inizio degli anni ’70. Medico, speleologo, antropologo, bibliofilo, bibliotecario, paleontologo, fotografo, musicista e un’altra dozzina di cose ancora, Giuliano Villa era un uomo eclettico e meticoloso. Questo lavoro, l’ultimo, impegnò le sue doti di ricercatore tra biblioteche e archivi per una decina di anni, all’inseguimento dei dotti personaggi che in qualche modo si erano occupati del fenomeno carsico piemontese nel corso dei secoli. Lavoro certosino sulle tracce di uomini che di grotte scrivono per sentito dire o che ripetono quanto letto in precedenza, come nel caso del leggendario “cuniculus” nel quale dovrebbe scomparire il Po, inesistente ma rievocato per più di quindici secoli da Plinio in poi. Il risultato è un libro che parla di grotte ma non di speleologia, affollato di valdesi, santi ed eruditi e che passeggia tra le leggende e i racconti che le grotte piemontesi nel corso di duemila anni hanno saputo evocare. Giuliano Villa scriveva così del suo lavoro:

Questa storia, che ripercorre le tappe della letteratura speleologica in Piemonte, vuole invece trattare l’argomento da un punto di vista della storia delle frequentazioni e delle esplorazioni delle varie grotte, dando più spazio alle curiosità, alle leggende, spesso cercando di confrontare il modo di “vedere” le grotte da parte di osservatori differenti. Soprattutto nei secoli XVII e XVIII le grotte citate sono sempre le stesse: Rio Martino, Pugnetto, Bossea, la Balma Ghiacciata, ecc., grotte che già da tempo eccitavano la fantasia dei locali. Una sorta di percorso sulle testimonianze scritte da esploratori, storici, scienziati o di semplici ardimentosi visitatori che hanno lasciato scritti, a volte curiosi, a volte più interessanti sulle grotte piemontesi, fino ai primi lavori di tipo scientifico e, nonostante le ovvie ripetizioni, non dovrebbero scoraggiarci nella lettura.

Rio Martino, 1906

Il lavoro è impostato quindi come un commento alle singole opere con abbondanti citazioni dai testi originali. In particolare si è curato di mantenere rigorosamente l’originalità degli scritti anche se, per quelli più antichi, la lettura è spesso poco fluida. Seguendo il percorso cronologico, partiremo dalle prime timide esplorazioni del mondo sotterraneo ad opera di pochi e colti ardimentosi. Vedremo che nello scorrere dei secoli si sono spesso modificati i toponimi, con difficoltà a volte a riconoscere e ad identificare certi luoghi e certe grotte. Risalendo più indietro nel tempo le notizie scritte sono sempre più incerte fino a sfumare nelle credenze dei locali e nelle leggende, cioè le tradizioni orali che gli autori antichi puntualmente riportano, spesso con particolari discordanti e fantasiosi. Quali sono le basi su cui costruire le conoscenze partendo da questi testi? In alcuni casi, confrontando gli scritti tra di loro, spesso redatti in tempi e da autori diversi, è possibile risalire alla storia della grotta. In altri casi ci devono soccorrere le ricerche sul campo, magari ricercando ancor oggi qualche traccia residua di tradizioni orali tramandate nelle nostre montagne per secoli, oltre che, importantissima, la rivisitazione di grotte ormai purtroppo dimenticate da noi speleologi perché già esplorate da tempo. È una ricerca affascinante questa perché il mondo sotterraneo, vero scrigno naturale, ha sempre attratto l’uomo e le storie e le leggende tramandate si sono conservate a volte di più che non quelle degli ambienti alla luce del sole, purtroppo spesso completamente stravolti dalla civiltà e dal progresso.

 

Terre d’Albania

Da una ricognizione scialpinistica di Andrea Gobetti e altri attempati delinquenti esce la montagna inviolata. Si chiama Mali Dejes è alta 2200 metri ed è in Albania. La sorpresa sta nel fatto che trovare oggi un massiccio calcareo mai calpestato da speleologi ad una distanza ragionevole da casa è, fatti i debiti confronti, come scoprire sulle Alpi un quattromila che nessuno ha ancora salito. Leggi tutto “Terre d’Albania”