Trail degli Invincibili, lo sport incontra la storia

Quando un autore porta un libro alla nostra biblioteca, qualcuno della redazione si preoccupa di leggerlo e, se ne vale la pena, di parlarne qui.
Stavolta tocca a me, già pregusto la scena: divano, copertina e libro. Poi leggo il titolo: “Trail degli invicibili”. Il divano e la copertina lasciano il posto alle scarpette e allo zaino, per toccare con piede le meraviglie decantate dal primo capitolo. Andiamo in Val Pellice, a Bobbio, un’oretta di macchina da Torino. Il percorso del trail è un anello, di venti chilometri e 1100 metri di dislivello (dal sito www.traildegliinvincibili.it si può scaricare la traccia GPS in vari formati). Leggi tutto “Trail degli Invincibili, lo sport incontra la storia”

Scialpinismo sull’Etna

Sciare su un vulcano è un’idea che affascina molti, ma l’Etna non è un vulcano qualunque. I siciliani lo chiamano “a Muntagna”: con i suoi 3.350 metri, calcolati nel 2010, è il vulcano attivo più alto d’Europa e si trova su un’isola che ha molto da offrire. Risalire i pendii mentre “a Muntagna” sbuffa, resistere al vento per guardare il mare, disegnare curve sul “firn etneo”: questi sono solo alcuni motivi per regalarsi un weekend lungo, tipicamente a febbraio. Per noi torinesi poi, il collegamento aereo con Catania è diretto, quindi perché non andare? Leggi tutto “Scialpinismo sull’Etna”

Lettere dall’Everest

Giovanni Rossi ha raccolto in “Lettere dall’Everest” decine di brani delle lettere che Mallory ha scritto alla moglie, alla sorella o agli amici negli anni ’20 del secolo scorso, nel corso delle spedizioni inglesi all’Everest. Si può seguire, attraverso la lettura di questi brani, l’intera storia delle tre spedizioni  (1921, 1922, 1924) organizzate con lo scopo dell’esplorazione geografica e dell’ascensione del Monte Everest. George Mallory ne è stato un protagonista, forse il maggiore. Nel tentativo finale dell’ 8-9 giugno 1924 alla vetta, Mallory e il suo compagno Andrew Irvine persero la vita e soltanto nel 1999 è stato ritrovato il corpo di Mallory. Irrisolto l’interrogativo che tutti si sono posti in questi decenni: i due alpinisti sono morti prima o dopo la conquista della cima più alta del mondo? Leggi tutto “Lettere dall’Everest”

Del Brenta Dolomiti

Prendiamo un bel gruppo di storditi,
con in mezzo un po’ di arditi.
C’è qualcosa che li tenta,
forse le Dolomiti del Brenta?
Allora si parte coraggiosi,
Che nessuno si riposi.
Ci son due pastori savi:
gagliardi, pazienti, anche bravi,
che conducono tutto il gregge.
E seguendo alcune frecce,
lor compattano la truppa,
dal breakfast alla zuppa.

Poi si dorme tutti insieme,
E a qualcuno gli conviene.

Dunque ci son due buontemponi,
Uno e’ Davide l’altro è Toni.
Vengon poi gli arrampicatori,
sono forti come tori.
Claudio, Franco, Max e Nanni
Li vogliamo tutti gli anni.

Maschi alfa beta e gamma,
che ci badano come mamma.
Uno che ti dia una mano?
C’è lui, c’è Germano.

Silenzioso e’ Roberto, a volte evanescente,
da scoprire lentamente.

E’ con noi un gigante buono,
il suo nome è Mauro Bono.
Poi c’è uno che ti aggiusta,
anche senza usar la frusta.
Grazie a Dio che l’ha inventato.
Si è lui è Renato.

Ecco che arriva la quota rosa,
Non la portano sulla Tosa,
solo belle, lunghe, bocchette.
pietre, ghiaccio e due scalette.
La nostra mascottina,
di certo è Carlottina.
Lorena mai sfiatata,
ha per tutti una parlata.
C’è una bella e bona,
il suo nome è Simona.
Che dire della Anna
che la grappa si tracanna?
E’ caduto come manna
del suo compleanno il dì
Festeggiato li per lì.
E la nostra amica Kia,
è un bene che ci sia.
E poi c’è Enrica.
Che è sempre una gran fica,
gnocca da fare paura,
in montagna va sicura.

Lucianina sopra il ghiaccio,
abbisogna di un tosto braccio.
Coi ramponi rivoltanti,
chiede aiuto a tutti quanti.

E non è ancora finita,
Ora tocca ai capigita.
Con Ivano e con Guido
non si è mai sentito un grido.

A Guido e ad Ivano,
entusiasti noi plaudiamo

Bene, chiedo scusa a tutti quanti.
Donne, uomini ed infanti.
Per queste rime azzardate
andando per ferrate.
Orfani di esimia poetessa,
la mia socia Silvia Tessa.

Qui, quindi concludiamo
e a casa ce ne andiamo
dalle Dolomiti del Brenta,
dove chi non gode si accontenta!

Luciana Bergamasco

Paradiso del Brenta

Un giorno diventerò grande

Da sinistra. Giuse e Luca

Non sono nuovo a idee strampalate, per mia fortuna ho amici che le appoggiano. Il Monte Bianco in giornata? Perché no…

 

 

Il tempo di una telefonata alla persona giusta e tutto è già organizzato, la telefonata recita più o meno così:

“Sà Giuse sabato il meteo è buono, il Bianco sembra in condizioni ottime, visto che tu hai il tempo contato partiamo dopo lavoro venerdì, andiamo a Chamonix, arriviamo in cima e rientriamo, per le 16:00 di sabato sei a casa!”.

Ci troviamo al casello autostradale di San Giorgio alle 21:00 di venerdì 27 Maggio. Con Giuse cerco di regolare un suo sci sul mio scarpone da gara. Forse è solo Giuse che maneggia lo sci, io penso piuttosto a mangiare quello che ci siamo portati da casa: per una salita del genere non posso distrarmi, devo alimentarmi. Il problema è che partendo da casa mi sono accorto che un attacchino non è perfettamente funzionante e non mi fido a salire e, soprattutto, a scendere con quello. A conti fatti devo dire che lo sci di Giuse mi aiuterà e non poco.

Durante il viaggio ripassiamo i tratti cruciali della salita: io ripeto che ce la facciamo, Giuse naturalmente ribadisce l’esatto opposto. Arrivati al tunnel del Monte Bianco, forse per scaramanzia propongo: “Facciamo il dieci corse, ci costa meno e almeno se non riusciamo a salire questa volta torniamo la prossima settimana”.

Giunti in terra francese non abbiamo il tempo di prendere fiato, appena usciti dal tunnel si parcheggia sulla sinistra e via. Partiamo di buon passo con gli sci in spalla, lo zaino non è dei più leggeri, però il morale è tornato alle stelle. Le temperature sono decisamente alte, in maglietta e scarpe da ginnastica saliamo bene. I problemi iniziano quando incontriamo alcune lingue di neve: perdiamo il sentiero più volte, ci bagniamo i piedi e rallentiamo la salita.

All’arrivo della vecchia funivia a quota 2400m circa calziamo scarponi e sci: siamo a circa due ore di salita. Dal Ghiacciaio dei Bossons ci separa “solo” più un tratto ripido, in cui l’assenza di rigelo ci fa sprofondare nella neve fino al ginocchio. Arrivati sul ghiacciaio, eccoci nel caotico mondo di seracchi, crepacci e sinistri scricchiolii:  attraversarlo la notte è stato più rilassante che sotto il sole. Ci leghiamo: ramponi e sci in spalla per un centinaio di metri.

Le luci di tante frontali ci precedono e ci segnano il cammino verso un cielo stellato che sembra di buon auspicio. Fino al Rifugio dei Grands Mulets la traccia battuta il giorno prima è diventata una striscia di ghiaccio. La concentrazione è massima per evitare di sprecare forze inutilmente, procediamo legati senza dire una parola.

Ci coglie il giorno verso quota 3500m dove inizia la cresta del Gouter, raggiungiamo cordate partite dal rifugio, ramponi di nuovo ai piedi e su per questa cresta affilata che sembra portarti in paradiso. Il passo è ancora buono, arrivati sui 3900m dove si possono calzare gli sci veniamo colpiti dal sole, che bellezza potersi sedere sullo zaino mettersi gli occhiali, bere un sorso e mangiare qualcosa.

La ripartenza qui segna la svolta della salita, giunti sul piano nei pressi del Col du Dome sotto la Capanna Vallot, siamo presi da un sonno incredibile: siamo partiti dopo una giornata di lavoro e non abbiamo ancora dormito. Le cordate che superiamo sono tantissime di ogni nazionalità ed età, alla Vallot sembra ci sia un raduno di cadaveri viventi, ma decidiamo di partecipare anche noi alla festa: giù di nuovo lo zaino e via con bevande e barrette. Sono le 8:30, fossi stato a piedi sarei tornato indietro, invece con gli sci al seguito continuo a scrutare la parete Nord: si scende dalla cima sci ai piedi, non possiamo mollare.

Il percorso

Da qui in avanti, sci in spalla, saliamo lungo la Cresta des Bosses, la neve è dura e la traccia buona, ma è il passo a non essere dei più sicuri.

La cima sembra irraggiungibile: molte cordate come noi e con il nostro stesso sogno sono lì. Dopo l’ennesimo dosso che nasconde la vetta, mettiamo piede sul tetto d’Europa! La salita è finita e d’ora in avanti sarà solo discesa sui nostri amati sci.

Mi succede spesso al termine di un grande sforzo di commuovermi, anche questa volta è successo, credo ne sia valsa la pena, anche per Giuse che non lo ammeterebbe mai.

Vista della parete nord del Bianco,siamo scesi sopra il seracco

La discesa è filata via veloce tutto a ritroso giù per la Nord e poi sulla normale dei Grands Mulets. Alle 14:30 siamo all’auto, alle 16:30 a casa. Meno di venti ore per un Bianco da ricordare.

I tempi non sono da record, abbiamo gestito la salita da uomini di esperienza e non da atleti, categoria a cui non mi sento di appartenere. Alla base di tutto la grande passione per la montagna, la voglia di soffrire e di misurare le proprie capacità di resistenza, quello che ti dà quella soddisfazione una volta alla macchina di dire a te stesso: “Hai visto? Ci sei riuscito”.

Non mi resta che riaprire il libro dei sogni che per me è ancora lontano dal terminare, e come un bambino sognare nuovi progetti e nuove avventure…

Luca Berta

L’isola del Tesoro

Anche quest’anno il Cai Uget ha voluto organizzare una bella settimana di trekking di primavera e, poiché siamo affezionati alle isole vulcaniche (l’anno scorso è toccato alle Isole Eolie ospitarci), la meta è stata Madeira, l’isola principale dell’omonimo arcipelago appartenente al Portogallo e situato nell’Oceano Atlantico a 560 chilometri al largo del Marocco.
Il gruppo in partenza è numeroso, siamo ben in 35, a riprova del fatto che la destinazione scelta e la precisa organizzazione di Luciano incontrano il favore di noi appassionati dell’avventura… poco estrema.

Un mare di nuvole dal Pico Ruivo

E la prima avventura la viviamo già arrivando a destinazione, atterrando all’aeroporto di Madeira, che è considerato uno tra i più pericolosi al mondo: in pratica la pista di atterraggio è un viadotto che si protende nel mare, circondata su tre lati dalle montagne, proprio quelle che affronteremo nei giorni successivi e che possiamo ammirare in anteprima.
Forse ammirare è una parola grossa, perché ci appaiono avvolte dalle nuvole, ma d’altra parte siamo in mezzo all’Oceano, le cime di Madeira sono le uniche elevazioni nel raggio di centinaia di chilometri, dove pretendi che l’umidità del mare vada a condensarsi?

La scogliera di Cabo Girao

A proposito degli aspetti meteo-climatici dell’isola, il giorno del nostro arrivo ci accoglie anche un bel vento, tanto per non farci dimenticare dove ci troviamo.
Già dal giorno successivo però il tempo migliorerà decisamente, regalandoci sempre belle giornate e confermando la definizione data a Madeira di “isola dell’eterna primavera”.
Un aspetto che subito colpisce è il fatto che i centri abitati si trovino tutti, ad eccezione della capitale Funchal, aggrappati alle montagne sopra alte scogliere, infatti pare che le strade finiscano nel vuoto, tanto le scogliere sottostanti precipitano a picco.
Questa particolarità fa comprendere che Madeira non è propriamente un’isola per turismo di mare, bensì si presta magnificamente alle escursioni in montagna, e questo ci prepariamo a fare.
Il primo giorno il programma prevede di percorrere la Levada do Caldeirao Verde, il più famoso dei sentieri che corrono lungo i numerosi tipici canali d’irrigazione costruiti tra il XVI e il XIX secolo per portare l’acqua dalle montagne dell’entroterra alla costa. Il sentiero attraversa la laurisilva, la foresta protetta dall’Unesco residua dell’antica foresta pliocenica, e raggiunge appunto il Caldeirao Verde, un lago dalle acque verdi in cui si tuffa una cascata alta circa 100 metri e circondato da alte pareti ricoperte di vegetazione.
A seguire, il giorno successivo raggiungiamo il punto più alto dell’isola, il Pico Ruivo (1.862 mt), compiendo un bellissimo giro ad anello che parte e termina dal Pico do Arieiro (1.818 mt): il dislivello coperto, nonostante i saliscendi, non è molto, ma quella che rimane impressa è la vista continua sull’Oceano tutto intorno, o meglio sul mare di nuvole che lo ricopre e che sta sotto di noi.
Il terzo giorno seguiamo il sentiero lungo un’altra levada, la Levada das 25 Fontes, il posto è bello ma un po’ troppo turistico per noi del Cai abituati a frequentare luoghi “selvaggi”: per fortuna le nostre guide Luciano e Ivano propongono per i più temerari di aggiungere un’ulteriore destinazione verso altre cascate, questa sì all’altezza delle nostre aspettative, poiché il sentiero è accidentato e la meta sperduta tra la vegetazione.
Ma il punto metaforicamente più alto del nostro trekking lo raggiungiamo il quinto giorno, quando un piccolo contrattempo logistico ci costringe, volendo mantenere inalterata la destinazione, a un cambio di percorso, che ci permette di scalare il Pico Grande (1.665 mt.) salendo dal versante nord-ovest; questo versante, isolato e poco frequentato, ci riserva una sorpresa unica: le sue pareti sono interamente ricoperte di gialle ginestre e il sentiero che percorriamo è una galleria scavata sotto gli arbusti. Quale miglior modo per apprezzare lo spettacolo della flora di questa splendida isola subtropicale?
L’ultimo giorno raggiungiamo l’estrema punta est dell’isola con un’agevole passeggiata su percorso obbligato, con ripetuti scorci sull’Oceano e nondimeno un bel bagno nelle acque per nulla fredde che nei giorni precedenti abbiamo sempre contemplato dall’alto.
Forse vi chiederete: e il quarto giorno? Ebbene, a metà della nostra vacanza il programma prevedeva una giornata di stacco, da dedicare ad attività ludiche a scelta, e dove pensate che sia caduta la nostra scelta? No, non su un’ulteriore impegnativa escursione come farebbe supporre la nostra comune appartenenza al sodalizio, ma su una giornata da perfetti turisti, che non per caso hanno visitato la parte antropizzata dell’isola, interessante quanto quella selvaggia. In particolare a Funchal merita la visita alla Zona Velha con i suoi edifici restaurati, al Mercado dos Lavradores, dove i banchi del pesce offrono tranci di tonno di dimensioni oceaniche, e del famoso Jardin Botanico, che però chi scrive non ha visitato, preferendo raggiungere con i mezzi pubblici la scogliera di Cabo Girao, la più alta d’Europa (580 mt): veramente spettacolare la vista verso il basso dal pavimento in vetro della piattaforma da cui ci si sporge.
E il tesoro del titolo? Il tesoro che alla fine abbiamo trovato è il riposo di cui ci parlava Guido Rey, quello che puoi trovare sia nella quiete che nella fatica, dove a Madeira la quiete è onnipresente e la fatica mai eccessiva.

Silvia M.

Monte Rosso d’Ala

Non c’è gloria ad andare sul Monte Rosso d’Ala, non ci va nessuno. Se provate a dire a qualcuno che ci siete stato, se sa dov’è e cos’è, vi guarderà stranito. Per capirci: quando dite di essere stati sul Rocciamelone avete in risposta approvazione e compiacimento. Nessuno va sul Monte Rosso d’Ala, anche se vistoso e invitante, a sinistra risalendo la valle, imponente sopra Ala. Il motivo principale è presto detto, si parte da basso, dalla frazione La Fabbrica arrivare lassù sono 1700 metri di dislivello, un po’ tantini. E senza speranza di gloria alcuna. Perché andarci? Eppure ci siamo andati, in due, io e Giuliano Voltan. Vedete, il fatto è che quel monte è troppo vistoso e invitante per non suscitare curiosità, però se chiedete informazioni vi risponderanno che lì non ci va nessuno. Ma l’escursionismo non è solo fare delle passeggiate, si cerca sempre qualche novità, se il luogo non è frequentato tanto meglio, ci sarà qualche mistero da svelare, una cosa che diventerà nostra, poco male se non potrà essere condivisa, rimarrà dentro di noi, una risorsa, come un fuoco in cantina a scaldare la casa.
Per dirla tutta, ci siamo andati proprio perché lì non ci va nessuno. In passato avevo già parlato a Giuliano di quella strana montagna, come ad altri, con poca convinzione, era diventata una specie di gag: “Quello è il Monte Rosso d’Ala, dove non va mai nessuno, quando sarò grande ci andrò”. La cosa era, giustamente, sempre caduta nel vuoto, ma qualche giorno fa Giuliano mi telefona: “Ci andiamo?” “E perché no!”
Ci mettiamo subito a posto la coscienza fissando l’appuntamento mezz’ora prima del solito, alle 6.30; a quell’ora di traffico ce n’è poco, facciamo in fretta, alle 7.30 siamo già con gli scarponi ai piedi, la macchina la lasciamo di qua dal torrente perché dall’altra parte non c’è posto, il primo cartello tra le tante mete segnala anche il nostro Monte Rosso: 5 ore di salita. Bene, ci sta. Inizia la sterrata che presto diventa sentiero: è il numero 211. Ci si addentra nella faggeta, man mano compaiono larici e betulle, poi i ruderi degli alpeggi Lusiglietto (1618 m.) e Colau (1815 m.), il percorso continua ad essere segnato bene, anche se ogni tanto ci si trova fuori e bisogna tornare indietro a cercare i segni: ordinaria amministrazione. Poco sotto l’Alpe Radice (2150 m.) c’è ancora un bivio. Notiamo che c’è l’indicazione per l’Alpe Radice ma è sparita quella per il Monte Rosso: cercano di dissuadere? I segni proseguono nell’itinerario per il Lago Lusiglietto, per dove dobbiamo andare noi non è più segnato, si procede per tracce di sentiero e ometti, l’attenzione a non perdere la via aumenta: non ci possiamo permettere di perdere tempo.

Michele all’Alpe Radice

L’Alpe Radice è in una magnifica dolce costa, il luogo è proprio suggestivo, uno degli edifici è ancora parzialmente in piedi. La vetta è sempre alto sulla destra; a sinistra, non visibile da sotto, c’è il Colletto di Monte Rosso d’Ala (2590 m.): bisogna arrivare lì. Proseguiamo, tracce di sentiero e ometti, ad un certo punto compaiono i ruderi di un altro edificio, della malta sigillava gli spazi tra le pietre contro gli spifferi, sopra si intravedono le tracce di una stradina. Ma che ci fa una stradina lassù? Lo stupore è ancora maggiore quando compare un tratto dove la stradina, un paio di metri di larghezza, viene fatta passare sopra un muro che come un ponte supera una zona impervia di rocce. Dopo un po’ mi viene in mente il perché di quella strada e di quell’ultimo edificio rifinito, siamo vicino all’imbocco del canalino che porta al Colletto e proprio lì sulla cartina è segnalata la miniera di ferro abbandonata: la stradina era di servizio alla miniera. Al ritorno la vedremo proseguire anche sotto l’Alpe Radice, la seguiremo fino al grande pietrone erratico (grosso modo un cubo di 20 metri), lì, a destra, c’è la nostra incerta traccia di sentiero, la stradina scende da un’altra parte.
Dicevo del canalino. Per andare su bisogna passare da lì, l’imbocco è a destra, bisogna attraversare un tratto di pietraia, Giuliano è abilissimo a usare i due bastoncini, confortano piccoli ometti, si vede che nonostante tutto qualcuno ci è passato e li ha lasciati. Il canalino è rognosetto, come tutti i canalini, stranamente colonizzato dall’aglio ursino, cosa mai vista, l’unico posto dove ricordo di averlo trovato è sulla collina di Torino, a mezza strada nell’itinerario dei tre parchi per andare alla Maddalena. La pendenza si impenna, ma ci pare alla nostra portata, continuiamo a salire, con cautela, siamo ovviamente stanchi, sicuramente nella testa di tutti e due gira un pensiero: ne vale la pena? La stanchezza si sente, ma poi spiana un po’ ed ecco il Colletto: è presidiato da un ometto, miserello in verità, nessun’altra indicazione. Dall’altra parte si spalanca la vista sulla parte alta della Valle di Ala: a destra la Ciamarella dal dolce nome, cara agli escursionisti e alpinisti torinesi, dopo il Monviso la montagna più alta del Piemonte, senza contare la zona di confine del Monte Rosa; a sinistra un po’ nascosta la Torre d’Ovarda, poi la Bessanese e altre ancora in uno scenario la cui vista, guarda un po’, è buona parte della nostra gratificazione. Ci sarebbe ancora da salire la punta, la lasciamo dov’è: è tardi, siamo stanchi, ci sarebbe da arrampicare, e a quanto pare anche da cercarsi la via, perché non c’è traccia di ometti o segnalazioni. Non è il caso, anche se non credo che ci sarà un’altra occasione.

di Michele D’amico

Diario di una schiappa

Maiorca per pochi

Quando ho detto agli amici che sarei andata a Maiorca,  ho dovuto spiegare che non andavo a spiaggiarmi come una balenottera, ma che avrei fatto un trekking, cioè camminato fra i 10 e i 18 km al giorno per raggiungere impervie vette e idilliache baie: nei loro occhi incredulità.     Infatti pochi sanno che Maiorca non è solo il luogo della movida più sfrenata ed alcolizzata, ma che lungo la costa Nord-Ovest si eleva una selvaggia catena montuosa lunga 90km.

Giorno 1         La Penisola di Formentor, che si protende come un dito indice nell’indaco del mare, ospita la meta della nostra prima gita, la vetta di ‘el Fumat'(334mt). Inizialmente un facile sentiero ci porta ad una solitaria caletta dove possiamo godere delle sue limpide e fresche acque. Non per molto però, poiché la dura salita ci attende sotto il sole implacabile di mezzodì, senza alberi ad ombreggiarci, né venticello a rinfrescarci: comunque, chi prima chi poi, raggiungiamo l’agognata vetta. Un panorama mozzafiato ci ricompensa della fatica. La successiva discesa è lunga e aspra e a tratti scivolosa. La sete e la stanchezza si fanno sentire, ma alla fine di questo “tormento” l’incantevole baia Murta ci accoglie.

Giorno 2         Molti si avventurano nel Barranco del Pareis, per escursionisti esperti qual io non sono, per cui mi avventuro alla scoperta della capitale Palma. E’ una città con un passato ricco di storia ed è piacevole camminare alla ricerca dei palazzi costruiti nelle diverse epoche storiche. Quello che però non si può perdere è l’imponente cattedrale gotica che si specchia in riva al mare, una delle più belle che abbia mai visto, specialmente l’interno. Anche il Barranco del Pareis avrebbe potuto essere una delle più belle gole che avrei potuto vedere, se fossi stata un po’ più preparata e in forma fisicamente, mi consolo che molti l’hanno trovato parecchio impegnativo e si sono trovati in difficoltà.

Giorno 3         Escursione al Puig del Teix (1064mt), ma i muscoli ancora irrigiditi mi sconsigliano di parteciparvi, così, con altri dissidenti, facciamo una gita alternativa, percorrendo circa 18km, ma senza salite o discese impegnative, raggiungendo comunque calette e scogliere di ineguagliabile bellezza. Al ritorno i partecipanti raccontano di non aver avuto difficoltà a percorrere i sentieri ben tracciati, pazienza sarà per la prossima volta!

Giorno 4         Finalmente di nuovo in forma e pronta alla partenza! Oggi si va sul Puig de Galatzo, (1027mt). Inizialmente un largo sentiero si snoda in un bosco in cui spiccano esemplari di Quercia Spagnola,per poi restringersi. I rocciosi pendii sono popolati da non so che razza di capre selvatiche, e le corna dei maschi sono molto ricercate come trofeo (infatti alcuni cacciatori sparano allegramente intorno a noi!). E’ proprio vero, se non le hai, te le vai a cercare!!!!

Giorno 5         Escursione a “la Trapa”, il cui nome deriva dai monaci trappisti che si sono insediati qui nel 1810, scappando dalla rivoluzione francese. Ammiriamo i terrazzamenti costruiti per rendere coltivabile un’area altrimenti arida, il mulino, i resti degli alloggiamenti  e l’insuperabile panorama sull’isola Dragonera e sulle baie sottostanti. Un sentiero panoramico, abbastanza agevole, ma talvolta stretto, roccioso e scosceso, ci riporta alla baia di partenza dove abbiamo tempo di godere di un bagno ristoratore.

Giorno 6         Gianni e Luciano vengono informati che il sentiero per raggiungere il Puig de Massanella è interrotto da una frana, per cui le nostre efficienti guide, prontamente, spostano la meta  alla spiaggia di ‘sa Calobra’. Purtroppo la stanchezza di 5 giorni di camminate lunghe ed impegnative decima i partecipanti e molti si defilano a Palma. Poteva la schiappa smentirsi? Ovviamente no e, insieme ad alcuni amici, decide di raggiungere la stessa spiaggia, ma con mezzi alternativi alle gambe: con un trenino d’epoca raggiunge la cittadina di Soller, annidata tra i monti; un tram, sempre d’epoca, la conduce al porto sottostante, dove si imbarca su un battello, moderno, che costeggia le vertiginose scogliere con cui la Tramuntana precipita mare. Durante il tragitto cerca di scorgere sulle pendici gli intrepidi compagni, ma senza successo.

            Oltre a tutti i partecipanti che hanno condiviso con me questo trekking rendendolo indimenticabile, vorrei ringraziare in particolare due persone: il “mio angelo custode personale”, che mi ha aiutata e confortata, impedendomi di crollare nei momenti difficili e “l’angelo custode di tutti”, Gianni, che, chiudendo la fila, si è sacrificato per assicurare la sicurezza a tutti noi.

Festeggiamenti alla capanna Saracco Volante

Carlo ci ha raccontato la storia della capanna in questo articolo, ma quella era la preistoria. Alla fine degli anni ’80 si decise di associare alla Capanna un locale invernale, venuto così bene da meritarsi all’istante l’appellativo de “Il Tumore”, che in realtà si è dimostrato indubbiamente utile, insospettabilmente robusto e, ebbene sì, certamente brutto. Difetto cui s’è posto rimedio negli ultimi anni con una folata di lavori straordinari che l’hanno armonizzato al resto della struttura: ora il “Tumore” è tornato ad essere l”Invernale”.

Negli anni la Capanna ha cambiato più volte colore: è stata spesso rossa (velleità giovanili), grigia (mimetica con la nebbia), beige (praticamente invisibile) a righe, marrone (metaforico). Attualmente sfoggia un’elegante tonalità granata da curva Maratona.

Ma alla fine l’importante è che siano passati cinquant’anni e quindi si festeggi: dal 13 al 16 luglio.

Quattro giorni, i primi due dedicati agli abissi: si entra di qui e si esce di là, si entra qua e si esce laggiù, profittando di alcuni dei sedici ingressi di Piaggia Bella. Nei restanti giorni si celebrano la Capanna e i suoi costruttori. Ci saranno proiezioni in Piaggia Bella, lì, vicino all’ingresso, alla portata di tutti. E pellegrinaggi guidati tra i vari abissi raccontati da ineffabili cantastorie, e  concerti serali che, temo, non potranno che sorprenderci. E la presentazione del libro “Scrivere di Grotte” di Giuliano Villa, uscito or ora. E i giochi pomeridiani a cura dell’apposito comitato. E un sacco di altre cose che devono ancora essere pensate. E il vino? Ci sarà. Molto.

di Ube Lovera

Ski spirit, sciare oltre le piste

 

Sì, mi è piaciuto.

Condivido il suo modo di intendere lo scialpinismo e invidio i suoi grandi raid scialpinistici in giro per il mondo.

Giorgio Daidola nel 1977 succede a Gian Piero Motti nella direzione della Rivista della Montagna, fondata nel 1970,  primo direttore Piero Dematteis: da notare che su dieci redattori del primo numero ben cinque facevano parte del Gruppo Scialpinistico del Cai Uget. Per tanti anni Giorgio ha coordinato Dimensione sci, della purtroppo defunta Rivista della Montagna. 

Ski spirit si basa sui numerosi articoli scritti da Giorgio negli anni, per varie testate tra cui Alp, Montagnard, Telemarkmag e Skialper. Gli articoli sono stati adattati, aggiornati, talvolta riscritti: sono tralasciate tutte le parti tecniche, le descrizioni degli itinerari percorsi e dell’attrezzatura utilizzata, in sostanza ha puntato tutto sullo “spirit”. Il libro non è un “racconto d’ascensione” o una mera autobiografia,  no, Giorgio ha creato della letteratura scialpinistica, cosa rara in Italia se non unica.

In Ski spirit sono citati due libri,  che consiglio di leggere a tutti gli appassionati di scialpinismo che abbiano una certa dimestichezza con il francese, poiché purtroppo non sono mai stati tradotti in italiano Il primo è Ski de printemps di Jacques Dieterlen definito nel testo come “…un piccolo capolavoro di letteratura dello sci…è un inno al piacere di sciare al sole, alla vita di rifugio in alta montagna, a lasciare tracce delicate sulla neve argentea e granulosa.” . Il secondo è “Léon Zwingelstein: Le Cheminau de la montagne”: non è un romanzo, ma sono i diari di Zwingelstein, uno dei più grandi sciatori alpinisti di tutti tempi, raccolti da Dieterlen.

Giorgio Daidola, Ski Spirit, Alpine Studio Editore, 2016.

di Riccardo Valchierotti

Aggiornamento sicurezza sulla neve

La scuola di scialpinismo ha invitato i capigita GSA ad una giornata di aggiornamento per la sicurezza sulla neve. Come tutte le lezioni pratiche della scuola, non sono mancate né la sana fatica, né il piacere della gita: la lezione si è tenuta in cima al Giassez, in Val Thures sotto un bel sole.

La preparazione del terreno (ph Marco Centin)

L’infiltrata della redazione ha arrancato dietro il passo deciso di istruttori e capigita, arrivando in tempo per la lezione in quota di Luca Berta, Istruttore Nazionale di Scialpinismo.

Luca Berta in un momento della lezione (ph Marco Centin)

Luca in primis ci ricorda che gli artva attuali, digitali, sono molto più semplici da utilizzare e consentono, per una persona minimamente preparata, l’individuazione del sepolto in meno di un minuto. Purtroppo, c’è chi ancora non è passato al modello digitale “perchè costa”. E’ vero, magari non tutti possono permetterselo, ma quando uno indossa abbigliamento tecnico e cambia sci un anno sì e un anno no, non venga a dire che l’artva digitale costa troppo. La vita propria e dei propri amici, vale di più dell’ultimo modello di sci.

Se in questi anni la ricerca artva ha fatto i suoi progressi, allora cerchiamo anche noi di fare i nostri: miglioriamo il sondaggio e la tecnica di scavo, che se fatti in modo confuso e non corretto rischiano di impiegare molto più tempo del necessario nel disseppellimento. Le sonde con sensore Artva sono un ottimo strumento, sia la scuola che il GSA ne hanno una in dotazione. Luca ha dato istruzioni chiare su come utilizzare una sonda, sempre con due mani, sempre con i guanti, sempre delicatamente. La prova pratica ha riguardato la tecnica di scavo, dettagliatamente descritta nel manuale scaricabile dal sito. Gli spalatori si dispongono a V sotto il punto in cui è stato individuato il sepolto, a due pale di distanza l’uno dall’altro. La neve deve essere spostata ma non sollevata, “pagaiando” all’interno della V. La pratica ha dimostrato quanto questo sia fondamentale in termini di tempo e poco noto.

A tutto ciò, si aggiunge un’ulteriore dotazione: il telefono satellitare, la cui copertura è garantita ovunque, avendo l’accortezza di accenderlo ad inizio gita per qualche minuto, onde evitare lunghi tempi di ricerca satelliti in caso di necessità. Sia il GSA che la scuola, ne hanno uno in dotazione.

Possiamo insistere finchè vogliamo con la parità dei sessi, ma in caso di soccorso, meglio lasciar spalare gli uomini, la prova pratica ha dimostrato anche questo!

Altre foto della giornata sono disponibili qui: https://www.flickr.com/photos/snowlover62/albums/72157673748920334