La conquista del K.O. di W.E. Bowmann

La conquista del K.O.Per chi ama la montagna e l’umorismo anglosassone ecco un libro gustoso.

E’ la storia della spedizione per scalare il K.O.,  la montagna più alta del mondo con i suoi 11.890 metri sul livello del mare.

L’organizzazione e lo svolgimento dell’impresa sono narrati con apparente precisione  tecnica unita  ad ironiche  descrizioni delle assurdità che, grazie ai protagonisti,  vengono rivelate al lettore. I protagonisti rappresentano in sintesi  ed in modo esilarante, un certo mondo eroico e pomposo dell’alpinismo di nicchia, riservato a uomini di grande capacità, forza, determinazione e di alti valori etici, mettendo in luce  ridicole  debolezze di ognuno di loro ed offrendone un quadro diametralmente opposto a quanto si attenderebbe  da loro.

Giunge all’estremo assurdo e iperbolico della possibilità che  degli incapaci riescano a compiere un’impresa impossibile.  Ciò, semplicemente perché la conquista avviene per caso e per merito dei portatori che, letteralmente, portano un protagonista in cima, giacché tutti gli altri o sono fermi o sbagliano la direzione di salita.

Un libro che si legge rapidamente e con soddisfazione. Di tanto in tanto un po’ di sdrammatizzazione  è fonte di piacere.

William Ernest Bowmann,  La conquista del K.O., Corbaccio, settembre 2016.

 

 

 

 

 

Gli antipodi sulla montagna?

Con l’intento di suscitare riflessioni e discussioni nei nostri lettori traiamo dalla lettura di Montagne mute, discepoli silenziosi a cura del gruppo “filosofia & montagna” (Ed. Il Poligrafo, 2013) due passaggi. Il primo (G. Pasqualotto, Montagne d’oriente. Il tema della montagna nelle culture orientali, ivi pagg 41 ss): “… il cammino attorno alla montagna si costituisce dunque come percorso di formazione, che non contempla necessariamente l’idea e la pratica della scalata né, tantomeno, quella di ottenere una vittoria sulla montagna, magari anche sancita piantando sulla vetta un segno. Queste due operazioni verrebbero considerate “negative” o, comunque, non propizie, se non altro per due motivi: innanzitutto perché spingerebbero l’individuo fuori di sé, schiavo del desiderio di raggiungere e “possedere” la vetta; in secondo luogo, centrando l’attenzione sull’impresa personale, esse farebbero dimenticare all’individuo che la montagna è sempre e comunque un segno concreto, tangibile e visibile del fatto che un singolo uomo è soltanto una parte – nemmeno centrale – dell’universo che lo circonda. Non solo. L’approccio tradizionale alla montagna in ambito indiano – e orientale in genere – non esige che esso avvenga come una sfida “a tu per tu” con la montagna – sfida che comporta un’inammissibile prospettiva antropocentrica in cui la montagna viene considerata un avversario da vincere o una donna da conquistare – ma comporta che si svolga secondo due principali modalità: o in forma eremitica, vivendo sulla montagna in totale solitudine; o andando alla montagna in pellegrinaggio con una compagnia più o meno numerosa e organizzata. È molto importante ricordare che, in entrambe queste modalità, non è previsto né gradito parlare dell’impresa – sia prima, nella forma del progetto, sia dopo, in quella del resoconto – cosa che, come è noto, è invece ritenuta parte integrante anzi spesso addirittura indispensabile nella quasi totalità degli approcci occidentali alla montagna. Questa differenza di atteggiamento risulta del tutto logica, considerando le premesse culturali di fondo che determinano l’approccio orientale alla montagna: essendo essa considerata sacra, nei suoi confronti si possono pronunciare solo parole di preghiera, oppure si deve rispettare un profondo silenzio…”. Il secondo (G. Gurisatti, Fantasmagorie postmoderne del limite. Montagna e alpinismo tra pratica ascetica, performance sportiva ed evento mediatico, ivi pagg. 105 e ss): “… Senza nulla voler togliere all’abilità, al coraggio e all’audacia di free climbers e simili, non si sfugge all’impressione che in queste performances iconiche ultrareali la montagna come creatura naturale imploda nella pura dimensione dello spettacolo, perda cioè ogni residua aura di autonomia e sacralità, diventando supporto scenografico e location paravirtuale di imprese che assomigliano più a un videogame che a un’attività sportiva. Con una sapiente orchestrazione dei messaggi, anche (gli) … aspetti mistico- meditativi dell’alpinismo rientrano nella scenografia, mero optional folcloristico di contorno, gadget tra gadget. Proprio di ciò si nutrono i mass media e gli sponsors, sicché l’alpinismo estremo postmoderno sembra ormai solo un “valoresegno” (Baudrillard) nell’ipermercato dell’avventura adrenalinica…”. A quale orizzonte volge il nostro sguardo, quali suoni cerchiamo all’ascolto, che significati assume a sé il nostro animo? Accettiamo trasformazioni apparentemente superficiali, manifestazioni del frenetico, tempo inconsapevole? Nel profondo, anche se non manifesto, io credo che l’antico e perenne camminare debba sempre essere preghiera e silenzio.

Finnmarksvidda, ovvero il pesce al cartoccio

Finnmark, contea a Nord della Norvegia. Immagine di  TUBSOpera propria 

Pesce al cartoccio? Come può venire in mente un’immagine del genere in Norvegia? Dal 24 al 29 febbraio saliamo in quattro italiani ad Alta, al nord della Norvegia, per partecipare ad una mini spedizione di 80 chilometri in autonomia, cioè con slitte e tende, unitamente ad un polacco e ad un inglese accompagnati da due guide, nel Finnmark.

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Una notte troppo bella per morire

Isabel, appassionata alpinista, vive un’avventura terribile: precipita per 400 metri scalando l’Ala Izquierda, 5500 metri, nel Condoriri, Cordillera Real, Bolivia.
Si salva, ma così non è per il suo compagno di cordata Peter che muore per le ferite subite. Isabel striscia su terreni impervi per due giorni, per avvicinarsi ai soccorsi, viene salvata, passerà attraverso un’odissea di operazioni, ben 14, e di ospedali, ed attraverso una serie di ricordi ricostruttivi della sua personalità e dei suoi sogni. Con una determinazione potente ed una passione indomita riuscirà a tornare a scalare. Leggi tutto “Una notte troppo bella per morire”

Chi ben comincia è già a metà dell’opera

LaPelissier_MatteoGuadagnini
La Pellissier (foto M. Guadagnini)

Chissà se e vero? Ottobre, per chi ama lo sci e il tempo fresco, è un mese di transizione. Che permette però alcune “perle”. Quali le goulottes. Consentono di stare ad alte quote, di arrampicare non con soli mani e piedi e di toccare il ghiaccio e la neve immaginando quello che verrà. E allora l’11 ed il 24 di ottobre due goulottes: Pellissier alle Pointes Lachenal e Perroux con finale sulla Le temps est assassin al Triangle du Tacul. Leggi tutto “Chi ben comincia è già a metà dell’opera”