The Last Desert

La serie delle gare 4Deserts è considerata una delle competizioni di corsa più dure al mondo. La serie consiste in quattro gare, ognuna da 250 km:  Atacama Crossing (Cile), Sahara Race (Giordania), Gobi March (Cina), The Last Desert (Antartide). Si corre su terreni di gara durissimi in completa autonomia, vengono fornite solo acqua e una tenda. Le ho completate in quattro anni, dal 2013 al 2016, l’ultima in Antartide.

Se dovessi dire nel modo più sintetico ed essenziale a cosa mi sono serviti questi anni di folli corse, risponderei che mi hanno permesso di conoscere ed apprezzare la spinta interiore che pochi di noi hanno così radicata dentro, di ricercare elementi che potrebbero essere considerati singolarmente di totale inutilità ma che formano il carattere, le ambizioni e il coraggio. Discorsi, sogni, progetti restano dentro di me grazie all’adrenalina e alle endorfine rilasciate durante la corsa.

Antarctica, The Last Desert. Il “last” mette tutto in prospettiva assoluta, traccia una strada da percorrere, lancia un sogno. Quid ultra? La corsa in sé non è la più dura al mondo, esiste di molto peggio, ma per me è stata un raggiungimento di una cima, a lungo pensata.

Una delle cose che più mi appassiona dei nostri sport avventurosi è l’immaginazione che precede un risultato. Arrivare in cima al Monte Bianco per me era un sogno, un sogno che mio padre non ha potuto raggiungere per il maltempo, lui voleva continuare, sapeva che se non avesse raggiunto la cima quel giorno, a 66 anni, non l’avrebbe più raggiunta, ma gli amici lo hanno fatto ragionare e tornare indietro.

Fino a quando non sei lì, non sai, e quanti film si fa la nostra mente prima di arrivare in cima? Come immaginiamo la capanna Vallot prima di entrarci, le Bosses, quali sensazioni avremo in cima? Il nostro cervello è mostruosamente potente, le sensazioni che registra in momenti particolari sono indelebili, tatuaggi neuronali. Il dolore e la fatica li fissano, indescrivibili. Fotografie, numeri, racconti non possono restituire certe sensazioni.

La preparazione al quarto deserto è durata un anno, mentre andavo avanti indietro da Modena, mentre nel week end mi svegliavo, andavo a correre, stavo con le mie bellissime donne, andavo di nuovo a correre, andavo a dormire. Poco spazio per altro, a parte il sogno Antartico. Arrivare in Antartide richiede pazienza, un giorno e mezzo di volo, qualche giorno a Ushuaia e due giorni e mezzo di navigazione in uno dei mari più tempestosi al mondo. Per correre 250 km, in sei giorni.

Qualche corsetta al sole per ambientarsi… (ph Myke Hermsmeyers)

Immaginavo una gara dura, soprattutto perché correndo in assetto competitivo, la testa della competizione vedeva atleti professionisti di tutto il mondo alla linea di partenza. La strategia si definisce a tavolino qualche mese prima e poi si esegue, dopo i primi giorni la stanchezza diventa così elevata che non si può più ripensare.

Qualche corsetta di allenamento sotto la neve, per ambientarsi… (Ph Myke Hermsmeyer)

Il primo giorno si corre a King George’s Island. Ci imbarchiamo sugli Zodiac e dopo un breve freddissimo tragitto sbarchiamo sulla costa.

Andrea Girardi sbarca sullo Zodiac (Ph Myke Hermsmeyer)

Corriamo tra la base antartica cilena e quella cinese, passando da quella russa, in un anello da 11km. La neve è molle, in alcuni punti marcia e profonda, certe salite non finiscono mai, verso la base cinese si corre invece su una strada dove scorrono grandi rivoli di acqua. I piedi sono marci e freddi, la strategia di preparazione aveva previsto lunghe corse con i piedi bagnati e freddi, per preparare la pelle. Arrivo secondo pari merito a Filippo (CH), davanti Kyle (US), dietro Tommy (Taiwan), con circa 88 km e tredici ore di corsa.

Mangiamo e andiamo a letto, non riesco quasi più a salire le scale della nave. Il giorno successivo la corsa parte alle 7, mi sveglio alle 4 e per due ore cerco di muovere le gambe in tutti i modi possibili per trasformare due pezzi di legno in due affari che possano funzionare. Sbarchiamo a Deception Island, un’isola vulcano di lava nera coperta in parte dalla neve, e corriamo per altre nove ore a perdifiato, sono giri da sei chilometri e per farci cambiare l’inclinazione del corpo dopo quattro ore ci fanno correre in senso incricetato inverso. Tengo i ritmi, la vista ti ripaga di tutto, da una parte il vulcano, dall’altra il mare e i pinguini. Nessuno molla, i giri continuano per ore, 11 giri, 88 km, vado a cena con due gambe che sembrano trampoli di legno.

Nelle precedenti edizioni il tempo brutto aveva costretto a rimanere in nave, la scorsa edizione era finita a 168 km, c’erano dei giorni di riposo. Questa mattina c’è una nevicata con vento, dopo quasi due ore di massaggio e stiramento qualcosa riparte e ci facciamo sbarcare in costa.

Paradise Bay. O forse Hell Bay? Gli anelli sono da 870 metri, meno di un chilometro, così dice il GPS. 870 metri e sei di nuovo lì, un salitone e un discesone, da ripetere e ripetere. Vai di ipod shuffle, ho solo due canzoni, “Royals” la prima,  e “New Americana” la seconda, e poi di nuovo “Royals” e poi di nuovo… correre in un anello così piccolo è alienante, ci vogliono delle strategie mentali per mantenere una concentrazione altissima mentre senti fatica e dolore. Neve marcia, fino alle ginocchia che si infila nelle scarpe. Dopo 30 giri sento freddo alla caviglia, ma anche fatica, dolore, concentrazione, solite cose. Dopo 35 giri la caviglia brucia, sarà un po’ di neve, dopo altri due giri è in fiamme, insopportabile e mi fermo alla tenda per capire. C’è un principio di congelamento ed è gonfiata parecchio. Riesco a muovermi male e dopo un altro giro prendo un antidolorifico. Dopo sette ore la terza tappa finisce.

Paradise Bay, un anello da 870 metri da percorrere 45 volte, faticosissimo (ph Myke Hermsmeyer)

I giorni dopo tengo duro, ma qualche posizione la perdo, come da programma. Il quarto giorno il maltempo ci viene in aiuto. Sbarchiamo e iniziamo a correre, ma dopo un paio d’ore il vento si alza e porta i ghiacci dentro la baia, intorno alla nave. Il capitano richiama tutti urgentemente a bordo. Navighiamo nel Gerlache Strait ed è forse uno dei momenti più belli del viaggio, incontriamo delle orche, un leone marino che ancora sporco di sangue riposa su un iceberg, e infine la base di Port Lockroy che non riusciamo a raggiungere perchè circondata dai ghiacci.

Tre piccolissime figure escono dallo shelter e ci salutano con grandi bracciate. Gli uomini che vivono in Antartide sono esploratori, scienziati, guide, eremiti, portano con sé storie importanti. Per fare passare il tempo sulla nave ci propongono bellissime lectures, sui tempi eroici dell’Antartide, sullo sfruttamento esagerato delle risorse marine, sul cambiamento climatico. Andate a leggere la storia di Shackleton, informatevi su che cosa è il Larsen Ice Shelf e imparerete a conoscere questo continente che va preservato con ogni mezzo. L’Antartide è il posto più ricco di cibo al mondo, tutto inizia dal krill e dalla sua catena alimentare e il krill lo stiamo pescando ed esaurendo in maniera scriteriata, per metterlo sugli scaffali di un supermercato come Omega-3. Come se un pezzo di carta dicesse che Andrea Girardi possiede il ghiacciaio della Brenva per questo può farci pipì sopra fino a scioglierlo tutto, più o meno. Prima o poi dovremo fermarci a riflettere, forse, un giorno. Per ora andiamo verso la distruzione con il piede sull’acceleratore.

I giorni sono proseguiti in posti magnifici, uno più bello dell’altro. Il dolore alla caviglia ha invaso parte delle sensazioni, ma lo sapevo fin dall’inizio che allenandomi dieci ore alla settimana non potevo correrne quaranta. La cima l’ho raggiunta, 250 km bellissimi, da sei edizioni i 250 km non venivano completati per il maltempo.

Si corre tra i pinguini. (Ph Myke Hermsmeyer)

Arrivo stanchissimo e il momento più bello è mio, mi sdraio sulla spiaggia circondato dai pinguini, mi metto addosso tutti i vestiti che ho e chiudo gli occhi con la testa rivolta verso un sole appena tiepido, migliaia di miglia lontano da casa. Non festeggio con gli altri al traguardo, questa volta la festa è dentro di me, ringrazio di avere una famiglia così unita che mi permette di fare anche queste gite.

That’s not about language, it’s mental.