Letizia ci apre la porta: è indaffarata nelle faccende di casa. Ci accoglie come fossimo dei nipoti giunti a trovare i nonni dopo una lunga assenza. Piero Malvassora scende dalle scale della mansarda a braccia aperte: è un arzillo signore di 90 anni in piena forma e “un po’ sordo” come ci confessa, ma questo proprio non lo dà a vedere. Ci fanno accomodare in salotto; Letizia, la moglie, gentilmente ci offre degli stuzzichini: siamo all’ora dell’aperitivo e quale cosa migliore se non gustare un po’ di cibo con racconti di montagna? Leggi tutto “Mi piaceva solo andare in montagna”
Autore: Andrea Castellano
Uno storyteller a Torino
Il 27 marzo Reinhold Messner è a Torino per presentare il suo spettacolo “Wild!”, in cui racconta la spedizione di Shackelton in Antartide nel 1915. La serata si svolge all’interno della rassegna In Cordata, organizzata tra gli altri dal Cai Uget.
A margine dell’evento, Reinhold Messner ha gentilmente concesso questa intervista ad Andrea Castellano: un grande momento per capire qualcosa in più di questo uomo di montagna.
Dalla parete al palcoscenico: sembri a tuo agio sia su superfici orizzontali sia verticali. Sostenere il palcoscenico richiede impegno, abilità e doti, molto più che sedersi in prima fila mentre mandano in onda l’ultimo film che ti vede protagonista. Cosa ti spinge a farlo?
Sono stato un alpinista, anche d’alta quota, un rocciatore, ho attraversato deserti, ma non sono uno scienziato, un esploratore nel senso tradizionale della parola. Sono un avventuriero e sono uno storyteller, un “racconta-storie”, due attività completamente diverse. Con la mia voce ho raccontato tante avventure di fronte a molte persone, mostrando un po’ di materiale fotografico. Ho raccontato di alpinismo e tutto questo è approdato in una struttura museale composta da sei musei distinti, ma tra loro collegati nei quali parlo di tutto l’alpinismo. Adesso, è vero, produco film di montagna: è completamente un altro lavoro. Però non “mescolo”: ci sono molti alpinisti che fanno tutto, ed è sbagliato. Non sono un alpinista se sono sul palco: sul palco sono uno storyteller e nient’altro.
Walter Bonatti ha detto di te “E’ l’ultima speranza del grande alpinismo tradizionale”. Dopo che hai lasciato la grande ribalta, è più esistito questo alpinismo tradizionale?
Ho portato avanti quest’alpinismo tradizionale. Bonatti però è stato forse l’ultimo esempio di un puro alpinismo tradizionale, ha fatto un po’ di tutto a livelli molto alti, dimostrandosi il più bravo del suo periodo. Oggi i più validi o arrampicano, o fanno speed-climbing (arrampicata di velocità) o scalata ad d’alta quota: o uno o l’altro, non è più possibile fare un po’ di tutto. L’alpinista tradizionale se ne sta andando lentamente: certo anche oggi ci sono dei ragazzi di gran talento, ma sono pochi in confronto a prima.
Te la sentiresti d’indicare un erede di questa forma di alpinismo?
Ad esempio Hervè Barmasse (presente anche lui alla serata, ndr) e Ueli Steck, anche se Steck lavora molto sulle cifre. Una volta chiamavo l’alpinismo contemporaneo “alpinismo delle cifre”, adesso lo chiamo “alpinismo della pista”. La maggior parte va dove esiste già una pista: anche sul XII grado si ha una linea da seguire, si può vedere dove mettere le mani e ci sono gli spit, altrimenti un tale grado di difficoltà non sarebbe affrontabile.
Recentemente in Piemonte si è affrontato il problema dell’industrializzazione delle valli a scapito del benessere paesaggistico e ambientale. Quale rapporto può esserci tra economia ed ecologia?
Il discorso è molto semplice: dall’ultima glaciazione in poi, l’uomo ha l’obbligo e il diritto di sfruttare o lavorare la terra fin dove riesce ad arrivare. E’ sempre stato così. Le montagne però, quelle dove l’uomo una volta non andava perché non era stupido come noi, devono essere lasciate selvagge. Pochi l’hanno capito: c’è la capacità di sopravvivere in montagna solo fino ai 2200 m massimo 2400m, oltre la gente infatti non andava. Dove c’era soltanto roccia, ghiaione, ghiaccio, l’uomo non andava. Molto semplice. E quella zona dev’essere lasciata senza infrastrutture, com’era, allora sì che ha un valore. Mentre a una quota inferiore se il contadino non riesce a portare su le bestie, tutto degrada: purtroppo Mountain Wilderness non l’ha capito questo, e proprio per questo sarebbe meglio che tacesse per sempre! Non ha capito che sono due parti, l’ecologia e l’economia della montagna, che fanno un tutt’uno che è unico. Se invece metti un divieto d’accesso al contadino che va su alla malga con un piccolo trattore per portare il sale o per portare giù una bestia morta, il contadino non può fare nulla e allora abbondona. Tutte le vostre vallate, quelle di una certa altezza sono tutte vuote…
E’ vero…
E’ vero sì, è colpa di chiacchieroni! I Verdi, Mountain Wilderness, etc. Io faccio il contadino e so come vanno le cose.
Così come il tentativo di Shackelton, così lei ha attraversato l’Antartide nel 1989-1990. Come ci si prepara a queste esperienze?
Bisogna studiare bene anche la storia, poi ho deciso di farlo con i mezzi di oggi: non con la motoslitta, certo, ma con filati di kevlar e altro materiale moderno, ma sempre con lo stesso stile che avrebbe seguito Shackelton se avesse avuto la possibilità di portare a termine la sua spedizione. Noi non abbiamo fatto altro che realizzare l’idea di Shackelton con GoreTex e Pile invece della lana.
Nel corso degli ultimi anni si è diffusa molto la pratica del trekking, dell’alpinismo e dell’arrampicata sportiva, veri e propri fenomeni sociali. Per molti l’andare in montagna è qualcosa che avvicina a un’entità trascendentale, quasi un atto religioso per avvicinarsi a Dio o a un’entità spirituale. Che ruolo ha ricoperto e ricopre nella sua vita la spiritualità?
Per me l’andare in montagna è solo un fatto storico. L’alpinismo inizia con le leggende. La leggenda più famosa è quella di Milarepa, che mille anni fa dice di essere salito sul Kailash (sorride, ndr). Non è certamente andato sul Kailash, ma dice di essere andato, o la gente lo dice: è mitologia e molti di quelli che vanno in montagna, che hanno letto un pochettino e hanno letto bene, seguono più o meno questa leggenda, questa dimensione mitologica. Hanno ragione, tutta quest’attività ha ragione di esistere: bisogna descrivere come sono queste attività, e per me l’alpinismo è un fatto culturale e non un fatto sportivo. Il descrivere la roccia, anche se nell’arrampicata sportiva indoor si parlerebbe di plastica, fa parte della cultura della montagna. Siamo arrivati a questo sport che è bellissimo, però non tocca più l’alpinismo tradizionale.
Per concludere, ti porgo una domanda da apprendista “alpinista”, hai qualche segreto o consiglio da lasciare ai giovani?
No! Se li avessi, sarei un prete e non lo sono. In particolare, io non voglio essere di esempio: ho fatto le mie esperienze, descrivo tutto quello che concerne la montagna così com’è e non in maniera idealizzata. Una malattia dell’alpinismo è l’idealizzazione: faccio la mia attività secondo la mia età, non faccio l’attività di una volta e soprattutto oggi uso altri metodi per raccontare la montagna.
Grazie Reinhold!
Prego.
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La giassa, ovvero quando l’acqua diventa ferma
Se salire sulle pareti dei Militi equivale al balletto in cristalleria, l’arrampicata sulle cascate di ghiaccio è la danza sui cocci di vetro. Che il ghiaccio sia un elemento effimero, lo sappiamo tutti.
Chi, con la spavalderia degna del falesista, vorrebbe lanciarsi su un grado di molto superiore al suo per provare il passaggio chiave del tiro?
Chi desidererebbe provare un volo su un chiodo a vite?
Le cascate di ghiaccio sono la quarta dimensione dell’arrampicata. Una lettura della montagna diversa, molto vicina a quell’ambiente rischioso che tanto piace a chi vuole andar per i monti, e non passando dalla via normale. Salire sulla granita, sul duro blocco di ghiaccio che sembra granito, salire su scaglie sottili di quest’acqua congelata con in mano due picconi evoluti e dei ramponi che sembrano rostri di navi romane è quello che il ventinovesimo corso di cascate di ghiaccio della Scuola di Alpinismo e Arrampicata Alberto Grosso ha proposto quest’anno: pochi gli allievi, dato l’ormai solito traffico sulle cascate domenicali. Pochi, si direbbe, ma buoni e volenterosi: alzarsi presto la mattina, acquistare il costoso materiale, tentare di spostare l’asticella del proprio limite non è da tutti.
Il corso, diretto da Umberto Bado, guida alpina e istruttore della scuola, e Sergio Ghiraldo, istruttore regionale di Alpinismo, ha voluto preparare gli allievi ad affrontare le pareti ghiacciate di questo mondo fermato dal freddo.
“Picozzare con dolcezza”
“spingi sulle gambe”
“fermati e sghisa prima della bollita”
Queste sono solo alcune parole che abbiamo sentito in questo mese tra gli allievi: il loro entusiasmo è stato contagioso. Gli istruttori dal canto loro non si sono tirati indietro: grande passione nell’attività e attenzione a curare la didattica per consegnare agli allievi il loro, piccolo o grande che fosse, sapere su questo mondo tutto ancora da scoprire. Ora, toccherà agli allievi, magari già il prossimo anno, avventurarsi per i monti alla ricerca del freddo e dell’effimero.
Il sito della scuola è: http://caiugetalp.com/
Vallone di Sea, intervista ai Fratelli Enrico
Il Vallone di Sea è un piccolo scorcio delle Valli di Lanzo, nascosto tra le insenature delle pareti di Forno Alpi Graie. Questo luogo, palestra per i rocciatori e bucolico antro per gli escursionisti più esigenti, si trova nel comune di Groscavallo, ai piedi della parete nord dell’Uja di Ciamarella. Recentemente, la giunta comunale ha manifestato interesse per un bando europeo che stanzierebbe cospicue somme per la realizzazione di piste agropastorali proprio nella valle solcata dalla Stura di Sea. Per opporsi a questa eventuale ma molto concreta possibilità, gli amanti della montagna, soci CAI e non, hanno manifestato il loro dissenso il 9 novembre 2016, riuniti in conferenza al Monte dei Cappuccini. Il Club Alpino Accademico Italiano (CAAI) è intervenuto con Ugo Manera, campione dell’alpinismo nostrano, e con il giovane Matteo Enrico che con l’associazione “Rocciatori Val di Sea” si sta impegnando per ripristinare e valorizzare alcuni pregevoli itinerari di arrampicata del Vallone, da qualche anno caduti nel dimenticatoio. Matteo, in collaborazione con il compagno di cordata e fratello Luca, anch’egli accademico e membro dell’associazione, ha gentilmente risposto alle nostre domande per offrire ai soci Uget una puntuale analisi della situazione.
D. La realizzazione dell’opera comporta oneri non marginali. Dove porterà e, soprattutto, arricchirà queste valli, le valli di Lanzo, troppo spesso dimenticate?
Le opere da realizzare per i progetti relativi a Sea e Trione (infrastrutture, in questo caso piste, per l’accesso e la gestione delle risorse forestali e pastorali) saranno coperte dal finanziamento europeo solo per l’80% dei costi complessivi. Gli oneri a carico del Comune di Groscavallo risulteranno pertanto essere di circa 220 mila euro, come dichiarato dal Sindaco durante la riunione del 12 settembre in Comune. In particolare la strada in Sea richiederà anche ingenti costi di manutenzione, vista la conformazione geologica e morfologica del vallone. Il comune non ha saputo produrre un piano costi-benefici nè dire per chi effettivamente tali opere saranno vantaggiose. Non ha per ora prodotto un progetto di fattibilità che possa giustificare i costi di consulenze, costruzione, gestione e il pesante tributo che pagherebbe l’ambiente naturale. Non bisogna dimenticare i negativi esempi già presenti in Val Grande e in particolare sul territorio del medesimo comune, in primis la fallimentare strada di Pera Berghina, sottoposta tra l’altro ad accertamenti, e quella di Mea-Vaccheria, che ha distrutto uno dei luoghi più belli delle Valli di Lanzo, come lo definì Gian Piero Motti nella guida “Palestre delle Valli di Lanzo”, ma anche quella di Santa Cristina, nel Comune di Cantoira. I benefici per l’economia della Val Grande e la popolazione in generale saranno inesistenti: queste opere non portano a nessuno sviluppo economico o turistico, come dimostra la costruzione delle strade appena citate. Questa logica di accaparrarsi i fondi europei è assolutamente fallimentare per un’ipotesi di sviluppo a lungo termine perché non ha alla base un progetto strutturato.
Nella serata del 9 novembre scorso, si è affermato che il turismo nelle valli è aumentato. Si può dire quindi, che questa pista sarà un buon strumento per favorire nuovi progetti nel settore turistico?
Il turismo “ecosostenibile” composto anche da tanti stranieri che vedono nelle Valli di Lanzo uno dei pochi luoghi ancora selvaggi e incontaminati delle Alpi non vuole strade ma sentieri meglio segnalati e infrastrutture per l’accoglienza nei paesi di fondovalle. Una pista vista in ottica turistica è anacronistica e dimostra la non conoscenza delle nuove esigenze. In questo modo si torna indietro, alle storture architettoniche create tra gli anni ’60 e ’80 che purtroppo, ancora oggi, deturpano in maniera irrimediabile il territorio. Altre valli piemontesi che hanno puntato su un certo tipo di turismo riscuotono oggi grande successo, vedasi ad esempio la Val Maira.
Per questa pista sono previste opere di sbancamento della montagna; la zona è anche molto amata dagli scialpinisti più attenti, che nel bivacco Soardi Fassero possono riposarsi prima di affrontare i pericolosi pendii. Quali, dunque, i rischi per l’eventuale pista?
I versanti del vallone sono ripidi e battuti dalle grandi valanghe, come d’altra parte indicato nei piani geologici regionali e ben spiegato dal geologo Paolo Barillà nella già citata conferenza del 9 novembre. Pertanto non solo una strada avrebbe un utilizzo annuale molto limitato ma sarebbe soggetta a manutenzione continua, e quindi a costi elevati, tutti a carico del piccolo Comune. Nel momento in cui la disponibilità economica diventasse insufficiente quest’opera verrebbe abbandonata a se stessa e in poco tempo diventerebbe inutilizzabile, ma il danno al vallone rimarrebbe. Anche l’intervento di Paolo Ghisleni, ex funzionario della Regione Piemonte ed esperto di Piani di Sviluppo Rurale, ha dimostrato, calcoli alla mano, che la strada del Trione, per lo sviluppo della filiera del legno, è un’infrastruttura in perdita che potrebbe venire sfruttata al più per una decina d’anni.
Il CAI Torino, ma anche il CAAI e moltissime associazioni ambientaliste, si sono mossi e hanno deciso di opporsi a questa costruzione, forse anche per cercare di proteggere un ambiente dell’alpinismo occidentale…
Il CAI tutto ha come primo articolo la difesa dell’ambiente montano, quindi è naturale e doveroso che si opponga a un progetto che distruggerebbe un ambiente con caratteristiche uniche. La finalità del CAI è quella di valorizzare e incrementare l’escursionismo, l’alpinismo e l’arrampicata senza intaccare l’ambiente, certo anche delle ricadute economiche che si avrebbero da queste attività su tutta la valle. Inoltre, il CAI UGET possiede nel Vallone un importantissimo bivacco, con una valenza alpinistica notevole, dedicato a Nino Soardi e all’indimenticabile Marco Fassero, perito giovane sulla Gura e che sicuramente, avendolo conosciuto molto bene, non avrebbe apprezzato un simile scempio.
Nell’immediato futuro, quali le mosse? Ci sono proposte alternative a questa pista?
Le mosse sono quelle di sensibilizzare la popolazione cercando di spiegare che l’opera, ammesso che servirà, sarà solo a fruizione di pochissimi. Così com’è necessaria la sensibilizzazione sui soldi pubblici spesi dal Comune per le consulenze e per coprire il 20% dei costi. Ma non basta opporsi, dire sempre no, bisogna proporre l’incremento del turismo e soprattutto di quel turismo che cerca in queste valli una bellezza ancora incontaminata, portando di fatto soldi. Stiamo parlando, come già detto, del ripristino della rete sentieristica, ora in stato di preoccupante degrado, e della promozione turistica del patrimonio paesaggistico e naturale di queste valli. Sono molti gli stranieri (soprattutto tedeschi, olandesi, del Nord Europa) ma anche italiani di altre regioni che rimangono entusiasti della bellezza selvaggia di queste valli, ma basiti di fronte all’assenza di cura dei sentieri.
Qualcosa di positivo si sta facendo a Balme, culla dell’alpinismo piemontese, dove sono già sorti ben tre posti tappa che vivono su questo tipo di turismo. Perché allora non proporlo anche in Val Grande? Con un ritorno economico importante a fronte di investimenti molto ridotti e ricadute ambientali nulle. Pensate che la guida escursionistica più aggiornata delle Valli l’ha fatta un tedesco! Vorremmo anche ricordare l’opera di ripristino di alcune vecchie vie di Gian Carlo Grassi e l’apertura di nuovi itinerari nel Vallone di Sea, vie splendide, che in poco tempo hanno richiamato numerosi scalatori, tutti entusiasti del posto e delle vie percorse. Il Vallone di Sea non ha niente da invidiare alla vicina Valle Orco, infatti insieme a Marco Blatto e Flavio Parussa abbiamo in progetto la realizzazione di una guida di arrampicata, bilingue. Non bisogna però dimenticare la pastorizia, a tal proposito la proposta già fatta dalla minoranza d’opposizione del Comune è quella di cercare di ripristinare alpeggi già serviti da strade esistenti, in zone tra l’altro molto più prative e sfruttabili, senza bisogno di costruire nuove piste.
Andrea Castellano