La nascita della Palestra indoor al Palazzo a Vela di Torino.
Testo di Andrea Giorda Caai – Alpine Club UK. Foto archivio Giorda.
È possibile praticare uno sport senza un allenamento specifico? Se lo chiedete ad un ragazzo che inizia ad arrampicare oggi, vi dirà che è impossibile scalare senza allenarsi su prese di resina o su un trave, eppure fino a pochi decenni fa l’idea che l’arrampicata fosse uno sport e avesse bisogno di un allenamento specifico era quasi un’eresia. Il tutto parte dalla grande domanda se l’alpinismo sia uno sport o qualcosa d’altro.
1980 Andrea Giorda e Gerard Sallette, dimostrazione d’arrampicata 1980 scimmie metropolitane: G. Sallette, A. Giorda e V. Valli.
1980 dimostrazione roccia con scarponi e casco. 1980 dimostrazione ghiaccio con scarponi e casco
Non è una domanda alla quale è semplice rispondere, se pensate che nessuno sport al mondo ha una letteratura immensa come quella dell’alpinismo e ogni anno escono titoli a raffica, segno di un interesse che continua e che va oltre il risultato atletico/sportivo.
Anzi, da sempre i praticanti e gli intellettuali si dividono tra chi vede l’alpinismo come qualcosa vicino all’esplorazione o un percorso interiore, fatto di fratellanza, sfide…quasi una missione e chi invece come una prova muscolare e psicologica per superare difficoltà su roccia o su qualsiasi terreno. Ad aggravare questa lontananza di visioni ci si mise pure il Cai di Angelo Manaresi, al tempo del fascismo, che in pratica accomunava l’alpinista all’alpino, per cui ogni alpinista era un alpino pronto a prendere le armi per difendere i sacri confini della patria. Il Cai, durante il ventennio, non per nulla fu portato a Roma e divenne un importante organo di propaganda, con i suoi eroi e i suoi morti da celebrare. Sono note le foto di Giusto Gervasutti con il Duce o quelle di Emilio Comici vestito da Podestà. Hitler fece altrettanto, emblematica è la storia della conquista della Nord dell’Eiger e le polemiche sull’appartenenza alla fede nazista di molti protagonisti tra cui Andreas Heckmair, il vincitore.
Cosa c’entra questo con l’allenamento direte voi? C’entra eccome, perché questo sentirsi super partes degli alpinisti e la convinzione di appartenere ad un popolo eletto, nato con la missione di scalare le montagne, ha tenuto per anni la pratica dell’alpinismo lontano dalle più elementari regole dello sport. Negli anni ’70, il livello dell’arrampicata è cresciuto enormemente e i giovani, come spesso succede, hanno messo in dubbio le certezze di chi scalava le montagne nelle generazioni precedenti. Gian Piero Motti, è noto come l’ideatore del Nuovo Mattino, che non è una rivoluzione tecnica ma un cambio di visione, diceva “Le montagne si amano, non si conquistano…” e “le vie portano all’altipiano, non ad una vetta” insomma non vi era nulla di eroico nella scalata, ma un senso di libertà e semmai una sfida interiore che si poteva vivere anche su piccole pareti di fondovalle. Il passo successivo negli anni ’80 è stata la nascita dell’arrampicata con protezioni fisse, gli spit diremmo oggi, che permetteva di arrivare al limite e cadere senza conseguenze. Un’eresia per molti. Tanto che ci fu un combattuto fronte di opposizione a questa pratica.
Si scoprì presto che questi eretici, come Patrick Berhault per esempio, erano in grado di scalare vie come l’Americana al Dru in poche ore. Io stesso nel 1981 lo incontrai insieme a Jean Marc Boivin al Rognon dei Dru, in una sola giornata avevano scalato l’Aiguille du Fou e il Dru per le vie americane. Le vie più difficili del Monte Bianco. Con queste premesse si può comprendere quante difficoltà abbia incontrato Andrea Mellano, che in occasione della ristrutturazione del Palazzo a Vela di Torino propose, alla fine degli anni ’70, di costruire una palestra di allenamento per l’arrampicata indoor. Andrea era ed è un alpinista di grande caratura, con prime a raffica e vie che sono entrate nel nostro immaginario come la Mellano-Perego-Cavalieri al Becco di Valsoera ed è stato protagonista nella cordata italiana che per prima ha scalato l’Eiger. Non un fanatico del pannello dunque, ma uno che l’alpinismo lo praticava ad altissimo livello. Conosco Andrea da quarant’anni e credo che le sue doti principali siano la determinazione di concentrarsi su di un obiettivo alpinistico o di progetto, la forza di aggregazione intorno ad esso e soprattutto la capacità di vedere sempre oltre, quasi di leggere il futuro, senza dogmi o preconcetti. Sempre con il sorriso sulle labbra, che sdrammatizza ogni difficoltà. Mellano nasce fabbro e operaio e grazie alla sua caparbietà si laurea in architettura, quando si progetta la nuova palestra di arrampicata del Palazzo a Vela il suo contributo tecnico è determinante. Non vi sono riferimenti da copiare, le pochissime palestre indoor esistenti non sono significative. Lui con strutture in cemento, lastroni di pietra di Luserna e legno crea un vero capolavoro, che sarebbe utilissimo ancora oggi. Ci sono le placche di vera pietra, i diedri, le prese su muri verticali, i tetti, le dulfer fatte con assi di legno variabili e tre diverse fessure, per dita, pugno e off width. Alta 9 metri e 50 metri di sviluppo lineare. Le palestre di oggi mancano di tutto questo e ripropongono solo le prese più o meno strapiombanti. Averla distrutta, in occasione delle Olimpiadi nel 2006, è stato un grande danno. Quella palestra era molto simile all’arrampicata su roccia. Quelle attuali sviluppano la forza, ma non la tecnica di dulfer, di fessura, di placca inclinata, la ricerca degli appigli (ora sono numerati!)… ed anche a questo si deve la difficoltà di chi inizia ai nostri giorni a scalare sulla roccia e proviene dalle palestre indoor.
1982 inaugurazione, Reinhold Messner e Wanda Rutkiewicz. 1984 A. Giorda sui muri della palestra del Palazzo a vela. 1982 inaugurazione: Andrea Giorda scopre la targa a Guido Rossa
Nella Palestra del Palazzo a Vela c’era anche una grande piramide di Tartan, una gomma nata per le corsie sintetiche dell’atletica. L’idea geniale di Mellano fu quella di potersi esercitare per la Piolet Traction, tecnica di scalata su ghiaccio nata da poco. Funzionava niente male, anche in questo è stato visionario Andrea, anticipando l’idea di dry tooling. Nel 1980 fui chiamato con sorpresa, con Gerard Salette e Valeria Valli ad organizzare i primi corsi di arrampicata, accettai perché da studente era un sogno ad occhi aperti, mi pagavano per scalare!! Ma io stesso ero spaesato, ricordo che proprio Berhault, non ancora così famoso mi chiese chi si sarebbe iscritto ai corsi e io non sapevo che dire e me ne uscii con una battuta infelice… boh forse le casalinghe e ridemmo ingenuamente. Ma così fu, arrivò una mamma con la sua bambina, una rivoluzione. Per la prima volta veniva ad arrampicare qualcuno che non sarebbe mai andato in montagna, o su una parete vera, ma praticava lo sport arrampicata con buona pace dei resilienti malmostosi che tuttavia rimanevano.

All’inaugurazione, con il Sindaco Diego Novelli, Massimo Mila, fu invitato anche Reinhold Messner, che nel suo massimo splendore, fresco di Everest senza ossigeno, disse in pratica che l’avventura inizia dove finisce la falesia, forse non era il posto più adatto per dirlo (!). Messner è stato uno scalatore fortissimo su roccia, i suoi passaggi in libera sul Sass dla Crusc fanno tremare ancora oggi, e mi aspettavo un altro approccio. Nei suoi libri lui racconta di allenamenti meticolosi, ma forse la sua rampogna si riferiva alla scalata con gli spit. Lui era contrario, aveva coniato il termine “assassinio dell’impossibile”. Al Palazzo a Vela ho visto passare tutti i protagonisti dell’arrampicata degli anni 80 come Andrea Gallo o Patrick Edlinger… e successivamente l’ha frequentata anche Marzio Nardi, che con i soldi delle prime gare di arrampicata aprì insieme a Luca Gianmarco il Bside di corso Bramante , una sala boulder dalla concezione innovativa, con pannelli in legno e prese di resina. La Palestra del Palazzo a Vela fu dedicata dalla città a Guido Rossa grande scalatore, assassinato dalle Brigate Rosse quando era operaio e sindacalista all’Italsider di Genova. Insieme a Messner fui chiamato per inaugurare la targa che ora è custodita nei locali del Cai Uget di Torino e speriamo non vada, almeno quella, mai perduta.

Approfondimenti: https://atlas.landscapefor.eu/category/secxx/poi/6560-palazzo-a-vela/