Nell’attesa di tornare ai nostri trekking
Testo di Eugenio Masuelli.
“Benedetto colui che viaggia”. Così scrive la scrittrice polacca vincitrice quest’anno del Nobel. Con grande impudenza, io oso aggiungere alle sue parole che ogni viaggio vero comincia con un segnale intimo, con un evento anche minimo che si possa interpretare come ingresso in una nuova, seppur provvisoria, dimensione.
A mezzogiorno l’autobus che ci trasporta da Torino è arrivato nei pressi di Vicenza. Pranziamo alla buona in un autogrill, con panini. Chiedo al bar una bottiglietta d’acqua. Il ragazzo mi guarda con aria interrogativa: “Bottiglietta? È un diminutivo?”. Rispondo, un po’ imbarazzato, che sì, certo… e aggiungo, per completare il misfatto, che l’acqua io la vorrei gassata. Mi sento chiedere: “Lei intende dire, forse, con l’anidride carbonica?”. Già, avrei magari dovuto chiedere acqua frizzante. Comunque sia, mi coglie la benefica sensazione di “quel” qualcosa di diverso che aspettavo per farmi certificare che io fossi davvero in viaggio: una diversità introdotta, in questo agosto 2019, dal linguaggio. Similmente, nei giorni seguenti ascolterò una parola che non io usavo più da molto tempo: “la corriera”, per dire l’autobus. La dolcezza dell’accento veneto aggiungerà musica. Una musica solo episodicamente intervallata da accenti più aspri provenienti dall’antica lingua Cimbra. Questo è l’inizio del breve racconto, oltre che del breve soggiorno, nell’altopiano di Asiago.
Già nella prima passeggiata ci s’imbatte in una pianta dal nome memorabile: “Impatiens Glandulifera”, un’essenza tanto bella quanto infestante, che proviene – se ricordo – dalle regioni dell’Himalaya. Appena tu tocchi i frutti, questi scoppiano, distribuendo i semi per l’aria. È un divertimento assicurato, raccontano le guide, per i bambini della valle: eppure anticipa, in questa sua levità, il sinistro principio degli “shrapnel”, gli ordigni di guerra dai micidiali contenuti. Le guide spesso ci mostreranno quelle minuscole palline di piombo “così ancora ben presenti nei sentieri”: dopo averle invece estratte, con rapida mossa, e consumata perizia didattica, dalle loro tasche. Poco dopo la Glandulifera, ecco un’altra presenza – e un altro nome esotico: il Ragno Argonauta. Non lo ritroverò su Wikipedia, né gli esperti sapranno dirmi: nuovi nomi, nuovi luoghi.
Occorre, a questo punto, una minima descrizione dei luoghi, cambiando il registro narrativo e sperando di non troppo annoiare. L’Altopiano (Rigoni Stern usa spesso il termine: altipiano) è una piattaforma quadrangolare, un elevato acrocoro, un continente a sé – costituito di suolo carsico: l’acqua non vi si trattiene, sprofonda, riaffiorerà nella sottostante pianura vicentina, settecento metri più in basso, per alimentare acquedotti.
Le genti dell’Altopiano costituivano la Spettabile Reggenza dei Sette Comuni, un’entità fieramente autonoma rispetto alla Serenissima Repubblica, alla quale pure era legata da vincoli commerciali e geopolitici. Erano infatti, quelle genti, il tramite e la difesa di Venezia nei confronti del sempre incombente mondo asburgico: il leone di San Marco qui è raffigurato con il vangelo chiuso tra le zampe – segnale di attenta vigilanza, se non di guerra. Territorio fra Trentino e Veneto, protagonista nella geografia e nella Storia, nel 1915 confine con l’Impero Austro Ungarico, l’Altopiano rappresentava per il nostro nemico di allora la via più veloce per la calata sulla pianura, per tagliare ogni rifornimento al fronte italiano a est e, di fatto, per vincere la guerra. Ciò spiega perché l’Altopiano fu il nostro unico fronte bellico in cui combattimenti si svolsero ininterrottamente per quarantuno mesi, fino al novembre del 1918. Il cosiddetto Salto del Granatiere, che è stata una meta delle nostre escursioni, apre significativamente lo sguardo dal Monte Cengio verso la pianura vicentina. La vista è irresistibile per qualunque potenziale invasore; è simile a quella che forse Annibale ebbe dai valichi alpini sull’immensa pianura padana. Per non dire, poi, che quella pianura il nemico l’aveva già posseduta, insieme con l’Altopiano stesso, fino a cinquant’anni prima. I combattimenti come si diceva ininterrotti – iniziarono il 24 maggio del 1915, con il colpo di cannone italiano sparato dal Forte Verena alle ore quattro del mattino. Tutti ricordiamo le situazioni e i motivi per cui quella guerra fu dichiarata da noi, dagli italiani di allora: e tuttavia il suono della prima cannonata dalla nostra parte, come se ancora rimbombasse in questi luoghi uscendo dai libri di Storia, rende leggibile con qualche imbarazzo la definizione di “barbarica orda d’invasori” apposta sulle lapidi dei nostri Caduti – soprattutto nel ventennio fascista – per indicare il nemico.
Servirono, quei quarantuno mesi, a popolare i quarantuno cimiteri militari nell’Altopiano, in cui si leggono sulle croci nomi italiani, inglesi, francesi e austro-ungarici: questi ultimi nomi, a loro volta, testimoniano la decina di lingue parlate nei diversi luoghi dell’Impero multietnico allora nemico. Ma anche dalla nostra parte c’erano differenze di dialetti e di etnie: l’impavida brigata Sassari non era meno dissimile dalle altre truppe italiane, di quanto i suoi prodi avversari Bosniaci, sul Monte Fior, non lo fossero rispetto a un battaglione ungherese o galiziano del loro stesso esercito imperiale. Di consolante accade che, da qualche anno, ogni sette di giugno le rappresentanze di quei paesi combattenti si ritrovino sul Monte Fior e rinnovino amicizia, trasformando in positivo, con questo gesto, il ricordo tragico di quanto accadde tra gli opposti fili spinati. Noi, escursionisti in vacanza, abbiamo percorso alcune trincee vivendo il limitato disagio di qualche minuto – e non di anni interi tra fango e gelo: l’Altopiano è noto per temperature invernali bassissime. Tra tutte le privazioni patite, la maggiore era la perdita della ragionevole speranza, per noi invece abitudine dell’animo, di vedere sorgere il giorno successivo. Alcuni dei numerosi cimiteri di guerra che stiamo visitando, divenuti oggi sacrari, venivano fatti predisporre dai Comandi nei tempi immediatamente antecedenti all’inizio della battaglia, nelle zone più opportune. La creazione preventiva del cimitero faceva parte della logistica della guerra: l’ovvia necessità, il cui pensiero tuttavia turba e disturba il visitatore, veniva bilanciata – così un po’ ci si placa – dalla pietas per cui la terra prescelta accoglieva poi i Caduti di entrambe le parti.
In definitiva se ci fu mai una guerra in cui tutti perdettero, tutti perdemmo, quella fu la Prima Guerra. La Storia ha certificato la nostra punizione: la Seconda che avvenne solo vent’anni dopo. Altre prove ha però subito l’Altopiano, in tempi attuali. Su recenti pagine di questo bollettino si è parlato della tempesta Vaia. Noi ora, nelle nostre camminate, stiamo osservando a lato dei sentieri i tronchi degli abeti rossi sradicati nell’ottobre 2018; le guide ci spiegano che ora essi vengono tagliati e accatastati da poderosi macchinari denominati Harvesters (i mietitori) capaci di lavorare anche sulle linee di massima pendenza: vi ci operano ditte slovene, tedesche e perfino estoni. Il legno sarà trasportato a Trieste e da lì in Cina, attraverso la Nuova Via della Seta. Gli abeti rossi, caratterizzati dalle radici superficiali, furono impiegati per i rimboschimenti del Novecento, quando si trattava di rivestire l’arida pietraia in cui gli effetti della guerra avevano trasformato l’altopiano, un tempo verdeggiante. Gli abeti rossi erano dunque essenze fragili: ma, in verità, nessun altro albero avrebbe retto l’impeto dei venti a centottanta chilometri l’ora e le raffiche al suolo della tempesta. Vaia leggiadro nome di donna scelto dalla Libera Università di Berlino e poi divenuto popolare – è stato l’assalto del terzo millennio: questo, nessuna trincea e nessun esercito hanno potuto respingerlo.
Se il rimboschimento, di cui si è detto, fu una delle attività economiche prevalenti per le popolazioni dell’Altopiano, l’altra fu quella dei Recuperanti: coloro che si dedicavano, non certo senza rischi, a raccogliere ed estrarre i residuati metallici sparsi con tragica abbondanza dagli arnesi della guerra. Durante un’escursione si è costeggiato il set del film che Ermanno Olmi dedicò al tema e ai suoi protagonisti, avvalendosi della sceneggiatura di Rigoni Stern. I proiettili dei grossi calibri da 305 millimetri, invece, ancora oggi vigilano intatti, posti in verticale, accanto ai monumenti ai Caduti. È tempo di far cenno agli scrittori che hanno accompagnato con le loro pagine le escursioni. I loro nomi, alcuni molto famosi, si distribuiscono pariteticamente sulle opposte trincee: Gadda, Stuparich, Monelli, Musil, Hoffmannstahl, Kafka. Così, Un Anno sull’Altopiano dell’ufficiale sardo Emilio Lussu, classe 1890, si contrappone per esempio, negli stessi luoghi e tempi – e a volte nelle medesime scene vissute dalla parte avversa – La Fine di Un’Armata (Das Ende Einer Armee) del tenente Fritz Weber, viennese, classe 1895. Questi scritti di guerra rappresentano spesso un’accusa amara e spietata formulata dai combattenti di entrambi i fronti; su questi confini era stata scagliata in armi (o si era essa stessa scagliata scambiando, all’inizio, la guerra per un’esperienza mistica e necessaria) la gioventù del primo Novecento: la letteratura esprime ciò che non si riuscirebbe, altrimenti, a separare dall’angoscia. In questi scenari, dunque, sono avvenute le escursioni giornaliere: una meta particolarmente viva nel ricordo è la Cima Pòrtule – forse perché è montagna simile alle nostre piemontesi, forse per il bel nome cimbro di Punta Kempel, forse perché la giornata, più risparmiata delle altre dal maltempo, permetteva la vista sull’Alta Valsugana e lasciava indovinare, a ovest, il confine trentino.
Ma era anche una salita faticosa. Ricordo bene il successivo crearsi, all’interno del serpentone umano, sempre più allungato nell’ultima e più scoscesa parte del percorso, di due correnti di pensiero. La prima vorrebbe soste più frequenti, la seconda proclama la marcia ad oltranza, perché “la sosta raffredda i muscoli” (il lettore indovinerà a quale corrente io, mite cronista al seguito, appartenessi). Si affida il responso alle giovani guide della Cooperativa dell’Altopiano: le quali si astengono, saggiamente, da pronunciare sentenze; in realtà, poi, approfitteranno di ogni opportunità di osservazione storica e naturalistica per instaurare momenti di quiete nella salita. In uno di questi excursus s’inserisce, non saprei se per simulata casualità, un racconto: di come gli Imperiali (così, ancora oggi, vengono quassù definiti gli Austro-Ungarici) avessero conquistato, nella primavera del 1916, proprio questa Cima Pòrtule – che in origine era italiana. Nella battaglia, racconta la guida, un plotone austriaco, incaricato di allestire le reti telefoniche, non riusciva a procedere nell’ascesa, resa più difficoltosa dalla neve. Alcuni di quei soldati, stremati dal pesantissimo carico sulle spalle, piangevano: rischiavano di ammutinarsi, forse. Il comandante alla fine ordinò di procedere “facendo cinque minuti di sosta ogni tre di salita”. La cima fu così raggiunta, le linee furono attivate. (La morale del racconto parrebbe così favorire, persino esagerandone le pretese, la corrente di pensiero più mite, la mia). La lunga strada carrozzabile della cima Pòrtule, denominata Strada dell’Arciduca Eugenio, costruita dai genieri austriaci in trentadue giorni, è ancora oggi ben tracciata: la percorriamo nel giro del ritorno. Lungo il cammino scorgiamo i cartelli che indicano l’imminente gara di Corsa Montana. Certamente è incoraggiante che il sinistro nome:
“Strafexpedition” spedizione punitiva, si ispiri alla famosa offensiva del generale Conrad nel 1916 solo per battezzare, oggi, una gara sportiva pacifica e internazionale (per quanto durissima).
Nel penultimo giorno si salgono i quattromila quattrocento quarantaquattro scalini (c’è stato chi, tra noi, li ha contati) della celebre Calà di Sasso, che portano dalle acque calme del Brenta – a monte di Bassano del Grappa – su, su fino all’altopiano: alla frazione appunto di Sasso. Al termine della impresa, una trattoria amichevole presenta ai pellegrini un’ostessa graziosa, bionda ed esuberante. La quale s’informa, in giro, della mia età e poi m’invita a ballare. Prevale la timidezza, e si acuisce il rimpianto di non aver imparato nella vita, ormai lunga, passi di danza. Mi scuso, ora e qui, con la padroncina bionda che mi aveva preso in simpatia. Tutti gli errori si pagano. Il Ponte di Andrea Palladio a Bassano, visto soltanto attraverso i vetri del bus (meglio: della corriera), è simbolo del rimpianto che un po’ rimane: l’aver tanto visto, marciando nei cinque giorni, ma non tutto quello che si doveva. Intanto, le maestranze del Caseificio di Asiago – una destinazione ineliminabile per i buongustai del formaggio, categoria alla quale purtroppo non appartengo – si stanno chiedendo ancora oggi che cosa quel visitatore torinese intendesse, quando – in un giorno piovoso di agosto – aveva chiesto, davanti al bancone ben fornito, “della Toma”… (Ancora, come si vede, questioni di lingua).
Asiago, 20 -25 agosto 2019

Trekking sull’Altopiano di Asiago
da domenica 25 a venerdì 30 agosto 2019
6 giorni di escursioni nelle zone dei campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale, sull’Altopiano di Asiago ed il Massiccio del Grappa.
