L’orma del genio

Due corsie automobilistiche parallele non si separano mai  a meno  che fra esse vada rispettata l’orma del genio.

Così avviene in Valle dell’Orco,  dove un sasso, fregiato da una spaccatura verticale al centro,  ha imposto un insolito rispetto ai costruttori di strade che normalmente non guardano in faccia niente e nessuno. E’ il masso Kosterlitz, e costituisce la lezione di fisica superiore che Mike Kosterlitz, scalatore scozzese a Torino per studio, diede nell’alba del Nuovo Mattino ai suoi amici torinesi senza macchia, né paura.

Il Masso Kosterlitz come appariva nel 1989, durante la costruzione della strada (Rivista della Montagna numero 107, 1989)

Fu Roberto Bonelli il primo a capire la formula di quella fessura e tradurla in gesti latini. Doloroso e stupefacente è  il fatto che  lui ci abbia lasciato su una doppia di merda proprio negli stessi giorni in cui Mike vedeva riconoscere la grandezza delle sue ricerche in fisica con l’attribuzione del premio Nobel.

I grandi fisici, al pari dei rocciatori visionari, hanno da sempre combattuto la forza di gravità, troppo generale, banale e dominante per poter affascinare dei cuori ribelli.  Archimede la sconfisse nella vasca da bagno, dando via libera all’arte dell’immersione subacquea , altri ricercatori pur restando affascinati dalla dimostrazione di forza che solo una parete verticale può dare, hanno cercato di domarla ricorrendo all’infinitamente piccolo per trovare sconosciute forze interattive, equilibri ed appigli ancora inediti.

Yuki sale la fessura Kosterlitz
Tentando la fessura (Yuki Weber)

Altra sicura caratteristica del genio è il “passo di fianco” che permette di vedere un problema da un altro punto di vista da cui, anziché orrido e repulsivo, esso  si presenta risolvibile. Mike Kosterlitz ne diede la dimostrazione a Motti e Grassi nel celebre traverso de La via del Sole Nascente, dove scoprì un modo di star su ancor sconosciuto al resto del mondo. Fu un passo di fianco per tutta la storia dell’arrampicata destinata a cambiare drasticamente come conseguenza di tali risultati e riproporre altre frontiere tra il possibile e l’impossibile. Ma la canzone da cui è stato tratto il nome di tale via esorta i giovani a non entrare nella casa del sole nascente, gran rovina dell’umanità e invece per quella via ci passò addirittura la storia dell’arrampicata destinandosi  a perdere l’anima e la mente per  rimanere sola coi suoi muscoli di fronte alla forza di gravità.

Effetti collaterali che non sempre l’inventore può prevedere, lezioni in cui uno ha creduto di spiegare una cosa e l’altro di capirne un’altra.

Mike Kosterlitz  ha continuato ad arrampicarsi nel lato sconosciuto della fisica anche quando il corpo non riusciva più a sostenerlo nell’arrampicata estrema; sulla via che l’ha portato al Nobel ha incontrato problemi  davvero difficili e li ha risolti con soluzioni inaspettate come quelle tipiche dell’arrampicata libera d’un tempo, quando il cervello veniva ancora invitato dai signori muscoli a sgranchirsi fra appigli ed appoggi.

Le  orme di Kosterlitz fortunatamente non sono leggere come quelle d’uccello nel cielo, al pari di quelle del Budda,  provare a ripestarle sarebbe un’ottima idea per un giovane  che voglia imparare a far volare il cervello.

Andrea Gobetti

Federico tenta il passaggio Perucca sul masso Kosterlitz
Federico Fornace, allievo istruttore della Scuola Grosso, tenta il “passaggio Perucca” (7a) sul Masso Kosterlitz. (ph. A. Castellano)

Vallone di Sea, intervista ai Fratelli Enrico

Il Vallone di Sea è un piccolo scorcio delle Valli di Lanzo, nascosto tra le insenature delle pareti di Forno Alpi Graie. Questo luogo, palestra per i rocciatori e bucolico antro per gli escursionisti più esigenti, si trova nel comune di Groscavallo, ai piedi della parete nord dell’Uja di Ciamarella. Recentemente, la giunta comunale ha manifestato interesse per un bando europeo che stanzierebbe cospicue somme per la realizzazione di piste agropastorali proprio nella valle solcata dalla Stura di Sea. Per opporsi a questa eventuale ma molto concreta possibilità, gli amanti della montagna, soci CAI e non, hanno manifestato il loro dissenso il 9 novembre 2016, riuniti in conferenza al Monte dei Cappuccini. Il Club Alpino Accademico Italiano (CAAI) è intervenuto con Ugo Manera, campione dell’alpinismo nostrano, e con il giovane Matteo Enrico che con l’associazione “Rocciatori Val di Sea” si sta impegnando per ripristinare e valorizzare alcuni pregevoli itinerari di arrampicata del Vallone, da qualche anno caduti nel dimenticatoio. Matteo, in collaborazione con il compagno di cordata e fratello Luca, anch’egli accademico e membro dell’associazione, ha gentilmente risposto alle nostre domande per offrire ai soci Uget una puntuale analisi della situazione.

Le porte del Vallone di Sea
Le Porte del Vallone di Sea, ph. Fulvio Adoglio

D. La realizzazione dell’opera comporta oneri non marginali. Dove porterà e, soprattutto, arricchirà queste valli, le valli di Lanzo, troppo spesso dimenticate?

Le opere da realizzare per i progetti relativi a Sea e Trione (infrastrutture, in questo caso piste, per l’accesso e la gestione delle risorse forestali e pastorali) saranno coperte dal finanziamento europeo solo per l’80% dei costi complessivi. Gli oneri a carico del Comune di Groscavallo risulteranno pertanto essere di circa 220 mila euro, come dichiarato dal Sindaco durante la riunione del 12 settembre in Comune. In particolare la strada in Sea richiederà anche ingenti costi di manutenzione, vista la conformazione geologica e morfologica del vallone. Il comune non ha saputo produrre un piano costi-benefici nè dire per chi effettivamente tali opere saranno vantaggiose. Non ha per ora prodotto un progetto di fattibilità che possa giustificare i costi di consulenze, costruzione, gestione e il pesante tributo che pagherebbe l’ambiente naturale. Non bisogna dimenticare i negativi esempi già presenti in Val Grande e in particolare sul territorio del medesimo comune, in primis la fallimentare strada di Pera Berghina, sottoposta tra l’altro ad accertamenti, e quella di Mea-Vaccheria, che ha distrutto uno dei luoghi più belli delle Valli di Lanzo, come lo definì Gian Piero Motti nella guida “Palestre delle Valli di Lanzo”, ma anche quella di Santa Cristina, nel Comune di Cantoira. I benefici per l’economia della Val Grande e la popolazione in generale saranno inesistenti: queste opere non portano a nessuno sviluppo economico o turistico, come dimostra la costruzione delle strade appena citate. Questa logica di accaparrarsi i fondi europei è assolutamente fallimentare per un’ipotesi di sviluppo a lungo termine perché non ha alla base un progetto strutturato.

Nella serata del 9 novembre scorso, si è affermato che il turismo nelle valli è aumentato. Si può dire quindi, che questa pista sarà un buon strumento per favorire nuovi progetti nel settore turistico?

Il turismo “ecosostenibile” composto anche da tanti stranieri che vedono nelle Valli di Lanzo uno dei pochi luoghi ancora selvaggi e incontaminati delle Alpi non vuole strade ma sentieri meglio segnalati e infrastrutture per l’accoglienza nei paesi di fondovalle. Una pista vista in ottica turistica è anacronistica e dimostra la non conoscenza delle nuove esigenze. In questo modo si torna indietro, alle storture architettoniche create tra gli anni ’60 e ’80 che purtroppo, ancora oggi, deturpano in maniera irrimediabile il territorio. Altre valli piemontesi che hanno puntato su un certo tipo di turismo riscuotono oggi grande successo, vedasi ad esempio la Val Maira.

Bivacco Soardi Fassero nel Vallone di Sea
Bivacco Soardi Fassero, 2207. Ph. Fulvio Adoglio

Per questa pista sono previste opere di sbancamento della montagna; la zona è anche molto amata dagli scialpinisti più attenti, che nel bivacco Soardi Fassero possono riposarsi prima di affrontare i pericolosi pendii. Quali, dunque, i rischi per l’eventuale pista?

I versanti del vallone sono ripidi e battuti dalle grandi valanghe, come d’altra parte indicato nei piani geologici regionali e ben spiegato dal geologo Paolo Barillà nella già citata conferenza del 9 novembre. Pertanto non solo una strada avrebbe un utilizzo annuale molto limitato ma sarebbe soggetta a manutenzione continua, e quindi a costi elevati, tutti a carico del piccolo Comune. Nel momento in cui la disponibilità economica diventasse insufficiente quest’opera verrebbe abbandonata a se stessa e in poco tempo diventerebbe inutilizzabile, ma il danno al vallone rimarrebbe. Anche l’intervento di Paolo Ghisleni, ex funzionario della Regione Piemonte ed esperto di Piani di Sviluppo Rurale, ha dimostrato, calcoli alla mano, che la strada del Trione, per lo sviluppo della filiera del legno, è un’infrastruttura in perdita che potrebbe venire sfruttata al più per una decina d’anni.

Il CAI Torino, ma anche il CAAI e moltissime associazioni ambientaliste, si sono mossi e hanno deciso di opporsi a questa costruzione, forse anche per cercare di proteggere un ambiente dell’alpinismo occidentale…

Il CAI tutto ha come primo articolo la difesa dell’ambiente montano, quindi è naturale e doveroso che si opponga a un progetto che distruggerebbe un ambiente con caratteristiche uniche. La finalità del CAI è quella di valorizzare e incrementare l’escursionismo, l’alpinismo e l’arrampicata senza intaccare l’ambiente, certo anche delle ricadute economiche che si avrebbero da queste attività su tutta la valle. Inoltre, il CAI UGET possiede nel Vallone un importantissimo bivacco, con una valenza alpinistica notevole, dedicato a Nino Soardi e all’indimenticabile Marco Fassero, perito giovane sulla Gura e che sicuramente, avendolo conosciuto molto bene, non avrebbe apprezzato un simile scempio.

Nell’immediato futuro, quali le mosse? Ci sono proposte alternative a questa pista?

Le mosse sono quelle di sensibilizzare la popolazione cercando di spiegare che l’opera, ammesso che servirà, sarà solo a fruizione di pochissimi. Così com’è necessaria la sensibilizzazione sui soldi pubblici spesi dal Comune per le consulenze e per coprire il 20% dei costi. Ma non basta opporsi, dire sempre no, bisogna proporre l’incremento del turismo e soprattutto di quel turismo che cerca in queste valli una bellezza ancora incontaminata, portando di fatto soldi. Stiamo parlando, come già detto, del ripristino della rete sentieristica, ora in stato di preoccupante degrado, e della promozione turistica del patrimonio paesaggistico e naturale di queste valli. Sono molti gli stranieri (soprattutto tedeschi, olandesi, del Nord Europa) ma anche italiani di altre regioni che rimangono entusiasti della bellezza selvaggia di queste valli, ma basiti di fronte all’assenza di cura dei sentieri.

Qualcosa di positivo si sta facendo a Balme, culla dell’alpinismo piemontese, dove sono già sorti ben tre posti tappa che vivono su questo tipo di turismo. Perché allora non proporlo anche in Val Grande? Con un ritorno economico importante a fronte di investimenti molto ridotti e ricadute ambientali nulle. Pensate che la guida escursionistica più aggiornata delle Valli l’ha fatta un tedesco! Vorremmo anche ricordare l’opera di ripristino di alcune vecchie vie di Gian Carlo Grassi e l’apertura di nuovi itinerari nel Vallone di Sea, vie splendide, che in poco tempo hanno richiamato numerosi scalatori, tutti entusiasti del posto e delle vie percorse. Il Vallone di Sea non ha niente da invidiare alla vicina Valle Orco, infatti insieme a Marco Blatto e Flavio Parussa abbiamo in progetto la realizzazione di una guida di arrampicata, bilingue. Non bisogna però dimenticare la pastorizia, a tal proposito la proposta già fatta dalla minoranza d’opposizione del Comune è quella di cercare di ripristinare alpeggi già serviti da strade esistenti, in zone tra l’altro molto più prative e sfruttabili, senza bisogno di costruire nuove piste.

Andrea Castellano

Vasaloppet 2016, impressioni di viaggio

Marzo 2016. Quattro rappresentanti del gruppo agonistico di sci nordico: Carla Lagori, (che festeggiava l’agognata pensione), Roberta Magnetto, Sergio Cocordano ed Andrea Amerio hanno preso parte alla competizione amatoriale più lunga e  più antica del mondo: la mitica Vasaloppet.  Si corre dall’anno 1922, quando fu istituita per festeggiare i 400 anni di indipendenza della Svezia dal regno di Danimarca ad opera di re Gustavo I Vasa, da cui ha preso il nome. Il percorso si snoda per 90 chilometri da Sälen a Mora, in Svezia, nella regione di Dalarna.

Il viaggio é stato organizzato dall’agenzia di viaggi Running & More di Tesero, località nota ai frequentatori della Marcialonga. All’aeroporto di Stoccolma ci siamo uniti ad una simpaticissima e fortissima comitiva di fondisti trentini, capitanati dal maestro Carmine Tomio, che dedicherà la mattinata di sabato alla paraffinatura e sciolinatura degli sci di tutti i partecipanti. Con loro abbiamo condiviso momenti di spensierata allegria sia prima che dopo la gara.

Le condizioni meteo sono risultate perfettamente in linea con gli standard nordici: infatti, non s’è mai visto il sole, soprattutto nei giorni in cui siamo usciti con gli sci. Il venerdì precedente, sugli ultimi 17 km. del percorso, e la eomenica, giorno della gara, siamo stati accolti da abbondanti nevicate. La giornata della “Vasa” inizia molto presto, con sveglia alle 2:30 del mattino, colazione tra le 3 e le 3:30 e partenza per Sälen intorno alle 4:15, causa il traffico intenso ed i limiti di velocità che al nord sono molto rigidi. All’arrivo a Sälen la temperatura è di -2°e nevica abbondantemente, condizione che caratterizzerà circa due terzi di gara. La neve é molto veloce (molto più che durante la Marcialonga) ma, ahimè, i binari sono una chimera e quindirisulta molto difficile stare in equilibrio. Così l’effetto ”neve veloce” viene pesantemente annacquato.

Tre su quattro di noi riusciranno a tagliare il traguardo nei tempi massimi consentiti: bravi a tutti in ogni caso, alla Vasa è importante esserci!

Il lunedì si riprende la strada di casa e a Monaco di Baviera salutiamo i nuovi amici trentini, con la promessa di incontrarci nuovamente in tempi brevi.

Andrea Amerio, scuola fondo escursionismo

La magia della Vasaloppet

Che cosa è la Vasa? Miiiii, ma sei scemo? 90 chilometri sugli sci? Ma ti pagano? Sei sicuro di stare bene? 16.000 partenti?  Ma non è che cadi e ti calpestano? Ecco, più o meno l’approccio di chi ti è attorno è questo quando dici che vuoi cimentarti nella Vasaloppet.

Alla Marcialonga ormai ci sono abituati, in fondo sono “solo” 70 chilometri, ma alla Vasa no. Che cosa è la Vasa? Per tanti è una gara, una grande fatica che termina dopo 90 Km. Per noi che amiamo lo sci di fondo è molto, molto di più. E’ un’emozione che comincia dal momento in cui decidi di volerla fare e continua con la preparazione lunga ed intensa, eh sì perché 90 chilometri non si possono improvvisare. Eh, la preparazione: ma proprio quest’anno l’inverno deve arrivare a Marzo? Sembravamo dei rabdomanti della neve, a cercare qualche chilometro sul quale mettersi a fare i criceti. La Vasa, per chi ama il fondo è un sogno che ti sembra lontano, un qualcosa che percepisci come insormontabile e difficile da raggiungere (e ti credo, se non nevica!). Limitare la Vasa al mero risultato cronometrico non avrebbe senso, perché è tutto ciò che la precede e poi il viaggio, le nuove amicizie, le sensazioni di essere ‘dentro’ quell’evento che la rendono unica.

E’ una terra incognita la Vasa. Chi cavolo ha mai fatto 90 chilometri sugli sci? Sì, la Marcialonga sono 70, ma oramai la conosci a memoria, ma 90? Riferimenti non ne hai, non sai come gestire lo sforzo. E’ una terra che ti sfila sotto gli sci attraverso foreste, colline, laghi e fiumi, tutto ammantato di neve… e di fondisti. E’ una terra dai grandi spazi la Vasa: i paesi sono pochi e costituiti da quattro case nel vero e proprio senso della parola! La Vasa è una festa e lo capisci dalla gente presente ai bordi della pista che sin dal mattino aspetta il familiare, il parente o l’amico che ha deciso di cimentarsi nella competizione. La Vasa è l’emozione della mattina quando arrivi nella piana di Sälen e vedi un nugolo sterminato di sci (e i miei dove li metto?) e ti rendi conto di voler essere proprio lì e da nessun altra parte; sei lì che vuoi vivere quel momento e tutti gli istanti di quei 90 chilometri che sono di fronte a te. (Sì sì bello, bello, però sono sempre 90 per la miseria!).

E’ l’emozione della partenza quando 16.000 fondisti, tutti insieme, si muovono all’unisono; una fiumana colorata che, piano piano si snoda lungo il percorso (miiii, ma quando ci muoviamo?). E’ l’emozione dell’arrivo, quando sul rettilineo finale ti rendi conto che la meta ormai è lì, ce l’hai fatta e le fatiche degli allenamenti, della gara scompaiono e lasciano il posto alla gioia ed alla commozione.

Sergio Cocordano

Vasaloppet doping
Vasaloppet, il doping. Foto di Sergio Cocordano

A spasso tra i Massi Erratici della Bassa Val Susa

19 Febbraio 2017
Volantino Trail dei Massi Erratici

La notizia che gli Orchi Trailers di Rivoli, un bel gruppo di semplici amanti delle corse in natura, organizzano per il prossimo 19 febbraio 2017 il Trail dei Massi Erratici (iscrizioni aperte!) ha risvegliato in me una passione fin qui solo sopita per questi imponenti blocchi di roccia, che oltre trent’anni fa impegnavano molti dei miei fine settimana in un divertente gioco d’arrampicata. Dagli anni settanta Giancarlo Grassi e altri appassionati del “Mucchio Selvaggio”, tra i quali ricordo Marco Bernardi, si sono dedicati all’esplorazione dei massi della bassa val di Susa e dell’anfiteatro morenico di Rivoli tracciando passaggi su ogni metro delle loro superfici. Da questa esperienza è nato il libro cult “Sassismo spazio per la fantasia”. Libro alla mano, con la mia famiglia, percorrevo la fitta rete di strade bianche e sentieri della collina morenica alla ricerca dei massi minuziosamente descritti: dalla Pera Grossa di Rosta alla Pera Luvera, alla Pietra Salomone e tante altre, tutte protagoniste della mostra “Sentinelle di pietra”, ospitata dal Museo Regionale di Scienze Naturali nel 2010.

Pietra Salomone, massi erratici Collina Morenica Rivoli
Pietra Salomone (ph Roberto Gagna)

Scrive Giorgio Fea nel catalogo della mostra:
“I massi erratici dell’anfiteatro morenico di Rivoli-Avigliana, proprio per le loro caratteristiche di rarità e di rappresentatività, rientrano a pieno titolo tra i “beni geologici” e costituiscono una componente essenziale del nostro patrimonio naturale, ma non solo. Infatti, essi sono anche una “finestra” su un passato storico-culturale regionale ormai quasi dimenticato: per la loro forma, la loro mole e la loro posizione, spesso curiosa e dominante rispetto al paesaggio circostante, questi massi hanno da sempre colpito l’immaginazione dell’uomo. Quello primitivo ne incise la superficie con coppelle e canalette che ancora oggi suscitano tra gli archeologi accesi dibattiti sul loro reale significato; quello storico, vi incise croci e vi impiantò piccole cappelle per esorcizzare le antiche credenze precristiane legate al culto delle pietre, sopravvissute fin quasi ai giorni nostri nelle tradizioni e nel folklore popolare; quello moderno, alpinista o arrampicatore, vi vede palestre di solida roccia in grado di offrire valide alternative alle vie alpine. […] I massi erratici, veri e propri documenti della storia naturale della Terra, luogo di incontro fisico ed ideale delle popolazioni del territorio attraverso miti, leggende, religioni e sport, sono siti che per valore scientifico e paesaggistico, memoria storica, fruibilità sportiva e didattica, devono essere tutelati e conservati affinché anche le generazioni future possano usufruirne.

E naturalmente, per poter tutelare e conservare, occorre prima conoscere…”.

Vi diamo quindi appuntamento per il prossimo 12 marzo quando con il gruppo TAM, e insieme all’amico geologo Michele Motta, andremo a conoscere questi documenti della storia naturale della Terra, seguendo il percorso del trail: 23 chilometri nell’Anfiteatro Morenico, tra i comuni di Villarbasse, Rosta e Reano.

Qui trovate un articolo scritto per noi da Michele, in cui spiega la storia geologica della zona. Michele ha attivamente contribuito alla stesura della Legge Regionale 23, promulgata il 21 ottobre 2010, per la “Valorizzazione e conservazione dei massi erratici di alto pregio paesaggistico, naturalistico e storico”, che tutela esplicitamente anche “i massi erratici oggetto della pratica di arrampicata sportiva”. Possibile trovare migliore compagnia?

Roberto Gagna

Fummo monti, ed or siam sassi

Le prime due glaciazioni che hanno lasciato tracce in Val Susa sono avvenute nel Pleistocene medio, fra 700.000 a 400.000 anni fa, e nuovamente fra 200.000 a 100.000 anni fa. In questi periodi sul versante settentrionale delle Alpi si formarono estese calotte glaciali; il clima del versante italiano, anche allora notevolmente più mite, era insufficiente per calotte glaciali ma bastante per formare enormi ghiacciai vallivi. Durante la prima glaciazione (detta Mindel nelle Alpi austriache), il ghiacciaio valsusino si espanse a ventaglio in pianura sino all’altezza di Druento, Pianezza, Grugliasco, Rivalta, Bruino, Giaveno. Come un nastro trasportatore, portò un’enorme quantità di detriti giunti al ghiacciaio per frane e valanghe o strappati dal ghiacciaio stesso ai fianchi vallivi. Accumulati in lunghi cordoni morenici ai margini del ghiacciaio, furono poi erosi a poco a poco, facendo emergere i massi che contenevano, troppo grandi per essere asportati dalle acque di ruscellamento dei versanti. Così oggi questi massi talvolta appaiono isolati in aree pianeggianti, cui sembrano del tutto estranei: sono i primi massi per i quali fu coniato il termine di erratici.

Al termine della prima glaciazione il clima diventò caldo e relativamente umido, tanto da permettere il ritorno di antenati degli elefanti, rinoceronti e buoi. Questo clima alterò profondamente i ciottoli superficiali delle morene, formando un suolo argilloso dal caratteristico colore rosso vivo.  Nella seconda glaciazione (detta Riss nelle Alpi austriache), il ghiacciaio valsusino si espanse nuovamente sino alla pianura, arrivando però solo all’altezza di Alpignano, Rivoli, Villarbasse, Trana. Le morene di questa glaciazione sono molto vistose perché, avendo meno della metà dell’età delle precedenti, sono più alte e conservano bene la forma originaria: ad esempio, la Cresta Grande fra Rosta e Villarbasse.

I massi del Pleistocene medio di serpentinite sono ricoperti da una patina d’ossidazione lucida e rossastra analoga alle “vernici del deserto”, che deriva da un periodo di clima subarido, collocabile fra 100.000 a 75.000 anni fa, quando nel Mar Ligure vivevano molluschi subtropicali e in Piemonte rinoceronti, iene ed elefanti, in un ambiente paragonabile a quello delle attuali savane africane.

Pera Grossa di Rosta, masso erratico
Pera Grossa di Rosta (ph Michele Motta). La Pera Grossa di Rosta, in gran parte scavata dall’uomo, mostra un netto contrasto cromatico fra il verde bluastro della serpentinite non alterata, visibile dove la roccia superficiale è stata cavata, e il rosso ruggine delle parti che hanno conservato la superficie originale. Queste ultime sono alterate con la formazione di un rind, patina d’ossidazione sviluppata a spese dei minerali di ferro contenuti nella serpentinite.

Nel Pleistocene superiore (75.000 anni fa, Würm) il ghiaccio tornò ancora una volta allo sbocco della Val di Susa ma, poiché l’avanzata fu inferiore alla precedente, non riuscì a superare le morene lasciate dalle glaciazioni passate e si accumulò in destra orografica. Qui il ghiacciaio si divise in due lobi, uno dei quali risalì lungo il Sangone, a quel tempo affluente nella Dora Riparia. In questa valle era presente un ghiacciaio grande, ma non abbastanza da riunirsi a quello valsusino. Le sue acque di fusione, non potendo seguire il percorso originario, trovarono una via per la pianura, incidendo la stretta forra ancora oggi seguita dal Sangone fra Trana e Giaveno. Ultimo residuo dell’antico spartiacque fra Val Sangone e pianura, rimase la dorsale del Moncuni, circondata e parzialmente seppellita dai depositi glaciali e costellata di massi erratici.

L’area fra Trana e Avigliana, non subendo più l’erosione fluviale, ha conservato bene diverse morene frontali (molto visibili perché delimitano laghi e zone palustri), formate da successive e sempre meno forti avanzate glaciali dell’ultima glaciazione.

Modelli della parte terminale della Val Sangone, illustrazione di D. Giordan. Il modello superiore ricostruisce l’aspetto dell’area durante l’ultima glaciazione, quello inferiore le tracce rimaste nel paesaggio attuale: la torbiera di Trana, la morena di S. Bernardino, lo stretto passaggio in cui scorre il Sangone presso Trana.

Nel Pleistocene superiore il paesaggio doveva somigliare a quello dell’attuale Terra del Fuoco. Prive di vegetazione, le colline erano spazzate da forti venti asciutti tipo föhn, che alzavano nuvole di polvere per depositarla nuovamente sulla Collina di Torino e sull’Altopiano di Poirino. Vi vivevano animali della fauna alpina attuale quali lo stambecco e la marmotta, accanto ad altri ormai scomparsi per la caccia, quali l’alce e il castoro.

Michele Motta

 

 

 

 

160 anni di storia: il coro della SAT omaggia il coro Cai Uget

Le luci della sala ottocentesca si spensero con precisione sabauda dando il via allo spettacolo. Un impacciato presentatore, fuori dal suo contesto burlone, cercava di mantenere un contegno consono al prestigio della serata. Le poltrone di velluto rosso quasi non si vedevano, occupate in ogni ordine di posto.  I canti salirono alti e armonici ad avvolgere il pubblico, nutrendo le emozioni che tutti si aspettavano.

Questa sala profuma di storia e di cultura e ogni qualvolta capiti di cantare qui, il nostro ego artistico s’ingrandisce un poco di più. L’apertura delle celebrazioni per il nostro settantesimo anniversario non poteva avere battesimo migliore: insieme ai maestri trentini che chiudono il loro novantesimo proprio in terra sabauda. In platea sono seduti i ragazzi che hanno partecipato al corso di avviamento alla coralità di questo 2016. Il giovane gruppo ha già avuto la soddisfazione di vincere recentemente, il concorso Yarmonia. Non male come inizio!

La SAT è sempre un’attrazione. È chiamato il Conservatorio delle Alpi, la scuola accademica del canto di montagna. La precisione esecutiva che poggia sulla tradizione e sulla storia, rende questa corale unica nel suo genere, apprezzata e applaudita in tutto il mondo.

Il legame tra i nostri cori parte da lontano ed è fondato su una stima reciproca costruita negli anni, fin da quando l’allora direttore del Coro Uget, Gilberto Zamara incontrò Silvio Pedrotti in un’intervista confronto raccolta e trascritta da Mario Allia e Mauro Pedrotti. Due generazioni di musicologi e appassionati mettevano sul tavolo la loro passione ricamando nota dopo nota, lo spartito della vita: Veci e Bocia in un ideale passaggio di testimone che si concretizzerà nelle future direzioni dei due gruppi corali.

Il coro Cai Uget

Torniamo alla serata: ultimati i saluti delle autorità e le frasi di doverosa circostanza, lo spettacolo prende vita; apriamo noi come padroni di casa. Siamo al completo; nessuno poteva mancare a questa serata. In platea sono seduti i ragazzi che hanno partecipato al corso di avviamento alla coralità di questo 2016. Il giovane gruppo ha già avuto la soddisfazione di vincere recentemente, il concorso Yarmonia: non male come inizio!

Abbiamo scelto quattro canti a rappresentare le diverse anime che risuonano dentro la nostra storia, quello di chiusura è Varda la Luna, omaggio alla Storia del canto, al fondatore Pedrotti, al nostro legame con la SAT. Questa esecuzione è stata particolarmente emozionante in quanto i “giovani” coristi ugetini si uniscono a noi sul palco per la loro prima apparizione pubblica. La percezione concreta del futuro e della salute del nostro amato coro!

Il coro SAT

Terminati i canti, i giubbotti blu scendono dal palco lasciando il proscenio ai presidenti che si scambiano doni e cioccolatini in un anticipo Natalizio: certo rimarrà nella storia la forma di fontina personalizzata con i loghi delle due corali che il presidente Costantino, detto il “margaro”, ha consegnato ad un sorpreso Pedrotti. Con il sorriso ancora sul volto, il maestro chiama a sè i coristi.

Pian piano si schierano i giubbotti marrone, cambia la giacca del presentatore e parte la magia del conservatorio: il nostro e il loro. Gli applausi sono fragorosi, dopo ogni esecuzione, e i volti dei trentini si stendono in piccoli sorrisi senza perdere la tensione del concerto: professionali in ogni situazione.

Un pubblico soddisfatto lascia la sala da concerto con la soddisfazione nelle orecchie e con la solida presenza tra le mani dell’ultimo CD del coro Cai Uget (L’aj sentù cantè…) quale concreto ricordo e promessa per il futuro.

 

Coro Bajolese: un comizio sindacale in musica:

…così Amerigo Vigliermo ha definito uno dei brani eseguiti dal suo Coro Bajolese, complesso che da 50 anni fa conoscere gioie e dolori della sua gente, il popolo canavesano. Storie di contadini, minatori, emigranti, storie di povertà, di guerre, di tragedie ma anche storie di amori, ricordi di feste, figure caratteristiche e divertenti quali le cinque sorelle istruite dalla madre a cercarsi un “badola” da sposare. Storie tramandate nei racconti dei nonni e delle nonne, nelle “veglie” nelle stalle, nelle osterie.
Il Coro Bajolese è una formazione corale in cui alla solida base del gruppo maschile si aggiunge una voce solista di soprano e la voce in falsetto di Vigliermo che ricopre anche i ruoli di direttore e presentatore. Ogni brano è presentato e raccontato, quasi sempre in piemontese, con inesauribile verve.

21 novembre, salone UGET , rassegna “In Cordata”

In ricordo di Ermanno Denaldi

Non c’è miglior modo di essere ricordati, se non con le parole degli amici, e qui abbiamo raccolto le parole di tutti gli amici di Ermanno che ci hanno scritto.

Ermanno Denaldi è mancato il 12 ottobre: nato nell’aprile del 1925, associato alla nostra sezione fin dal 1945. Era uno dei nostri vecchietti, aveva 71 bollini.

Pierfelice Bertone

Alpinista, escursionista, scialpinista, ciclista, grande camminatore, amante della musica classica e dell’opera. Nel settembre del 1970 sul numero due della neonata “Rivista della Montagna” aveva scritto un bellissimo articolo sulla sua traversata escursionistica in solitaria dal Colle di Tenda al Colle della Maddalena.

Ermanno Denaldi durante il raid scialpinistico della Corsica nel 1973. Foto di Piero Dematteis

Personaggio di spicco del Gruppo Scialpinistico, aveva fatto parte di quella squadra di pionieri che nel marzo del 1973 si era cimentata nella probabile prima traversata scialpinistica italiana della Corsica. Lo ricordo, a parte svariate scialpinistiche, in una gita escursionistica al Monte Emilius con pernottamento alla “belle ètoille” in una notte con eclisse di luna il 16 settembre del 1978 e come mi ha detto il buon Claudio, era il 16 settembre perchè si cantò: “16 settembre chi mai se l’aspettava una cartolina è giunta ci tocca di partire…

Riccardo Valchierotti

Arrivederci amico mio caro.
Amico e guida sulle tante montagne salite insieme.
Un destino già scritto promette che ci rivedremo in un tempo futuro.

Arrivederci caro amico.
Ci salutiamo senza strette di mano, senza parole, senza lacrime.

In questa vita morire non è una novità.
Ma anche vivere, in fondo, non la é.

(liberamente tratto ed adattato da una poesia russa di Sergej Esenin)
 Carlo Morrone

Le notti bianche

Pubblichiamo il post del torinese Marco Vergano, finalista del concorso Blogger Contest 2016 di altitudini.it. L’edizione 2016 di tale concorso toccava il tema “I vagabondi della montagna”, e Marco ci propone un vagabondaggio invernale: le notti bianche.

L’idea di un bivacco invernale nacque con un amico, quasi per gioco, una decina d’anni fa. Una sera di gennaio dell’inverno più nevoso che ricordi, salimmo con le pelli al Pian della Mussa, con l’idea di cenare e passare fuori la notte. Si prevedeva bel tempo, per cui avevamo lasciato a casa la tenda. Di quella notte ricordo un freddo pungente, che ci costrinse ad una cena rapida prima di infilarci nei sacchi a pelo. I cristalli liquidi del mio orologio appoggiato sulla neve segnarono ancora i -18°, prima di svanire del tutto.

One Million Star Hotel, foto di Marco Vergano

Ricordo di aver per la prima volta compreso la definizione di “silenzio assordante”: distesi sotto una stellata incredibile, in mezzo a una pineta rada addormentata sotto metri di neve, l’unico rumore percepibile era il nostro respiro. Tutto sembrava così lontano, eppure così vicino: dalla sistemazione del nostro one million star hotel, la montagna diventava pura contemplazione.
Rispetto all’estate, tutto era amplificato: il freddo, l’isolamento, il silenzio. Negli anni a seguire il bivacco invernale è diventato un appuntamento fisso, una o due volte a stagione. Il nostro vagabondare ci portava dai boschi della Val Troncea ai colli dell’alta Valle Pesio, dal Vallone di Enchiausa ai ghiacciai del Monte Rosa. Con poca o tanta neve, a volte in due a volte in gruppo, sotto la stellata o sotto la nevicata, con pochi o tanti gradi sottozero. Che la salita durasse quaranta minuti oppure quattro ore, che il dislivello fosse 150 oppure 1500 metri, gli obiettivi erano sempre la cena e la notte sotto le stelle, mai la salita del giorno dopo o la prestazione. Non è mai stato un bivacco alpinistico, funzionale a una scalata o a una vetta, ma un bivacco fine a se stesso, anche se il mattino dopo magari una vetta la si saliva.
Un bivacco sempre per scelta e mai per necessità: avere un cielo limpido ed essere lontani dalle luci del fondovalle è sempre stato più importante che non avere una bella neve da sciare (che comunque non guasta mai!). Con il tempo siamo diventati più smaliziati, l’arte del bivacco si impara con la pratica: un fornello più efficiente, sci più leggeri ma scarponi più caldi, un paio di scaldini chimici nel pacco batteria della macchina foto, che così scatta fino all’alba anche sotto una spanna di neve fresca. Nello zaino, una macedonia liofilizzata al posto dei mandarini, che a venti gradi sottozero diventano perfetti per giocare a biliardo dopo cena.
Goethe diceva che “i monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi”. E’ una scuola di cui consiglio i corsi serali, soprattutto d’inverno.

La conquista del K.O. di W.E. Bowmann

La conquista del K.O.Per chi ama la montagna e l’umorismo anglosassone ecco un libro gustoso.

E’ la storia della spedizione per scalare il K.O.,  la montagna più alta del mondo con i suoi 11.890 metri sul livello del mare.

L’organizzazione e lo svolgimento dell’impresa sono narrati con apparente precisione  tecnica unita  ad ironiche  descrizioni delle assurdità che, grazie ai protagonisti,  vengono rivelate al lettore. I protagonisti rappresentano in sintesi  ed in modo esilarante, un certo mondo eroico e pomposo dell’alpinismo di nicchia, riservato a uomini di grande capacità, forza, determinazione e di alti valori etici, mettendo in luce  ridicole  debolezze di ognuno di loro ed offrendone un quadro diametralmente opposto a quanto si attenderebbe  da loro.

Giunge all’estremo assurdo e iperbolico della possibilità che  degli incapaci riescano a compiere un’impresa impossibile.  Ciò, semplicemente perché la conquista avviene per caso e per merito dei portatori che, letteralmente, portano un protagonista in cima, giacché tutti gli altri o sono fermi o sbagliano la direzione di salita.

Un libro che si legge rapidamente e con soddisfazione. Di tanto in tanto un po’ di sdrammatizzazione  è fonte di piacere.

William Ernest Bowmann,  La conquista del K.O., Corbaccio, settembre 2016.