30 anni fa
Testo di Marco Bernardi.

Conobbi Giancarlo nel 1979. Era un periodo molto intenso per l’alpinismo, nuovi modi di rapportarsi con la montagna stavano nascendo e in pochi anni si sarebbe assistito ad una rivoluzione totale.
Messner e Habeler avevano dimostrato che si poteva salire l’Everest senza bombole d’ossigeno, confutando le vigenti teorie in proposito e l’arrampicata stava muovendo i primi passi verso la nascita di un vero e proprio sport. Terreni sino ad allora non considerati, costituivano ora l’ambiente ideale nella ricerca di nuovi limiti. Ero affascinato dall’alpinismo, soprattutto dalla sua componente avventurosa; l’alpinismo mi dava la possibilità di vivere emozioni profonde e primordiali, per le quali sarebbe valso anche rischiare la vita. Avevo 21 anni, qualche salita di una certa importanza alle spalle, e volevo ardentemente vivere scalando montagne.
Incontrai Giancarlo andando ad arrampicare nei colori dell’autunno su un masso erratico nei dintorni di Torino. Non so come iniziammo a parlare, io giovane al cospetto del maestro, con una certa riverenza. Lui era socievole, entusiasta, mi offrì di andare ad arrampicare insieme. Il 13 novembre partiamo con la sua 500 per il Verdon, tempo incerto e deviazione verso le Calanques. Cinque giorni di arrampicate, dormendo sotto pergolati di case disabitate per via della stagione, con il mare e il calcare bianco negli occhi. Giancarlo mi parlava di quel “mondo di cristallo” che aveva scoperto sulle cascate ghiacciate insieme a Gianni Comino. Mi parlava di avventure passate, di sogni futuri, di pareti che aspettavano solo noi. Trasmetteva un modo di sentire e di vivere che era ciò che cercavo. Per un anno condivisi con lui la mia la passione per le montagne, e acquisii velocemente una esperienza che avrebbe richiesto molto più tempo. Giancarlo fu un maestro, in grado di darmi le motivazioni necessarie. Abbiamo salito diverse vie nuove insieme, e se da un punto di vista tecnico davo il mio contributo alla riuscita, “l’idea” era sempre frutto del suo entusiasmo e conoscenza. Giancarlo aveva un suo modo di vivere l’alpinismo, che era romantico, eroico, esplorativo, e sconfinava nel cosiddetto “Nuovo Mattino”. Era un esteta, che sapeva assaporare le emozioni forti che l’alpinismo sa dare. Quando arrivammo in vetta al Dome de Mulinet, Giancarlo, io e Gianni Comino, era ormai sera. Era l’inverno del ‘79, eravamo a 3400 mt di altezza, e il tempo si stava guastando: si sarebbe trasformato in tormenta a breve. Lui era senza giacca di piuma, perché gli era caduta in parete… io mi sarei preoccupato, ma il suo commento fu: “non è grave, per non congelare è sufficiente non stare fermi”. Così fu, scendemmo sul ghiacciaio del versante francese, risalimmo nel vento e nel buio il ghiacciaio verso il confine italiano, senza capire bene dove stavamo andando; alla fine arrivammo sulla punta Clavarini che lui riconobbe! Così Giancarlo fu in grado di riportarci, dopo 23 ore, alle quattro del mattino, al rifugio Daviso. Il mattino dopo ci disse di aspettare che andava a riprendersi la giacca… risalì sino all’attacco della parete Est del Dome de Mulinet, la trovò e tornò al rifugio. Questa fu la prima grande avventura vissuta con Giancarlo e percepii che lui era felice: era felice per la salita, era felice per l’avventura, era felice perché avevamo passato la notte camminando, oserei dire che era felice di aver perso il Duvet… Giancarlo era semplicemente nel suo “mondo”, ed era questo a renderlo felice. Il suo animo coglieva ed interpretava in modo istintivo la bellezza dell’alpinismo, dei suoi significati profondi, l’espressione artistica dei valori che racchiude. Con Gianni Comino, salendo i seracchi del Monte Bianco, poteva vivere quello stato d’animo che si raggiunge quando si è vicini alla morte, quando la percezione della realtà si spoglia di molte sovrastrutture e si può pensare di cogliere una qualche essenza sul significato della vita. Sulle pareti di Yosemite o su quelle della valle dell’Orco, stando in equilibrio sul vuoto, assaporava la bellezza del progredire in verticale, cercando l’armonia con la roccia. Sui piccoli massi gli piaceva invece giocare, non solo salirli ma anche scoprirli, dandogli dignità con passaggi dai nomi mitici e fantasiosi. Per me fu un anno intenso, nel quale scoprii aspetti nuovi di me stesso. Alla fine dell’anno andammo in Yosemite e salimmo il Nose e Salathe, dopodiché le nostre strade si separarono: ero cresciuto e volevo fare le mie scelte. Non so bene come andò, forse la ragione fu un qualche conflitto generazionale, sta di fatto che non arrampicammo più insieme e continuai a fare dell’alpinismo in modo autonomo… in fondo eravamo diversi. Per Giancarlo l’alpinismo era la vita, al di là delle razionalizzazioni, della ricerca di motivazioni, al di là dei risultati: Giancarlo era un artista. Di lui mi rimane un’immagine ormai sfocata ma dai colori saturi, al tramonto, in vetta al Monte Bianco dopo aver aperto la via sulla cascata più alta d’Europa. Un momento fuori dal tempo, un attimo “fuggente” condiviso insieme, un punto di luce…