Ricordando Emanuele “Elio” Cassara

Testo di Andrea Mellano.

Da “Cai Uget Notizie” n . 6 Novembre – Dicembre 2021: www.caiuget.it/notizie/

Sono ormai passati sedici anni da quando la morte di Cassarà ci ha privati di un grande personaggio, e personalmente di un amico fraterno, che ha cambiato la visione e l’interpretazione delle attività alpinistiche, in particolare della arrampicata alla fine del ‘900. In occasione della sua morte, avvenuta l’8 dicembre del 2005, grande è stato lo sconcerto nel mondo alpinistico e in particolare in quello piemontese dove Cassarà svolse la maggior parte della sua vita professionale, come giornalista e scrittore del mondo della montagna con i suoi libri.

Volumi come “Tuttamontagna”, “La Morte del Chiodo”, “Le quattro vite di Reinhold Messner”, “ Un Alpinismo Irripetibile” hanno rivoluzionato la visione arcaica e retorica dell’alpinismo configurandolo nelle sue varianti moderne e laiche. A questi volumi si aggiunge l’ultimo suo libro “Un Balilla Partigiano” sulla sua esperienza giovanile nelle brigate partigiane della Valle di Susa. Alla sua notevole attività letteraria e giornalistica si aggiunse, negli anni 1986/1989 quella di direttore del Festival Internazionale della Montagna di Trento e per molti anni fu membro autorevole del Premio Itas.
A cominciare dalla seconda metà degli anni ’60 Cassarà, “Elio” per gli amici, ha seguito l’evoluzione culturale dell’alpinismo, prima dalle colonne della sua rubrica “Il bivacco dell’Alpinista” sul quotidiano “Tuttosport”, poi nei vari articoli sulle riviste specializzate e interventi a convegni e conferenze, confrontandosi con i vari protagonisti delle maggiori imprese alpinistiche del primo e secondo ‘900: dai grandi vecchi Francesco Ravelli, Riccardo Cassin, Bruno De Tassis agli esponenti del primo dopoguerra, Bonatti, Mauri, Maestri sino al Messner dei 14 “8000” e ai fuoriclasse dei pionieri dell’arrampicata, cosiddetta libera e poi sportiva: Edlinger, Escoffier, Larcher, Bassi, Bernardi per non citarne che alcuni.
La formazione professionale giornalistica, unita alla sua predisposizione a scavare nella notizia lo portava a far emergere dalle interviste più che la parte celebrativa e spettacolare, le emozioni e le reazioni “normali” dei protagonisti presentandoli in una dimensione antiretorica fuori dagli schemi convenzionali che allora caratterizzavano la cronaca delle imprese alpinistiche.
Il mio incontro con “Elio” Cassarà avvenne all’inizio degli anni ’60 dopo il ritorno dalla scalata italiana della parete nord dell’Eiger. L’approccio con il giornalista non fu subito agevole, entrambi ci tenevamo molto chiusi: io per una diffidenza innata nei confronti di chi ritenevo un estraneo al mondo della montagna, lui per una sorta di timidezza verso un soggetto sfuggente e ostico che gli rendeva difficile interpretarne la personalità. AI primo incontro ne seguirono altri e la reciproca diffidenza iniziale venne meno e si instaurò tra noi una identità di vedute nei confronti della attività alpinistica analizzata con un’ottica culturale nuova che lui seppe individuare nella mia personale interpretazione dell’alpinismo in generale e nella arrampicata in particolare.
Nel 1966, con gli amici alpinisti Alberto Risso, Giorgio Griva e mia moglie Gemma Commod, organizzammo una mini spedizione “autoalpinistica” al Monte Ararat, la biblica montagna di 5172 metri di quota, nella parte Anatolica della Turchia orientale. Si trattava di trovare uno sponsor per il mezzo di trasporto e Cassarà, informato dell’iniziativa, si offrì di aiutarci in cambio della sua partecipazione. Accettammo l’offerta e grazie alle sue conoscenze presso l’ufficio stampa della Lancia, riuscì a ottenere in prestito un furgone “super jolly” attrezzato a camper. Fu un viaggio straordinario, ricco di interesse attraverso l’allora Jugoslavia, Bulgaria e Turchia, sino ad Agri e Dogubajazit, ultimo villaggio ai confini dell’Iran, ai piedi dell’ Ararat per un totale di oltre 4000 chilometri. La spedizione si concluse con la scalata dell’ Ararat, lungo due vie nuove del versante sud, ma della mitica Arca nessuna traccia. Poi il lungo viaggio di ritorno, evitando di poco il terribile terremoto che distrusse buona parte della città di Erzurum.
Stimolato dall’avventura dell’Ararat Cassarà, due anni dopo, partecipò con un piccolo gruppo di alpinisti dell’Uget, guidati da Lino Andreotti, ad una escursione sci-alpinistica al Monte Demavend di 5761 m in Iran. Naturalmente Cassarà in quella occasione, digiuno di pratica sci-alpinistica, salì e discese tutto a piedi il Demavend, mentre i compagni scendevano allegramente con gli sci.
Dopo l’Ararat e il Demavend, Cassarà iniziò ad accompagnarmi in numerose escursioni e in brevi arrampicate iniziando ad entrare nell’ambiente alpinistico di cui voleva capire la cultura e le motivazioni. Era un uomo colto, motivato, generoso senza pose da intellettuale. Fisicamente forte accettava le sfide che io e gli altri compagni di escursioni, a volte sadicamente, gli proponevamo, costringendolo a seguirci su pareti e percorsi spesso di notevole impegno, per mettere alla prova le sue analisi antiretoriche sugli alpinisti. Nelle discussioni tra me e Cassarà, che intercalavano il nostro girovagare sui monti, cercavamo di approfondire e verificare le tematiche nuove che stavano agitando l’ambiente alpinistico occidentale, già messo in allarme alla metà degli anni ’70 dai gruppi dei nuovi arrampicatori, per la loro visione dissacrante e contestatrice, ben rappresentata in quel periodo dal movimento “Nuovo Mattino” che faceva capo al giovane intellettuale e alpinista Giampiero Motti e a Giancarlo Grassi, fortissimo arrampicatore e alpinista.
La montagna fu l’occasione per la nascita, tra Cassarà e il sottoscritto, di una amicizia forte che ci legò per oltre quarant’anni, con interessi spesso dialettici che andavano oltre a quelli dell’alpinismo per toccare temi legati alla vita civile e politica. Nel campo dell’alpinismo si consolidò un sodalizio culturale che portò alla ormai storica svolta degli anni ’80, con la nascita dell’arrampicata sportiva come attività affine ma autonoma dell’alpinismo classico.
Cassarà non voleva essere schiavo della storia e dei valori dell’alpinismo accettati acriticamente. Il suo spirito libero e la sua intelligenza erano tesi alla ricerca di una nuova base etica e laica per definire le prestazioni in alpinismo e soprattutto in arrampicata dove l’aspetto sportivo doveva prevalere sull’ideologia del rischio e dell’imponderabile.
L’introduzione del termine sportivo nell’arrampicata, fu l’atto più dirompente e nuovo che in seguito condizionò non solo l’arrampicata fine e sé stessa, ma tutta l’attività legata all’alpinismo. Il concetto sportivo offriva una visione “laica” dell’alpinismo e dell’arrampicata, finalmente comprensibile anche ai profani. In particolare l’arrampicata si apriva a settori nuovi di utenti non necessariamente praticanti attività alpinistiche come scuole pubbliche e associazioni giovanili.
Visione laica per Cassarà sta a significare soprattutto che la componente rischio insita nell’alpinismo, non rappresenta più un valore di merito e un grado di difficoltà ma una eventuale fatalità che deve essere ridotta e quasi annullata. Ferma restando, ovviamente la libertà di ciascuno di praticare l’alpinismo e l’arrampicata secondo la propria etica individuale che non dovrà però essere proposta come modello e oggetto di propaganda, in particolare tra i giovani, quando la gratificazione conseguente alla prestazione è il rischio estremo.
Premessa alla diffusione del concetto sportivo dell’arrampicata fu la costruzione, nel 1980 nel Palazzo a Vela di Torino, della palestra artificiale d’arrampicata, per concezione e ampiezza la prima in Europa. L’impianto del Palavela fu preso come esempio per la costruzione di altri impianti urbani per l’arrampicata sorti in seguito in varie località italiane ed europee.


L’avvenimento che a metà degli anni ’80 introdusse ufficialmente le gare di arrampicata sportiva tra le attività affini all’alpinismo fu la grande manifestazione internazionale di Bardonecchia “SPORT ROCCIA ’85”, ideata, organizzata e diretta da Cassarà, con il sottoscritto, Marco Bernardi e Alberto Risso sulle pareti calcaree della parete dei Militi in Valle Stretta, luogo storico dell’arrampicata classica piemontese. L’annuncio della gara suscitò una vera levata di scudi da parte degli organi ufficiali del CAI (ma alla manife stazione diedero il loro appoggio il CAI-UGET, il gruppo occidentale del CAAI, la scuola di alpinismo G. Gervasutti, il Museo Nazionale della Montagna).
In Francia fu pubblicato un “manifesto” di condanna sottoscritto da un centinaio dei più noti esponenti dell’arrampicata: in prima fila Edlinger, Berault, Destivelle. Noi non ci lasciammo intimorire e proseguimmo con il nostro dirompente progetto. A “SPORTROCCIA’85” le intuizioni, i dibattiti e le analisi culturali di Cassarà e dei suoi complici “ribelli” all’ortodossia dell’alpinismo, ebbero piena conferma per la presenza in gara dei più rappresentativi giovani esponenti di allora dell’arrampicata internazionale (compresi alcuni dei più noti firmatari del “manifesto” di condanna): dal fuoriclasse Didier Raboutu, alla promessa Stephan Glowacz (il vincitore), Catherine Destivelle e dai nostri migliori arrampicatori: Roberto Bassi, Marco Ballerini, Andrea Gallo, Luisa Jovane, Marco Pedrini. Patrick Edlinger non se la sentì ma l’anno dopo, alla seconda edizione (svoltasi nella due località di Arco e Bardonecchia), si presentò e vinse alla grande. La manifestazione di Bardonecchia fu un evento sportivo straordinario seguito, alla base della parete dei Militi, da oltre 10.000 spettatori.
Nel 1987, sempre a Torino, promossa dagli stessi organizzatori di “SPORTROCCIA ’85”, fu fondata la SASP -Società Arrampicata Sportiva Palavela, prima società italiana di arrampicata sportiva. Nello stesso anno per iniziativa degli stessi fondatori della SASP, nacque la FASI, Federazione Arrampicata Sportiva Italiana, riconosciuta nel 1990 dal CONI e contemporaneamente, in sede internazionale nell’ambito UIAA, si costituì la Federazione Internazionale per le competizioni.
L’arrampicata sportiva per la sua ormai più che trentennale attività nazionale e internazionale nel 2020 ha ottenuto il riconoscimento di attività olimpica e nel 2021 ha partecipato con i suoi atleti più rappresentativi alle Olimpiadi. Il sogno segreto di “Elio” Cassarà, quello che lui ha sempre avuto si è avverato: l’arrampicata sportiva, da lui perseguita e voluta caparbiamente, con le sue analisi, le sue intuizioni, le iniziative e battaglie culturali è diventata DISCIPLINA OLIMPICA.

Grazie Elio ti dobbiamo molto, ci manchi.

Libri presenti nella Biblioteca della sezione CAI – Uget Torino:

  • Tutta montagna, ed. Longanesi, 1977.
  • VI grado in assemblea: Atti del 1° convegno nazionale sull’alpinismo moderno, scritto insieme ad Andrea Mellano, ed. SAID, 1977.
  • Le quattro vite di Reinhold Messner, ed. Dall’Oglio, 1982.
  • La morte del chiodo, montagne da ri-conquistare, ed. Zanichelli, 1983.
  • Un alpinismo irripetibile, cronache di montagna da Bonatti a Messner, ed. Arti Grafiche San Rocco, 1996.

Tuttora manca nella Biblioteca della sezione CAI – Uget Torino :

Un balilla partigiano, l’ultimo suo scritto, dedicato alla sua partecipazione agli eventi della Resistenza.

LA SACRA DI S. MICHELE

LA SACRA DI S. MICHELE e L’UNESCO, di Fabrizio Antonielli d’Oulx e Maria Luisa Reviglio della Veneria

Il Presidente emerito dell’Associazione Amici della Sacra di San Michele Fabrizio Antonielli d’Oulx presenta “La Sacra di San Michele, un percorso iniziatico dell’anno Mille” in apertura della VII Settimana della Cultura di UNI.VO.C.A.


Il Presidente dell’Associazione, Maria Luisa Reviglio della Veneria, ha dato un’informativa sulla candidatura UNESCO della Sacra di San Michele insieme alle Abbazie Benedettine italiane.

“WALTER BONATTI. STATI DI GRAZIA”, MOSTRA AL MUSEO NAZIONALE DELLA MONTAGNA DI TORINO

L’esposizione è curata da Roberto Mantovani e Angelo Ponta e privilegia un filo narrativo inedito che indaga la relazione di Bonatti con l’ambiente naturale

Bonatti di fronte alla Laguna San Rafael, fiordi patagonici cileni, 1971 © Museo Montagna

Il 22 giugno ha aperto la mostra “Walter Bonatti  Stati di grazia. Unavventura ai confini delluomo”. Ospitata al Museo Nazionale della Montagna di Torino, l’esposizione è dedicata al grande alpinista ed esploratore nel decennale della sua scomparsa.

La mostra è curata da Roberto Mantovani Angelo Ponta «privilegia un filo narrativo inedito che, a partire dai racconti di Bonatti e da alcune considerazioni raccolte, nel corso degli anni, direttamente dalla sua voce, indaga la sua relazione con l’ambiente naturale», scrivono gli organizzatori. «Per tutta la vita, dalle prime esperienze sulla roccia della Grignetta agli ultimi viaggi di esplorazione, Walter Bonatti andò alla scoperta del mondo e di se stesso. A poco a poco, le sue esperienze nella natura sfociarono in una ricerca che divenne un vero e proprio esperimento condotto su di sè. Bonatti si immerse nella grande wilderness fino a fondersi con essa, e in alcune circostanze visse quelli che chiamava “stati di grazia”: momenti eccezionali, capaci di risvegliare in lui forze sconosciute e di spingerlo oltre i limiti», scrivono ancora.

La locandina della mostra © Museo Montagna

Il filo che lega le avventure e le emozioni di Bonatti

La mostra del Museomontagna «mette in luce il filo che lega le avventure e le emozioni di Bonatti. Sarebbe stato facile riempire le sale dell’esposizione facendo sfoggio della dovizia di documenti, scatti fotografici e materiali che Bonatti ha conservato. Certo, molto è stato messo in mostra. Ma non volevamo che tutto si esaurisse in un’esibizione di oggetti e di immagini, o nel ritratto di un campione del passato», raccontano i curatori.

Bonatti fotografato di fronte al Cervino, dopo la sua scalata invernale solitaria del 1965 © Museo della Montagna

Il percorso espositivo

Il visitatore incontrerà alcuni oggetti che sono diventati vere e proprie icone, come l’attrezzatura alpinistica e la pagaia del primo viaggio compiuto per “Epoca” nello Yukon. Senza dimenticare, i machete e i libri d’avventura che gli ispirarono progetti di reportage. Infine, le lettere e le pagine tratti dai diari e dai quaderni. Parallelamente il pubblico potrà immergersi in alcuni ambienti “bonattiani”. Per prima la montagna, con una grande installazione multimediale dedicata al Grand Capucin.

«Assume particolare valore la volontà del Museomontagna della Sezione Cai di Torino di insistere nella Mostra dedicata ad una particolare lettura del personaggio Walter Bonatti, lontana da stereotipi o da mere celebrazioni, per approfondirne, invece, le pieghe di una umanità da un dáimōn unico, quello stesso che lo ha reso protagonista di un alpinismo eroico, che prescinde da qualsiasi epoca. Una mostra che corona la determinazione della Direzione e valorizza il lavoro intenso dello staff e dei curatori su quanto contenuto dell’Archivio Bonatti, che la famiglia ha inteso affidare al Museo, con la certezza che, anche grazie alla collaborazione del Cai centrale, avrebbe potuto trasformarsi in un patrimonio idealmente e stabilmente destinato a tutti gli amanti della montagna e di quanto esso rappresenta nell’immaginario collettivo», scriveva il Presidente generale del Club alpino italiano Vincenzo Torti in un articolo pubblicato su Montagne360 di aprile 2021.

Il grande sacco cilindrico utilizzato da Bonatti durante l’apertura della sua via sul Pilastro Sud-Ovest del Petit Dru, 1955 © Museo Montagna

L’esposizione è accompagnata da un catalogo che raccoglie i contributi di Daniela Berta, Veronica Lisino, Leonardo Bizzaro, Luca Calzolari, Roberto Mantovani, Franco Michieli, Angelo Ponta, Angelica Sella. Il catalogo, 256 pagine, italiano/inglese, 23 Euro, edito da Museomontagna e da Solferino – sarà in vendita dal 22 giugno sul sito del Museo (https://www.museomontagna.org/shop/) e presso la biglietteria. Dal 24 giugno invece, sarà disponibile nelle librerie italiane.

Info mostra: dal 22 giugno al 5 dicembre 2021.  Da martedì a domanica Orario: 10.00 – 18.00. Dal 25 giugno l’orario di apertura il venerdì sara 12.00 – 20.00. Per visitare la mostra è necessario effettuare prenotazione telefonica allo 011 6604104. Le prenotazioni aprono giovedì 10 giugno. Tutte le info su https://www.museomontagna.org/

Tratto da Lo Scarpone 22/06/21

CAMMINARE STANCA: LE LANGHE DI CESARE PAVESE

Ecco qui un bel racconto dell’amico Carlo Crovella (già pubblicato in Monti e Valli del CAI Torino il 21 settembre 2020 e su Altri Spazi il 5 novembre 2020

Nella notte in cui scrivo, quella fra il 26 e il 27 agosto 2020, il silenzio è molto profondo: la città di fine estate è assonnata di giorno, figuriamoci nelle tenebre assolute. Proprio in una notte così, esattamente settant’anni fa, se n’è andato Cesare Pavese.

Cesare Pavese. Foto: nonsolocontro.it

Giunto a Torino dalla capitale (dove si recava spesso per impegni di lavoro), Pavese aveva preso alloggio all’Hotel Roma, nella piazza di fronte alla Stazione di Porta Nuova: quando la sorella era fuori città, Cesare non amava tornare nella casa di Via Lamarmora, nell’elegante quartiere della Crocetta.
La stanza dell’Hotel Roma è la 346, al terzo piano: un locale piuttosto piccolo che si affaccia sulla laterale Piazza Paleocapa. Pavese ingerì una micidiale mistura di farmaci e sonniferi: lo trovarono solo il pomeriggio successivo.
Sulla scrivania lasciò una copia dei Dialoghi con Leucò. Sul frontespizio un appunto a mano: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».

Pavese fu studente (e successivamente anche insegnante) al Liceo D’Azeglio, lo stesso che – circa cinquant’anni dopo di lui – frequentai anche io, senza alcun merito personale, ma per pura casualità territoriale. Non solo tale collegamento mi lega al grande intellettuale piemontese: in questa notte silenziosa i miei pensieri corrono a molti risvolti di vita che ci accomunano.

Al D’Azeglio Cesare faceva parte di una nidiata terribile fra gli allievi del celebre professor Augusto Monti: Giulio Einaudi, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila (il celebre alpinista, poi accademico CAI), tanto per citarne alcuni. Più che per sua convinzione personale, fu per il piacere di stare insieme a questi amici antifascisti che Pavese si spinse su posizioni non gradite al regime. Successivamente, per compiacere ad una giovane donna di cui si era invaghito, si prestò a far recapitare presso la sua abitazione alcune missive compromettenti. Fu scoperto e condannato al confino a Brancaleone Calabro: doveva starci tre anni, se la cavò con uno circa, ma gli bastò per comprendere che non amava il mare, pur essendo un nuotatore esperto. Era, infatti, nuotatore da fiumi: il Belbo in gioventù, il Po negli anni di Torino.

Poco prima del confino, Pavese aveva contribuito alla fondazione (1933) della casa editrice Giulio Einaudi, di cui ricoprirà a lungo il ruolo di Direttore Editoriale. Infatti Leone Ginzburg (ebreo antifascista di lontane origini russe e co-fondatore della Einaudi) fu a sua volta spedito al confino in Abruzzo e poi incarcerato, torturato e ucciso.

Gita nelle Langhe, 1932. Da sinistra: Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Franco Antonicelli e Augusto Frassinelli. Secondo i racconti dell’epoca, la foto è stata scattata da Massimo Mila, futuro accademico del CAI. Foto: Pinterest.es.

Mi è personalmente facile immaginare l’allegra combriccola di quegli intellettuali che uscivano dai locali dell’Einaudi (inizialmente in Via dell’Arcivescovado, poi stabilmente in Via Biancamano, in pieno centro di Torino). Mi è facile perché, tornando dal D’Azeglio verso casa, passavo davanti alla sede dello Struzzo (lo stemma dell’Einaudi) e spesso incontravo la corrispondente combriccola dei decenni successivi: da imberbe quindicenne mi infilavo fra Fruttero e Lucentini, forse Italo Calvino e poi Bollati, Boringhieri e chissà chi altro. Si trattava di una o addirittura due generazioni successive al gruppo di Pavese, ma il clima umano era molto simile e allora come oggi mi riesce facile comprendere l’allegria dei tempi di Cesare, quando la compagnia, con la “topolino amaranto”, d’estate si spostava per la cena su in collina.

Pavese all’Osteria dei Francesi, sulla collina di Torino.Foto: sito Comune S. Stefano Belbo.

Oltre ad analizzare, ricompattare e dare alle stampe i testi degli altri, nel suo ruolo di Direttore editoriale, Pavese ha scritto molto di suo. Lavorare stanca è una delle sue prime pubblicazioni. Il titolo da solo la dice lunga sulla sua visione del mondo: l’esistenza vuota può essere riempita dalla fatica dell’impegno professionale, cui Pavese era dedito con abnegazione da vero stakanovista.

Idealmente mi piace collegare questo titolo con quello di una delle sue successive pubblicazioni (in realtà si tratta di una specie di diario): “Il mestiere di vivere”. Vivere dunque è cosa faticosa, complicata, arcigna. Se non si incontra la fatica nella quotidianità, in quanto ce la propina l’esistenza stessa, la si può ricercare, nel lavoro ma anche nelle giornate di svago. Per Pavese uno dei piacere più significativi consisteva nel tornare nelle sue Langhe (era originario di Santo Stefano Belbo), dove da ragazzo aveva vissuto momenti spensierati di libertà bucolica. «Il mio paese son quattro baracche e tanto fango, ma lo attraversa lo stradone provinciale dove giocavo da bambino», scrisse in età adulta. Oggi Santo Stefano Belbo è un elegante comune langarolo che merita una visita a prescindere dall’interesse per Pavese.

Santo Stefano Belbo, oggi. Foto: sito Comune S. Stefano Belbo.

Camminare in Langa (al singolare, come spesso la si chiama sul posto) aveva per lui un inconscio valore di ritorno pascoliano all’innocente fanciullezza. Pavese ha lasciato scritto: «A piedi vai veramente in campagna, prendi i sentieri, costeggi le rive, vedi tutto. C’è la stessa differenza che guardare un’acqua o saltarci dentro».
L’immagine non è casuale: da ragazzo prendeva sovente il bagno nel Belbo e poi si sdraiava nudo sulla riva, come se si facesse coinvolgere in un rito pagano di ritorno alla natura.

Franco Vaccaneo, nel suo pregevole saggio “Cesare Pavese, vita-colline-libri” afferma: «Grande camminatore, Pavese amava percorrere le colline alla ricerca dello spirito dei luoghi, anche se la lente con cui osservava era deformata dalle riflessioni sul mito … Come immaginare uno scenario migliore delle Langhe per ricreare la mitologia classica? … Così i falò delle campagne diventano i fuochi sacrificali dell’antica Grecia, le vigne e i campi di granoturco i luoghi del mito al di là dello spazio e del tempo; le colline con le morbide linee sinuose evocano i corpi femminili e le crepe della terra, provocate dalla siccità, diventano ferite insanguinate».

Foto: visitpiemonte.it

Vedremo fra poco che le colline langarole non sono sempre “morbide”, così come non sono sempre dolci e materni i corpi femminili, che anzi si inscrissero in pagine molto amare nella vita di Pavese. Ma forse anche per stemperare queste ferite dell’anima, Cesare tornava con piacere alle sue amate terre e le girava un po’ alla ventura. Raccontava Oreste Molina, amico di lungo corso: «Noi andavamo per quelle colline e Pavese d’un tratto diceva: “Proviamo ad andare a destra” e ci andavamo. Non c’era una meta ben precisa. La calma, la tranquillità del luogo. Lui trovava una certa serenità nel paesaggio».

Foto: cadellupo.it

Camminare in Langa, dunque, cioè immergersi nel paesaggio, nella natura, nei riti della civiltà contadina. La Langa di allora era sicuramente molto diversa da quella dei giorni nostri. Più bucolica, ma anche più selvaggia, più dura, più severa. Le Langhe non sono montagne nel senso stretto del termine, ma camminare in quei territori era (ed è anche oggi, seppur con delle differenze) un’avventura con un suo perché.

Il territorio, la terra langarola, è parte integrante della visione pavesiana. La vita è dura e tale durezza deriva dalle condizioni dell’esistenza a sua volta plasmata dalla durezza del territorio.

La visione delle Langhe come terra rude è comune anche ad un altro scrittore piemontese più o meno di quegli anni: Beppe Fenoglio, l’autore de Il Partigiano Johnny. Pavese e Fenoglio io li chiamo “gli americani di casa nostra” per la comune passione verso la cultura e la letteratura anglosassone (statunitense in particolare). Pavese, più intellettuale, con le sue traduzioni (celeberrima quella di Moby Dick) contribuì alla diffusione qui da noi degli autori d’oltreoceano. Fenoglio aveva una conoscenza più pragmatica dell’anglicismo, più calata nel quotidiano, dove mescolava spesso termini italiani ed inglesi, come appunto nella stesura di “Johnny”. In comune ebbero questo: entrambi rielaborarono l’utilizzo del territorio (molto caro agli americani di inizio ‘900, si pensi a Hemingway), descrivendo la durezza della terra langarola e, di conseguenza, la crudezza dell’esistenza che se ne conduceva.

La Langa, se non è montagna, ne ricalca appunto la natura ruvida e aspra. Scrive Fenoglio in “Johnny”: «In quella early primavera, il quartier generale dei partigiani badogliani, o “azzurri”, si trovava in un punto quotidianamente spostato della conca sottostante il paese di Mango. Rispetto alle alte colline, il paesaggio era lievemente più gentile, ma era come una graduazione di gentilezza sul grugno d’un cinghiale».

Il grugno d’un cinghiale: altro che morbide colline che ricordano corpi femminili! Certo in Langa si alternano colline sinuose come seni di donne ad altre erte e aguzze, con creste impervie e rive fitte di boschi come gli aculei di un istrice.

Nelle Langhe si trovano anche scoscesi calanchi. Foto: caiasti.it.

Si percepisce al volo che la rudezza langarola per Fenoglio è connessa alla crudezza della guerra partigiana. Per Pavese, invece, lo è in assoluto, in quanto determina la durezza della vita contadina. Contemporaneamente, però, per Pavese la terra è anche terra-madre, in una visione a trecentosessanta gradi che chiude il cerchio fra durezza di vita e abbandono all’abbraccio materno. Due cose in una, due opposti che si fondono insieme. Camminare in queste terre consente di percepire appieno questa profonda fusione. Camminarci, perché queste terre ti entrino dentro per non scordarle mai più: «Le Langhe non si perdono» diceva un cugino di Cesare, tal Silvio Pavese.

Langhe dirupate. Foto: caiasti.it.

Camminare per Langhe non è mai stato semplice e ricalca le escursioni che si possono compiere a quote più elevate nelle Alpi o negli Appennini. In modo molto semplicistico (e non privo di imprecisioni) si può affermare che le Langhe propriamente dette sono tre ampi costoni boschivi ed erbosi che si staccano (intorno ai 700-800 m) dallo spartiacque appenninico-alpino, degradando progressivamente verso Nord. A separare questi costoni, due contorte valli, incise profondamente dai rispettivi corsi d’acqua: la Bormida e il Belbo. Tutto a Ovest scorre invece il Tanaro che, con maggior portata d’acqua, si è scavato un letto ampio e sontuoso. Oltre il Tanaro si trovano le colline albesi o del Roero, come oggi si preferisce chiamarle. La quota qui è inferiore rispetto all’Alta Langa, ma il paesaggio ne ricalca le caratteristiche.

Vigne langarole: in primo piano un caratteristico ciabòt. Foto: AIS Lombardia.

Vi è poi una cicatrice artificiale, costituita dall’autostrada che taglia orizzontalmente questo tratto di Piemonte. A Nord dell’autostrada si trova il Monferrato, che ripropone (seppur a quote inferiori: le sommità dei bricchi raggiungono i 250-300 m) l’andamento collinare delle Langhe, ma con la differenza che qui l’argilla del terreno è tendenzialmente grigiastra, mentre in Langa è soprattutto arancione-rossastra, con qualche rara zona bianca.
In realtà il termine Monferrato dovrebbe abbracciare tutta questa porzione di Piemonte, in quanto rientrava nei domini del Marchese del Monferrato. Con il tempo si è affermata la propensione a chiamare Langhe quello che sarebbe l’alto Monferrato, mentre il basso Monferrato (che gravita su Casale) è diventato Monferrato tout-court. Ma, insomma, sono due facce della stessa medaglia.

L’argilla è una caratteristica saliente di queste zone, in particolare del territorio langarolo. D’estate, sotto i dardi implacabili del sole, l’argilla si secca e si spacca in mille ferite, che sembrano sanguinare proprio per il loro colore. Quando invece piove o addirittura nevica, la stessa argilla si rammollisce, magari per diverse decine di centimetri, diventa quella che chiamiamo pauta: procedere in quel fango melmoso diventa un’impresa quasi epica.

Ne so ben qualcosa di persona. I mie genitori durante la Guerra furono sfollati a Montà d’Alba, nel Roero. Si procurarono un fazzoletto di vigna, proprio quattro filari, tanto che mi verrebbe da dire alla Pavese: «Quattro filari in croce e un gran fango, ma là ci giocavo da bambino».
In anni di stenti, quelli della guerra (quindi non quelli miei), nelle vigne si piantavano anche alberi da frutta e magari si coltivavano orti improvvisati. Frutta e verdura servivano sia per la consumazione diretta che come merci di scambio con altri prodotti di prima necessità: uova, farina, zucchero.

Io sono invece nato negli anni ’60 e ho vissuto la vigna nel periodo più felice: a fine estate la vendemmia di quei pochi filari era una tipica festa familiare, allegra e scanzonata.

La mia prima vendemmia nella vigna di Montà, settembre 1962. Foto: Archivio Famiglia Crovella.

In vigna c’erano alcuni alberi da frutta. A giugno mangiavamo i graffioni, ciliegie grosse come noci, e in autunno raccoglievamo le pere, dure come pietre, che mia madre faceva cuocere lentamente al forno, ammorbidendole nel vino e dando loro un gusto profondo, credo con la cannella: ce n’erano così tante, di pere, che a fine cena mangiavamo pere al forno fino a tutta la successiva primavera.

Raccolta dei graffioni nella vigna, giugno 1963. Foto: Archivio Famiglia Crovella.

Pochi ricordi, oggi un po’ annebbiati e confusi per i decenni nel frattempo trascorsi. Ma anche io posso dire di aver vissuto, da quelle parti, scampoli di infanzia innocente e spensierata, come capitò a Pavese sulle rive del Belbo, che tra l’altro non è molto distante da Montà.

In vigna insieme a mio padre (con la cravatta!), giugno 1963. Foto: Archivio Famiglia Crovella.

Ai miei tempi la Langa era già diversa rispetto agli anni precedenti, ma non così profondamente diversa: si potevano ancora attraversare le proprietà altrui e un fico rubato non faceva immediatamente scattare sanzioni (né schioppettate), perché a rotazione si prendevano grappoli o frutti degli altri, in un clima di mutua condivisione contadina della terra. La libertà di spostarsi fra le proprietà permetteva di camminare senza confini, inanellando facilmente percorsi lunghi e avventurosi.

Questo capitava fino ai mie dieci-dodici anni circa. Successivamente, da alpinista in piena attività, mi è poi capitato di tornare a camminare in Langa, anche nell’alta Langa, intendo. Mi è capitato soprattutto d’autunno, quando le foglie delle viti sono rosso-arancioni e l’aria frizzante è impregnata del profumo del mosto.

Ci sono tornato anche in pieno inverno, dopo abbondanti nevicate, affondando pesantemente nonostante gli scarponi d’alta quota. In un paio di occasioni siamo anche riusciti a percorrere lunghi tratti innevati con gli sci da fondo.
La neve è tutt’altro che infrequente nelle Langhe e costituisce una difficoltà in più. C’è un bel passo, nel “Johnny” di Fenoglio, dove – dopo una nevicata – si scontrano due esigenze contrapposte: i contadini vorrebbero pulire i viottoli per le esigenze della vita quotidiana, i partigiani tenerli innevati per evitare i rastrellamenti.

Le Langhe d’autunno. Foto: camminiditalia.org.

La Langa invernale è perfettamente descritta da Fenoglio con gli occhi di Johnny al risveglio dopo una nevicata notturna: «Tutto il mondo collinare candeva di abbondantissima neve che esso reggeva come una piuma. Assolutamente non sopravviveva traccia di strada, viottolo e sentiero e gli alberi del bosco sorgevano bianchi a testa e piede, nerissimo il tronco, quasi estrosamente mutilati. E le case tutt’intorno indossavano un funny look, di lieta accettazione del blocco e dell’isolamento. Pareva un giorno del tutto estraneo, stralciato alla guerra, di prima o dopo essa… Ficcò le mani nella neve indurita: era compatta e cellulosa, durevole, non si sarebbe lasciata metter via da un po’ di sole o vento marino… Si rivolse a fiato mozzo alle Alpi come al dono maggiore di quella straordinaria mattinata, ma fu deluso, esse sfumavano opache dietro una cenciosa, inferiore cortina di spenti vapori».

Magia delle Langhe innevate. Foto: deejay.it.

Nevicate così in Langa ne ho viste anche io. Forse oggi non nevica più con tale abbondanza e magia. Oggi le Langhe sono cambiate ed è cambiato anche il modo di percorrerle per diletto. Innanzitutto è cambiato il territorio, specie negli ultimi tre decenni, per il dominio quasi assoluto della viticultura, solo in parte compensato dai noccioleti connessi alla produzione della celebre crema di cioccolata. La viticultura sta prendendo il posto di ogni altra manifestazione naturale (boschi, prati, ripide rive): probabilmente Pavese e Fenoglio non riconoscerebbero più le “loro” Langhe.

Le Langhe innevate con il Monviso sullo sfondo. Foto: stradedelbarolo.it.

Sono cambiate anche le vigne: ormai domina un’impostazione industriale, per cui i filari sono più distanti (per consentire di arare con trattorini e non più zappando a mano), i pali sono in cemento, non ci sono quasi più alberi da frutta nei vigneti, che invece sono tenuti come dei gioiellini. Il vino che generano ha un notevole valore commerciale e i proprietari non hanno più piacere che estranei (anche se innocenti viandanti) possano transitare liberamente per le loro terre.

Foto: langhe.net

Di converso, anche in Langa al camminare per diletto si sta sostituendo l’uso delle mountain bike (MTB), fino a pochissimo tempo fa esclusivamente “muscolari” (cioè a pedali), oggi anche nella versione e-bike. I viottoli sterrati e le numerose carrarecce si prestano perfettamente a questa attività, in particolare nelle stagioni intermedie, quando gli itinerari di montagna non sono ancora (o non sono più) in condizioni.

Le Langhe offrono interessantissimi itinerari da percorrere in MTB. Foto: piuturismo.it.

Un’altra cosa che, piano piano, sta scomparendo nelle Langhe sono le piòle, le osterie. Oggi ci sono molti punti di ristoro, anche più di un tempo, ma si tratta di agriturismi o enoteche stellate, magari con annessa piscina e zona benessere: roba post-moderna, niente a che fare con le vere piòle. Io mi riferisco alle piolacce, spartane e veraci: tavoli di legno, con tovaglie di carta a quadretti bianchi e rossi, i bicchieri a fondo stretto e con le losanghe sui lati.

Foto: minitalia.virgilio.it

All’esterno si trova sempre una tòpia (pergolato) con rinfrescanti foglie per proteggersi d’estate dal sole. Dentro, spesso, un grande camino per le giornate uggiose d’autunno e quelle gelide dell’inverno.
Queste piole avevano nomi dal tenore medievale: Osteria del Gallo Nero, oppure del Falco Rosso, oppure Osteria dell’amicizia, oppure semplicemente “da Nigiu” (Luigi). Qui si trovavano e si dovrebbero ancora trovare i piatti della nostra tradizione: anciove al verd (acciughe al verde), vitello tonnato, tomini elettrici e poi i due piatti regali, il fritto misto alla piemontese e la bagna-cauda. Però le mie preferenze, specie al termine di lunghe escursioni autunnali con fitta nebbia fuori e con il camino acceso nella piòla, vanno al bollito, che qui spesso si chiama “lesso”: mi piacciono in particolare i pezzi di carne grossa, insaporiti con il bagnetto, sovente molto agliato, che può essere rosso (a base di pomodoro) o verde (prezzemolo). Il pane tipico delle Langhe è costituito da micconi così grandi che stanno in due mani, con la crosta croccante e dura e la mollica molto bianca e morbidissima: si sposano bene con il salame sia crudo che cotto, oppure per sfregarci sopra la crosta uno spicchio d’aglio con tanto sale (è la cosiddetta soma d’aj).

Foto: accademiaitalianadellacucina.it

Nelle piòle, poi, scorre molto vino del posto. Mica i nobili Barolo e Barbaresco, ma spesso una barberina pungente e asprigna, al massimo un Dolcetto o un Nebbiolo (che poi è il capostipite di molti dei vitigni locali). Il Grignolino è più difficile trovarlo: il grignolino migliore è tipico del Monferrato, a Nord dell’autostrada, perché cambia la composizione del terreno e quel vitigno, là, rende meglio. «Il grignolino è un vino particolare: c’è chi ci piace e chi no» ha sempre sostenuto mio suocero, la cui famiglia è monferrina da secoli.

Pavese conosceva anche il Monferrato, poiché trascorse lunghi periodi (specie durante i mesi terribili dopo l’8 settembre) nella casa di campagna del cognato a Serralunga di Crea: alternava lunghe sedute di lavoro nella biblioteca di un convento di Casale a frequenti camminate su e giù per i bricchi monferrini. Camminare è sempre stata una sua costante, anche se il periodo di Crea corrispose, per Cesare, ad una profonda crisi mistico-religiosa.

Santuario del Sacro Monte di Crea. Foto: Langhe.net.

«Le Langhe non si perdono». Quante cose, però, sono cambiate dai tempi di Pavese! La monocultura vinicola ha imposto una visione industriale, l’antico quadro bucolico è pressoché spazzato via. Ciò nonostante camminare in Langa ha sempre il suo fascino ed è un’esperienza che non dovrebbe mancare neppure ai più esperti appassionati di montagna.

Foto: langhe.net

Certo è stato frantumato il legame con la terra, almeno come lo vedeva inconsciamente Pavese. La terra, la natura, i riti della società contadina sono un tutt’uno che non possono essere smembrati né rinnegati, pena la disumanizzazione dell’esistenza. Ne La luna e i falò si trova un celebre dialogo fra Anguilla e Nuto. Anguilla è stato in giro per il mondo e ha perso il contatto con la terra, con la natura, con la vita contadina. Nuto, invece, è rimasto e gli ricorda gli antichi legami. «La luna – disse Nuto – bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano».

Il casotto sulla collina di Geminella (sopra S.Stefano Belbo) immortalato ne “La luna e i falò”. Foto: Fondazione Pavese.

Già allora Pavese preconizzava inconsciamente la deriva consumistica dell’uomo moderno che tutto vuole in barba alle leggi della natura. Forse, lui non avrebbe mai accettato di vivere nel mondo industrializzato che imbarbarisce l’animo umano. Non scandalizzi quindi la sua decisione: è semplicemente andato avanti, si è sgravato di un peso sullo stomaco, perché non sarebbe stato a suo agio in una società che non guarda più alla luna, che non accende più i falò.

Lavorare stanca, sosteneva Pavese. Camminare stanca, dico io, ma, proprio per questo, rigenera perché riannoda i legami con la terra e la natura. Già che ci siamo, qualche volta andiamo a camminare nelle Langhe: non ci sono vette rinomate, pochi i dislivelli titanici, nessuna difficoltà arrampicatoria. Ma camminare in Langa è saltare dentro l’acqua, non semplicemente guardarla, come affermava Pavese.

Camminare in Langa, dimenticare Anguilla, riscoprire Nuto: sicuramente non ci farà male, anzi. Concediamoci molti di questi regali prima che tocchi anche a noi scendere nel gorgo, muti.

A Giovanni Ramella, maestro di vita prima che di scuola, nel secondo anniversario della scomparsa

I BRIGANTI DEL MONTE SERVIN

Dal bel sito Valdesina.it, che vi consiglio di visitare, riproponiamo questa bella leggenda ambientata nella Valle d’Angrogna già pubblicata il 9 giugno 2017

Ciao! La leggenda che vi racconto oggi è ambientata nel territorio di Angrogna, in Val Pellice, e i suoi protagonisti sono un gruppo di briganti e un ragazzo qualunque che per un giorno si è trasformato in un eroe.

La domenica mattina gli angrognini delle varie borgate erano soliti riunirsi al tempio del Serre per assistere al culto. In una di queste occasioni, il bestiame venne affidato a un giovane del posto che lo condusse al pascolo alla Vaccera mentre tutti erano impegnati in chiesa. Il ragazzo cantava spensieratamente a piena voce godendosi la giornata e la solitudine. A un certo punto notò un movimento e da dietro il monte Servin vide sbucare una banda di briganti che si avvicinarono a lui puntando i fucili. A quel punto ebbe un’idea per sfuggire alle grinfie dei briganti: iniziò a dire un sacco di stupidaggini e, fingendosi stralunato, cominciò ad afferrare le canne dei fucili come se fossero inoffensive e a chiedere ai banditi a cosa servissero quel bastoni bucati. Gli uomini credettero di trovarsi davanti a un povero pazzo e, dopo avergli fatto giurare di non dire nulla ad anima viva, lo lasciarono andare e si rifugiarono col bestiame rubato nel bosco della Couloumbira.

Il ragazzo a questo punto non perse tempo e cominciò a correre a rotta di collo verso il tempio del Serre. Attraversò di corsa una borgata e gli abitanti, vedendolo, commentarono la sua gran velocità: «Për anâ, sì qu’anava!» cioè «per andare, sì che andava!», e questa esclamazione diede il nome della borgata Pranà.

Arrivato al tempio entrò con una foga e un’espressione così sconvolta che tutti si girarono a guardarlo esterrefatti e persino il pastore interruppe il sermone. Il ragazzo si avvicinò a un pilastro e disse:

«Të diou a tu, piloun
Ëntënd tu, baroun
Lou bosc dë Couloumbira
É piën ‘d ladroun»

«Lo dico a te, pilastro
Ascolta tu, padrone
il bosco di Couloumbira
è pieno di ladroni!»

Con un altro stratagemma furbissimo, quindi, il ragazzo riuscì così ad avvertire gli abitanti della presenza dei briganti senza rompere il giuramento. I fedeli uscirono subito dal tempio e iniziarono ad armarsi di bastoni, roncole, picconi, pale e zappe, qualsiasi cosa potesse diventare un’arma per difendersi dai briganti. Andarono tutti coraggiosamente incontro ai ladroni e li incontrarono in una località che da allora venne chiamata La Routta (la rotta). Gli angrognini ebbero la meglio sui banditi e riuscirono a riprendersi il bestiame. Mi piace pensare che il coraggioso ragazzo da allora sia stato trattato come un vero eroe!

Walter Bonatti: “Stati di grazia”

Museo Nazionale della Montagna – WALTER BONATTI – Mostra “Stati di grazia”

L’anteprima internazionale della mostra che il Museo Nazionale della Montagna di Torino dedica a Walter Bonatti e che sarà inaugurata il prossimo giugno, proprio nell’anno in cui ricorre il decennale della sua scomparsa.

Un grande esperimento antropologico
Imprese avventurose ma anche esplorazioni introspettive, alla ricerca delle origini dell’uomo. Questo e altro ancora viene narrato all’interno della mostra del Museo Nazionale della Montagna Stati di grazia. Un’avventura ai confini dell’uomo dedicata a Walter Bonatti.

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Dantedì: IL 2021 L’ANNO DI DANTE

IL 2021 L’ANNO DI DANTE
L’edizione del 2021 è quella più significativa perché avviene del settecentesimo anniversario della morte del Sommo Poeta.

Il 25 marzo è la Giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, istituita nel 2020 dal Consiglio dei ministri e denominata Dantedì. Il 25 marzo, data che gli studiosi riconoscono come inizio del viaggio nell’aldilà oggetto della Divina Commedia, si ricorda in tutta Italia e nel mondo il genio di Dante con numerose iniziative organizzate dalle scuole, dagli studenti e dalle istituzioni culturali. L’edizione del 2021 è quella più significativa perché avviene nel settecentesimo anniversario della morte del Sommo Poeta. 

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ALMENO SU UNA CIMA, NO

Riceviamo dall’amico Enrico Camanni …“Vi invito tutti a sottoscrivere l’iniziativa che stiamo portando avanti per i 100 anni del Parco nazionale Gran Paradiso. Si tratta di un’idea rivoluzionaria per il nostro tempo avido di performance e povero di spirito. Niente di costrittivo, sia chiaro. La “Montagna Sacra” non sarà un luogo di divieti, perché un progetto culturale non può basarsi sull’imposizione. Il progetto non prevede alcuna interdizione formale, nessun divieto d’accesso, nessuna sanzione pecuniaria per chi non vorrà “astenersi”. Molto più semplicemente, l’impegno a non salire in cima è una scelta suggerita e argomentata, al fine che venga rispettata dall’intera comunità. Siamo assolutamente rispettosi della libertà altrui, ma faremo ogni sforzo perché la nostra visione venga compresa e condivisa dai più, non come atto di forza ma, al contrario, come gesto di liberazione.”Per leggere e sottoscrivere: www.sherpa-gate.com/la-montagna-sacra/