FRANCO RIBETTI ci ha lasciati

Franco se ne è andato. E’ stato un grande alpinista ed un socio che ha fatto onore al nostro Club (Club Alpino Accademico Italiano ndr), oltre che un grande amico per molti di noi. Per ricordarlo in questo momento triste, e per contribuire a cementare il suo ricordo ho pescato nell’archivio del mio computer due brani che avevo scritto dedicati a lui, brani che desidero condividere con voi. Franco non amava scrivere e nelle sue esternazioni era lontanissimo da ogni forma di autocelebrazione, il compito di esternare era sempre demandato a me.
Ugo Manera

FRANCO RIBETTI

Giorgio e Franco Ribetti

Franco Ribetti è nato nel 1939, fa parte di una famiglia numerosa: tre sorelle e due fratelli. Franco era il più giovane dei due fratelli e, probabilmente, il più viziato dalla mamma. Ad Ala di Stura, nelle valli di Lanzo, trascorrevano le vacanze estive e dai genitori, e dalla zia Adriana, Franco e suo fratello Giorgio, hanno ereditato la voglia di andare in montagna; fin da ragazzini scorrazzavano sui pendii della valle cacciandosi spesso in posti pericolosi.
Franco dice di sé: << Ero magrolino e cagionevole di salute: una “mezza sega” sempre ammalato!>>. Lo zio Dionisi sosteneva che bisognava fargli fare attività fisica per rinforzarlo così, tredicenne, lo portò alla scuola Gervasutti. Non solo Franco si rinforzò ma si dimostrò eccezionalmente dotato nell’arrampicata e totalmente senza paura, tanto che spesso suo zio interveniva per frenarlo. A 16 anni, nel 1955, divenne istruttore nella scuola. Scalava spesso con suo fratello Giorgio con il quale aveva uno stretto legame. Anche Giorgio divenne istruttore della scuola Gervasutti.
Franco è un tipo che non ama parlare troppo ma è sempre pronto alla battuta spiritosa, portato più all’azione che alle parole. Un loro problema a quel tempo era la cronica mancanza di soldi; Franco per guadagnare qualche cosa si mise a tracciare i sentieri a cottimo, vestito di un vecchio impermeabile, con i barattoli della vernice appesi a vita, su e giù di corsa per i sentieri della Valle. Sempre per racimolare qualche cosa si mise a catturare le vipere che poi vendeva ai centri di raccolta per la preparazione del siero antiofidico. Non disponevano di mezzi di trasporto e le salite cominciavano quasi sempre a piedi da Ala con avvicinamenti infiniti.
In quegli anni l’arrampicata sui massi era quasi sconosciuta. Era noto che i parigini scalavano sui massi nella foresta di Fontainebleau e si conoscevano altri pochi esempi qua e là. A Torino questa pratica quasi non esisteva prima delle Courbassere: caos di massi nei pressi di Ala di Stura. Su quei massi Franco fu il principale protagonista, superò per primo dei passaggi molto difficili e rischiosi. Come è stata sempre sua abitudine, egli minimizzava le prestazioni in genere e soprattutto le proprie. Non gli è mai importato nulla di apparire per cui raramente dava notizia delle cose fatte così, anche alle Courbassere, molti passaggi attribuiti ad altri erano già stati saliti da lui.
Oltre all’attività nella scuola, Franco sviluppò la sua azione con molti degli scalatori di punta dell’ambiente torinese di quel tempo. Si legò strettamente con Guido Rossa, erano ambedue scalatori eccezionali, disincantati, senza paura e sovente trasgressivi. Insieme ne hanno combinate di tutti colori in quelle che Franco definisce: “Stronzate Alpine”. Franco era il più giovane e con poche inibizioni e paure, spesso veniva mandato avanti come apripista in scherzi ed azioni ben fuori dalle righe. Entrò nel Club Alpino Accademico giovanissimo con un’attività del tutto eccezionale. Nel 1959 la sua attività alpinistica viene considerata tra le cinque migliori tra i giovani scalatori italiani e viene premiato a Roma. Tra le scalate di maggior rilievo alcune “prime”, la Est del Capucin e la Ratti-Vitali sulla Ovest della “Noire”.
Franco Ribetti, sempre più scatenato, viene fermato nel 1960 da un grave incidente. Succede in una uscita della scuola Gervasutti; la meta è la parete Nord dell’Uia di Mondrone. Nella notte è piovuto e la roccia è umida ma Ribetti attacca ugualmente, sale i primi 40 metri non difficili senza piazzare protezioni poi, o perché scivola sulla roccia umida, o perché viene sbilanciato dalla corda che l’allievo non gli cede con sufficiente rapidità, cade e rotola fino alla base schiantandosi su una lingua di neve che gli salva la vita. E’ chiaro ad istruttori ed allievi presenti che è gravissimo, occorre trasportarlo a valle. Allora non esisteva il soccorso con elicotteri, bisognava trasportalo a spalla. Viene reperita una scala a pioli di legno nella grangia più vicina che, trasportata alla base della parete, diventa la barella per l’infortunato nel trasporto fino alla strada carrozzabile.
Nella caduta aveva riportato fratture ovunque oltre che gravi lesioni interne. Il professore che lo prese in cura fece miracoli ma ci vollero 2 anni per guarire completamente.
Quando fu in grado di riprendere l’attività motoria provò nuovamente a scalare ma intanto si era molto impegnato nella carriera lavorativa e stava per sposarsi; decise di chiudere con l’alpinismo. Cessare l’amata attività non significò smettere con lo sport, anzi. Si dedicò al ciclismo: aveva uno zio ex campione ciclista e con lui percorse tutti i colli più duri e celebri delle Alpi, compresa la traversata del Colle delle Traversette passando per il Buco di Viso con le biciclette a spalle. Continuò intensamente con lo sci alpinismo, spesso con il fratello. Praticò molto anche la corsa a piedi, attività per la quale era portato.
Passarono gli anni ed il nome di Ribetti nell’ambiente torinese era sempre vivo, soprattutto quando qualcuno ripeteva le sue vie. Ma tutti pensavano che appartenesse ormai al passato.
Verso la metà degli anni ’70 Franco Ribetti ritornò all’alpinismo. Anche questa volta promotore fu suo zio. Pino Dionisi stava organizzando una delle sue molte spedizioni nelle Ande Peruviane e convinse Franco a prendervi parte. La spedizione riaccese in lui la passione e riprese ad arrampicare. Un incontro con Ugo Manera ad altri ai Denti di Cumiana determinò il suo ritorno alla scuola Gervasutti. La prima scalata compiuta con Manera fu l’apertura di una nuova via, nel gennaio 1982, sulla tetra parete nord dell’Albaron di Sea in valle Grande di Lanzo. Con quella ascensione ebbe origine una cordata affiatata destinata a realizzare numerose ed impegnative scalate negli anni a seguire.
Franco Ribetti risultava compagno di cordata ideale per Manera che era sempre alla ricerca di nuovi problemi da risolvere, Ribetti era costantemente disponibile ad assecondare le fantasie dell’amico. E’ lunga la lista di prime ascensioni realizzate insieme, dalla lontanissima Cresta de Prosces nel vallone di Noaschetta, Gran Paradiso, all’ Integrale della cresta di Tronchey alle Grandes Jorasses nel gruppo del Monte Bianco. Con Franco Ribetti Manera riuscì ad affrontare progetti per i quali da anni cercava inutilmente soci di cordata disponibili. I due, pur non più giovani, nel 1983 non esitarono ad affrontare problemi molto impegnativi come una via diretta sul formidabile pilastro della Tour des Jorasses. A metà del pilastro i due furono fermati da una placca priva totalmente di fessure atte a ricevere ancoraggi di protezione. Per scelta non praticavano fori nella roccia per cui furono costretti a rinunciare. Cinque anni dopo la placca venne superata dallo svizzero Michel Piola ricorrendo all’impiego degli spit. Il celebre alpinista elvetico traccio la bellissima e molto difficile Etoilles Filantes.
Ribetti non è mai stato ciarliero ma anche a lui a volte piaceva raccontare nel suo modo disincantato avvolto sempre da un velo di umorismo. Cosi da lui abbiamo appreso delle sue “Stronzate Alpine”, compiute spesso con Guido Rossa, come le vicende della “Villa Pisolino” al campeggio UGET di Val Veni, ricche di scherzi anche piuttosto spinti, atti a prendere in giro ed a far “girare le palle” al prossimo.
Negli anni ’80 Franco Ribetti partecipò a spedizioni extraeuropee due delle quali nell’Hindukush pakistano. Nella prima,1984 venne realizzata l’impegnativa cavalcata delle cime vergini della catena dei Bindu Gul Zom in cinque giorni di scalata con quattro bivacchi in parete. Oltre a Ribetti a compiere la traversata vi erano Lino Castiglia di Alba, Manera e Claudio Sant’Unione. Nel 1986 gli stessi con Mario Pelizzaro di Vercelli ed il giovane medico Alessandro Naccamuli, avevano un grande obiettivo sul Tirich Est ma la spedizione si concluse tragicamente prima di raggiungere le montagne causa un incidente con il fuoristrada sulla pista che portava verso il fondo della valle. Nell’incidente perse la vita il giovane Naccamuli, 26 anni, neo istruttore della scuola Gervasutti.
Anche Ribetti, con Manera ed altri amici non più giovanissimi, si convertì all’arrampicata sportiva quando questa si affermò radicalmente, innumerevoli le scalate “moderne” compiute nel Briaçonnais ed in tanti alti massicci.
Nel 2010 Ribetti cominciò ad avvertire problemi fisici che prima lo costrinsero a lasciare l’attività che aveva caratterizzato la sua vita e che poi lo portarono, nel corso degli anni, all’invalidità

zio e nipote (Giuseppe Dionisi e Franco Ribetti)

Storie Semiserie del Caporal
La Via della Doppia P….
Una componente non trascurabile della mia lunga “vita” alpinistica è sempre stata quella del divertimento e dell’allegria; non sono mancati attimi dai toni drammatici, ma questi momenti sono una costante nell’alpinismo delle grandi difficoltà e spesso contribuiscono ad arricchire il piatto dei ricordi, come il formaggio grana sulla pasta asciutta.
Sarà forse stata incoscienza creata ad arte, ma quasi sempre la scalata era accompagnata dallo scherzo, dallo sfottò, dalla presa in giro di presenti ed assenti e da canzoni massacrate in modo abominevole. Dal periodo delle allegre salite con Carlo Carena detto “Il Carlaccio”, bersaglio non indifeso delle nostre battute, alle tante scalate con Gian Piero Motti ove cercare l’occasione per la risata era quasi d’obbligo.
Un luogo ove, nel corso dell’aperture di tante nuove vie, non sono mancate situazioni ridicole, fino a sfiorare il paradosso, è il Caporal. Quel formidabile complesso roccioso della valle dell’Orco, che, prima della nostra scoperta, già possedeva uno sconosciuto nome locale: Dirupi di Balma Fiorant.
Acquistò grande notorietà a partire dal 1972 quando divenne la nostra “piccola California”; successivamente passò in secondo piano con l’avvento dell’arrampicata sportiva e degli itinerari attrezzati a spit e fix salvo poi ritornare alla grande in data recente, con i meeting di arrampicata Trad organizzati dall’Accademico. Ora è conosciuto universalmente ed è facile trovarvi più scalatori stranieri che italiani.
Condite con un po’ di nostalgia mi è venuto voglia di raccontare qualcheduna di quelle storie semiserie cominciando dall’ultima: la “Via della Doppia P…” alla Parete delle Aquile, del novembre 1982. Ero in compagnia di Franco Ribetti ritornato alla grande alle scalate; eravamo allora ambedue scafati ultra quarantenni ma la nostra fu un’impresa esemplare da incoscienti pivelli.
Franco negli anni ’50 era “l’enfant prodige” dell’alpinismo torinese; nipote di Giuseppe Dionisi, fondatore della scuola di alpinismo Giusto Gervasutti, venne guidato dallo zio alla scuola: a 13 anni era già allievo ed a 16 anni istruttore; la paura era per Franco quasi sconosciuta ed alcuni passaggi da lui superati per primo sui massi delle Courbassere, preludio torinese al moderno Bulder, rasentavano la temerarietà. Legato da grande amicizia con Guido Rossa, di qualche anno più vecchio, oltre alle scalate, insieme ne combinarono di tutti colori guidati da spirito dissacrante e scherzoso.
Nel 1960, all’attacco di una via sulla parete nord dell’Uia di Mondrone, nel corso di un’uscita della scuola di alpinismo, Franco scivolò sulla roccia resa umida da recente pioggia e si fece 40 metri di caduta rotolando sulle balze e finendo su una lingua di neve che, probabilmente, gli salvò la vita. Ne uscì con fratture multiple e lesioni interne. Non era ancora l’epoca dei soccorsi con elicottero e venne trasportato a valle adagiato su una scala a pioli a mo’ di barella, reperita in una grangia.
Impiegò due anni a guarire, provò a riprendere l’arrampicata ma poi decise di smettere con l’alpinismo continuando però con lo sci alpinismo, la bicicletta, la corsa a piedi. A metà circa degli anni ’70 suo zio Dionisi, sempre impegnato ad organizzare spedizioni nelle Ande Peruviane, lo convinse a partecipare ad una spedizione; l’evento risvegliò la sua passione alpinistica e riprese a scalare.
Allora io facevo parte della direzione della scuola Gervasutti, prima come vicedirettore, poi come direttore, Dionisi, che aveva ancora legami con la scuola pur essendo uscito dall’organico istruttori, mi disse che Franco era ritornato alle scalate e che andava forte come prima del lontano incidente. Io gli proposi subito di convincerlo a ritornare alla scuola e Ribetti ritornò tra di noi con una grande voglia di ricuperare gli anni perduti.
Io ero alla perenne ricerca di compagni di cordata per realizzare i miei obiettivi, al vedere tanto entusiasmo in Franco, gli proposi presto di combinare una salita per conoscerci meglio e per collaudarci a vicenda. La nostra prima salita insieme fu un po’ particolare: Una via nuova di roccia su una parete nord alta 1000 al mese di gennaio del 1982: la Nord dell’Albaron di Sea in valle di Lanzo, un bivacco in parete e l’uscita in vetta sotto una nevicata. Fummo soddisfatti dell’impresa ed il sodalizio era formato, da allora innumerevoli furono le salite effettuate insieme. Io avevo una fissa per la scoperta del terreno nuovo che rasentava la paranoia, Franco non poneva mai limiti ai miei progetti era disponibile a tutto: il compagno ideale.
Ma ritorniamo a Balma Fiorant ed alla Parete delle Aquile: la parete era stata salita per la prima volta da me con Corradino Rabbi e Claudio Sant’Unione ed il nome era scaturito dal fatto che allora la parete era abitata da due aquile che ci giravano intorno mentre noi salivamo sotto il loro nido. Successivamente su quella parete tracciai altre tre vie con compagni diversi; c’era ancora un settore caratterizzato da muri grigi e strapiombi che mi incuriosiva. Era ormai stagione avanzata: il mese di novembre 1982, Franco accolse la mia proposta senza esitazione così, un sabato dal tempo incerto, partimmo da Torino all’alba che già cadeva qualche goccia di pioggia. Il nostro ottimismo era però senza confini, a Rivarolo qualche dubbio si affacciò in noi e decidemmo di telefonare ad un bar a Ceresole Reale per informazioni sulle condizioni locali del tempo. Ci risposero che tra le nuvole c’era qualche squarcio di sereno, fu sufficiente per noi, malgrado tutto era la giornata giusta. Lasciammo la vettura al solito posto sui tornanti della strada di Ceresole e ci avviammo senza più badare alle condizioni meteo; eravamo carichi di materiale e per economizzare sul peso, non prendemmo nessun indumento oltre a quelli che avevamo in dosso. Trovammo l’attacco logico della nuova via ove avevo previsto ed iniziai io lungo un vago diedro con fessure superficiali di difficile chiodatura. Salii parte in artificiale e parte in libera fino ad un discreto ripiano. Sopra di noi si scorgevano muri grigi compatti con qualche ruga superficiale, Franco si avviò cercando le zone più arrampicabili; dopo 5 metri cercò di piantare un chiodo ma non vi riuscì, proseguì, 10 metri, non so lui ma io cominciavo a preoccuparmi, lo esortai a piazzare una protezione ma non vi riuscì, le chiodature complesse non sono mai state la sua specialità, preferiva proseguire arrampicando piuttosto che fermarsi in posizione precaria ad infiggere qualcosa nelle crepe superficiali della roccia. Non era più possibile ritornare in dietro, bisognava andare avanti fino a trovare una fessura; rividi in azione il Ribetti giovane senza paura. Finalmente trovò una fessura per un chiodo, era ad oltre 15 metri dalla sosta, tirai un sospiro di sollievo.
La salita proseguì sempre molto impegnativa, il tempo volava e noi non ce ne rendemmo conto. Franco raggiunse un microscopico ripiano in mezzo ad un’enorme placca sormontata da tetti e fece sosta. Io lo raggiunsi e continuai lungo un vago spigolo sulla sinistra, solcato da fessure, che portava sotto un marcato tetto, la progressione fu lenta, prevalentemente in artificiale, con ampio impiego di materiale. Quando arrivai sotto i tetti mi accorsi con sorpresa che era quasi buio e stava calando la notte; Franco dalla sua scomoda sosta mi gridò: << Cosa facciamo adesso >>. Oltre a non avere indumenti aggiuntivi non avevamo, naturalmente, neanche portato le pile. Risposi: << Non ci resta che aspettare l’alba battendo i denti >>. Il terrazzino di Franco era piccolo ma almeno poteva sedersi, io ero invece sulle staffe appeso ai chiodi; cominciò un’ interminabile notte di novembre. Il cielo, nero dalle nubi, decise di inasprire la nostra meritata punizione, ad un certo punto iniziò a piovere, io ero riparato dal tetto che mi sovrastava mentre Franco era colpito in pieno da un rivolo d’acqua che cadeva dagli strapiombi, in breve si trovò completamente inzuppato.
A circa metà della notte la pioggia si trasformò in nevischio con un brusco calo della temperatura, in breve la parete bagnata si ricopri di un velo di ghiaccio, la nostra situazione cominciava a diventare preoccupante soprattutto per Franco i cui vestiti fradici cominciavano a trasformarsi in uno scafandro di ghiaccio. Una drammatica invocazione mi raggiunse nella buia notte: << Ugo se non ci muoviamo io muoio assiderato, ho i piedi insensibili e non riesco più a muovere le gambe >>.
Bisognava per forza fare qualche cosa: a tentoni mi slegai ed unii le due corde, le fissai all’ancoraggio ove ero appeso, mi misi in posizione di discesa a corda doppia e, staccatomi dall’ancoraggio, cominciai a scendere liberando man mano le corde dai chiodi e nuts che avevo fissato per salire, ancoraggi che ovviamente rimasero in parete. Le corde erano gelate e la roccia ricoperta da verglas, tanto che come appoggiavo i piedi scivolavo e pendolavo appeso alle corde. Pazientemente, dopo numerosi pendoli, riuscii a raggiungere il mio compagno: io mi ero riscaldato un po’ con tutte quelle manovre ma Franco era talmente intirizzito da non riuscire a muoversi. Ricuperai le corde e sistemai una seconda calata, ma il mio socio non era in grado di scendere autonomamente così lo legai al capo di una corda, lo spinsi nel vuoto e lo calai appeso usando come freno il mezzo barcaiolo e dicendogli: << quando trovi un ripiano o cengia che ti consente di stare in piedi senza cadere fermati che ti raggiungo >>. Il tutto nella più completa oscurità . Cosi fece ed io lo raggiunsi in corda doppia. A tentoni trovai delle fessure che chiodai per l’ancoraggio della doppia successiva. Ripetemmo l’operazione laboriosa ma con maggior tranquillità perché Franco, grazie al movimento, si era un po’ riscaldato e riusciva a collaborare. Cominciò ad affiorare qualche battuta sulla nostra tragicomica situazione. Una ultima calata ci portò quasi alla base, la corda era però finita ed il mio compagnò si trovò appeso a sfiorare il terreno, era ancora buio, valutò che gli mancava meno di un metro a toccare e mi disse di mollarlo, così feci ed egli si trovò a terra tra i massi e senza danni. Con le manovre ormai collaudate scesi anch’io e toccai la base mentre cominciava ad albeggiare.
Franco aveva ancora i piedi insensibili ma aveva riacquistato la mobilità; i massi della pietraia erano coperti da un velo di ghiaccio ed era impossibile reggersi in piedi, cominciammo a scendere praticamente a quattro zampe ma eravamo fuori dai guai. Divallammo molto lentamente e quando raggiungemmo la strada di Ceresole era giorno fatto. Anche la strada era coperta da un insidioso velo di ghiaccio ed era totalmente deserta; un rumore d’auto ci testimoniò che, malgrado il tempo infame, qualcheduno stava salendo. << Vuoi vedere che stanno cercando noi? >>. Dissi al mio compagno. Infatti, erano Enrico Pessiva e Claudio Sant’Unione che, allarmati dai famigliari, si erano mossi alla nostra ricerca.
Con la consueta sua schiettezza Claudio, come ci vide sani e salvi, ci apostrofò: << Siete proprio due Pirla >>.
L’avventura era finita bene nostro malgrado, risultò che Franco non aveva congelamenti ai piedi, ma la nostra via non era finita ed inoltre avevamo lasciato del materiale in parete, così nella primavera successiva ritornammo con Sant’Unione alla Parete delle Aquile. Dalla cima scendendo in doppia, raggiungemmo il terrazzino ove tanto aveva sofferto Franco e completammo la via ricuperando il materiale che era rimasto in parete. Ritenemmo il suggerimento di Claudio giusto per cui denominammo la nuova via: “Via della Doppia P….” con chiaro riferimento ai due protagonisti.
Ugo Manera

La Montagna Sacra di Enrico Camanni

Cari amici, gentili colleghi,
il 5 aprile esce il mio nuovo libro per Laterza: “La Montagna Sacra”. Non temete, non è un saggio di teologia e nemmeno un viaggio nei misteri dell’Oriente. Chi mi conosce sa che non sono un grande viaggiatore. “La Montagna Sacra” è una provocazione – un piccolo pezzo di terra libero dall’impronta umana – ed è molto di più: perché siamo arrivati a questo punto? Perché abbiamo disimparato a convivere con la natura, dimenticando che noi siamo natura? Croci sulle cime, bandiere di guerra, strade, funivie, tutto questo per ridurle al servizio dell’uomo. Con un bel viaggio nelle nostre contraddizioni cerco di far luce sul presente, gettando degli ami per un futuro di cui non vergognarci.
Buona lettura!
Enrico Camanni

La scheda del libro – Laterza
recensione sul blog www.sherpa-gate.com

 

La montagna e il suo paesaggio

Per i ragazzi come Marco e Nicola, che dividono la loro vita tra amici, pallone e scuola, non esiste esperienza più bella di una giornata fuori casa, da trascorrere in montagna ad ammirare verdi prati e fiori e con un po di fortuna stambecchi e camosci.
In una domenica di maggio, i due ragazzi decisero di fare pranzo in montagna con i loro familiari, un picnic in un’incantevole e bellissimo boschetto, dove si sentiva il profumo del muschio, l’odore dei fiori e il silenzio del vento e mentre camminavano in silenzio con a fianco un piccolo ruscello riuscivano anche ad ascoltare il fruscio dell’acqua che scorreva entrando in un piccolo torrente. Continua la lettura di La montagna e il suo paesaggio

I Giorni del Vindro

Prologo

Uno degli effetti collaterali di un lungo giro che ho fatto in Patagonia è stato, al mio ritorno in Italia, quando, tramite Nanni, ho avuto l’occasione di conoscere alcuni suoi amici, appassionati dello scialpinismo, provenienti dal mondo SUCAI, un ambiente ben noto tra gli scialpinisti, del quale conoscevo alcuni istruttori o che incontravo in concomitanza di qualche gita del loro gruppo, che aveva, e ha tuttora, la fama di essere assai numeroso.

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Madri o non madri?

Dalle amiche Linda Cottino e Ingrid Runggaldier, in occasione della Festa delle Donne di venerdì 8 marzo, ecco un bell’articolo su un tema poco frequentato ma sempre di estrema attualità.
Si tratta di uno degli interventi presentati al convegno “Alpiniste, genitorialità e rischio” promosso da Laboratorio Donne con il Centro Studi Interdisciplinare di Genere del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento, che si è svolto nell’ambito del Trento Filmfestival 2023. Una sintesi del convegno è già stata pubblicata, a cura di Riccarda de Eccher, sul numero autunno-inverno 2023-24 della rivista Le Alpi Venete.

I figli invisibili delle prime alpiniste
di Linda Cottino e Ingrid Runggaldier

Il tema della genitorialità è un capitolo della storia dell’alpinismo femminile ancora ben poco studiato. In particolare, il periodo delle pioniere, attive dagli anni ’60 dell’Ottocento fino ai primi del Novecento, fu assai ricco di imprese di alto livello, ma è purtroppo ancora coperto da una nube di non-conoscenza, e rimanendo l’azione alpinistica delle donne per lo più nell’ombra, è comprensibile che ancor meno si abbiano notizie di eventuali figli. Sembra che l’avere o non avere figli non influenzasse molto le donne nella loro azione in montagna. Certo, le prime alpiniste, pare, che non ne avessero avuti. Basti pensare a Henriette d’Angeville, la sposa del Monte Bianco, che nel 1838, all’età di quarant’anni e nubile, lo scalò come seconda donna. Continua la lettura di Madri o non madri?

Come i Nostri Padri

Da tempo covava nella cenere un’ideuzza abbastanza bizzarra e un po’ sui generis. Niente di apocalittico o straordinario, anzi si pensava ad una rivisitazione di itinerari classici rielaborati, reinterpretati: un qualcosa che potesse stimolare la fantasia dello scialpinista. E così è stato. Da diverso tempo, con alcuni amici si stava consolidando un’idea che avrebbe avuto un legame simbolico col passato. Continua la lettura di Come i Nostri Padri

Auguri di Buone Feste!

Carissime Socie, carissimi Soci,
anche il 2023 volge al termine: è stato un anno positivo (ops!!!), ricco di attività e di eventi, ma soprattutto con tanta amicizia.
Colgo l’occasione per porgervi, con tutto il Consiglio Direttivo e la Segreteria, i migliori auguri per un Buon Natale ed un Migliore Anno Nuovo 2024  … insomma un anno che sia pieno della gioia e delle grandi emozioni che solo le nostre montagne sanno darci.

AUGURI e Buona Montagna a Tutti
Roberto

P.S. La nostra Segreteria osserverà il consueto orario di apertura dell’ufficio nei giorni feriali durante le festività natalizie.

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