Enrico Camanni: il desiderio d’infinito

Proseguiamo con la pubblicazione di brani tratti dai libri dell’amico, giornalista e scrittore, Enrico Camanni …. E’ la volta di questo tratto da “Il desiderio di infinito. Vita di Giusto Gervasutti”, editore Laterza 2017

Primavera torinese
Nei primi mesi del 1933 i taccuini di Gervasutti registrano molto sci alpinismo, soprattutto nel Vallese. Spiccano un tentativo alla Dent Blanche naufragato in un mare di neve e l’haute route del Cervino dalla Valtournenche alla Valpelline.
Da alpinista, Gervasutti usa gli sci soprattutto per fare dell’alpinismo invernale o degli allenamenti primaverili in vista della stagione estiva. Altri invece sciano solo per il gusto della discesa, e intorno ai due «assi» montano attese economiche e retroscena politici. Anche lo sci fa parte del progetto fascista: le facilitazioni che il Governo e le Autorità militari largiscono agli sciatori – scrive Manaresi sulla Rivista del CAI – sono date con il preciso intento di fare della barriera alpina il principale elemento del nostro ordine militare… Ancora troppi sciatori usano gli sci per semplice svago e ricreazione. Occorre che le competizioni sportive e specialmente le salite invernali entrino nell’abitudine della massa. Necessita cambiare le regole e anziché rigare di piste parallele i soliti campi domenicali, preferire la rude competizione che scaglia l’uomo verso il traguardo e amare la nuda montagna nevosa dei confini, dove spira il vento di libertà… L’avvenire delle nostre vallate montane è strettamente connesso allo sviluppo futuro dello sci.

Nel 1931 è scomparso uno dei più grandi esponenti dello sci alpinismo: Ottorino Mezzalama. Bolognese di nascita e torinese di adozione, ginnasta e schermitore, raffinato conoscitore della montagna invernale, ha dedicato gli anni Venti all’esplorazione della catena alpina, tracciando una traversata ideale dalle Alpi Liguri al Brennero. Nell’inverno 1931, proprio a un passo dalla fine, è morto sotto una valanga sulla Cima del Bicchiere in Alto Adige. La grave perdita va onorata in degno modo, così gli amici del Club Alpino Accademico e dello Ski Club Torino decidono di dedicargli una competizione sulle creste del Monte Rosa: la maratona dei ghiacciai.
Il percorso di gara è straordinario, un po’ da fantascienza. Dal Colle del Teodulo, lo storico valico di collegamento tra il Vallese e la Valtournenche, il tracciato tocca il Colle del Breithorn, sale la parete ovest del Castore, scende al Colle di Félik, attraversa il Naso del Lyskamm e raggiunge infine la capanna Gnifetti e l’Alpe Gabiet nell’alta valle di Gressoney. Buona parte della gara si svolge sopra i quattromila metri.
La prima edizione del Trofeo Mezzalama si disputa con tempo molto incerto il 28 maggio 1933. Partecipano quattordici cordate: dodici italiane, una svizzera e una tedesca; le due francesi si ritirano. Il traguardo è anticipato per nebbia alla capanna Sella al Félik, poco oltre metà tracciato, dove si prevede una sosta di mezz’ora per il controllo medico; nessuno ha mai corso in alta montagna e si teme per l’incolumità dei concorrenti. Vincono le guide di Valtournenche Luigi Carrel, Antonio Gaspard e Pietro Maquignaz in due ore e tre quarti. Le guide di Zermatt perdono per soli cinquanta secondi.
Gervasutti corre per i colori del Club Alpino torinese, in cordata con Calosso e Colombino. Si beccano un’ora e un quarto dai primi classificati e sono superati dalla squadra del CAI Uget, però danno mezz’ora all’équipe dello Ski Club Torino.

Sulla cresta del Castore – informa Piero Zanetti sulle pagine entusiaste de «Lo sport fascista» – fu la rassegna di tutte le squadre, che si profilavano altissime e sole sull’azzurro del cielo. Pochi momenti, che la meravigliosa sicurezza e la rapidità del procedere assicuravano che anche per loro, come per le veloci aquile, il vuoto è un elemento amico. Alla capanna Sella la ripresa del cattivo tempo fece interrompere la gara.

Il primo Mezzalama segna una netta superiorità delle guide valligiane, che conoscono il Monte Rosa come le loro tasche e sono più affiatate e acclimatate dei cittadini, che si arrangiano come possono. Anche Gervasutti si unisce a compagni un po’ improvvisati, buoni sciatori ma non particolarmente competitivi. Lui invece «non è un gran sciatore», osserva il compagno di squadra Achille Calosso nel libro Lo chalet de Cenise, «ma pur sempre un atleta tutto d’un pezzo ed un alpinista fortemente dotato». È stato scelto per quello. Poi Calosso aggiunge:

giunti durante la gara in vetta al Castore, un giornalista lì presente descrisse per un quotidiano di Torino l’arrivo della nostra squadra e parlando di Gervasutti lo denominò «il fortissimo»… Ricordo che al nostro ritorno in città qualche maligno gli disse sorridendo «guardalo qui il fortissimo» e quell’aggettivo gli rimase per sempre.

Il giornalista in questione è l’inviato de La Stampa che si firma E. F. ed è salito alla capanna Quintino Sella sfidando la bufera. Ricapitolando i fatti e i protagonisti della maratona dei ghiacciai sull’edizione del 30 maggio, E. F. scrive che «la cordata capitanata dal fortissimo Gervasutti, rallentata nella marcia dall’indisposizione di uno dei componenti, faceva miracoli per mantenersi in contatto con quella dello Skiverband di Berlino… Il Gervasutti fece la parte più dura del percorso con due sacchi da montagna sulle spalle».
Non risulta che Giusto lasci resoconti sulla sua gara, né allora né in seguito. Se lo ha fatto si sono persi gli appunti. Non è uomo da cronometro e probabilmente archivia il Trofeo Mezzalama come un’esperienza divertente e niente più, anche se in qualche modo gli ha cambiato la vita. Quel soprannome buttato lì dal cronista di sport e ripreso da un conoscente in vena di sarcasmo, gli resta addosso come un destino. Per provare che non si tratta di una boutade, ora dovrà essere fortissimo per davvero.
Spingendo gli sci tra i seracchi del Monte Rosa ha pensato spesso a Umberto Balestreri, l’uomo che l’ha accolto nel Club Alpino Accademico. Sono passate solo sei settimane dalla morte del presidente Balestreri nel crepaccio del Morteratsch ed è una triste primavera per l’alpinismo torinese. C’era anche Balestreri, accanto a Mezzalama, tra gli spiriti protettori della corsa dei ghiacciai e qualcuno ha rammentato l’incidente del povero Umberto passando con gli sci su un ponte di neve. Gervasutti è rimasto molto colpito dalla scomparsa; ben ricorda quando l’hanno vegliato prima della sepoltura e intorno alla salma si respirava il vuoto per la perdita dell’uomo giusto, l’incertezza sulle sorti dell’Accademico e l’incontenibile tristezza degli amici e dei famigliari. Ha ancora nelle orecchie le lacrime della piccola Maria Luisa, dieci anni soltanto, troppi per non rendersi conto e troppo pochi per farsene una ragione. Ma chi può capire la morte in montagna? Si può forse spiegare? Gervasutti sa bene che non si può.
Giorni dopo decide di andarla a trovare. Gli hanno scritto su un pezzo di carta l’indirizzo di casa Balestreri e gli hanno tacitamente affidato la bambina, gli amici dell’Accademico, perché lui ha bel garbo e ci sa fare. «Umberto ti era molto affezionato» hanno detto, «sarebbe contento se la consolassi un po’». Ci va perché lo deve al padre della piccola, e poi è vero che ama i bambini. Vorrebbe essere ancora uno di loro, perdersi nei «giochi magnifici dell’infanzia, dove il torrente e la cascata assumono proporzioni immaginarie e il bosco e la caverna sono teatro d’imprese meravigliose». Quando aveva dieci anni bastava una nuvola per soddisfare il sogno. Ora gli serve una parete di sesto grado.
La primavera torinese è irresistibile. Quando le perturbazioni scendono dalla Svizzera e le folate spazzolano le Alpi, la pianura è un golfo tra scogliere di tremila metri. A sud del Gran Paradiso le cime pulite dalla tramontana brillano come cristalli di calcite, disegnate nel vento sull’origami della frontiera. Si riconoscono una a una in fondo ai corsi alberati della città, ogni via una nuova montagna, ogni corso un altro sogno. Per Gervasutti Torino è il crocevia dei desideri, così diversa dalle fughe opache della sua Cervignano. Quando c’è stato la prima volta durante il servizio militare gli è sembrata subito la città degli alpinisti, il posto delle continue partenze e degli inevitabili ritorni, anche se i torinesi che nascono sotto le creste profilate nel cielo diventano grandi e non se ne accorgono più. Per questo lui non vorrebbe diventarlo.
Maria Luisa lo sarà presto, ma per il momento è una bimba nelle braccia di mamma. Gervasutti è imbarazzato al cospetto del dolore, gli manca la mano, non ha confidenza con la morte; appena entrato in casa Balestreri vorrebbe già essere fuori nel vento. La moglie del presidente è una donna forte e gentile, si vede che vuole superare il lutto perché non sta bene essere tristi a Torino, la buona borghesia non se lo può permettere. Giusto e la signora Giuseppina parlano di tutto meno che del povero Umberto, eppure lui è in ogni parola. Qualche foto di montagna appesa alle pareti, ricordi nei cassetti, indizi dappertutto. Maria Luisa ascolta e sorride, ruotando i grandi occhi sulla stanza. Lascia le dita della madre e si avvicina di un palmo allo sconosciuto.
L’uomo riccio dagli occhi tristi ha le mani affusolate di suo padre. Le stesse nocche nervose. Indossa pantaloni un po’ troppo larghi e porta una cravatta un po’ troppo sottile sulla camicia chiara. L’uomo pesa le parole ma non le fa pesare. Ogni tanto gira il collo e scruta di traverso, dopo torna a guardare timido e parlare gentile con un leggero accento straniero. Mentre sta al suo posto sulla poltrona l’uomo racconta di altri posti, «là era Austria prima della guerra», dice, e poi che i suoi vecchi l’hanno raggiunto a Torino, che li ha convinti lui, e che il papà è contento e la mamma così così. Quando saluta e prende il cappello per andare, Maria Luisa si aspetta da lui una parola.
«Tornerò presto» promette l’uomo.
Due parole, ancora meglio, pensa la piccola.
Durante la seconda visita i due si parlano e lei gli mostra i libri preferiti. Sfoglia le illustrazioni commentando con la fantasia. C’è un disegno della neve e lei gli svela che sa già sciare e che ha sciato i campi bianchi sotto il Cervino. «Io non scio granché bene», dice lui. «Sai che adesso fanno la funivia?», rincara la ragazzina. Alla terza visita lui la prende sulle ginocchia e lei dimentica la soggezione e la tristezza. L’uomo riccio ha immaginazione, le parole gli vengono più facili se non ci ragiona su. Se parla con sua madre è solo un alpinista, ma quando gioca con lei l’uomo si lascia andare dove la piccola non sa, e ci porta anche lei in quel non si sa, e ogni volta vanno un pezzo più lontano.
In quei viaggi si annida l’embrione di una relazione che durerà molti anni, evolvendosi e cambiandoli. Al momento lui non immagina la ragazzina che si fa donna e il gioco che si fa serio, perché è solo un’amicizia innocente, ma i sentimenti crescono con le persone. L’alpinista e la bella Luisa sono destinati a prendersi e lasciarsi come la sabbia col mare, ondeggiando tra il bisogno di stringersi e la paura di farlo, o di non saperlo fare.
Per il momento Gervasutti saluta con il cappello ed esce nel pomeriggio torinese. Scende sul Po a inseguire le barche dei canottieri. Cammina sulla riva a ritmo di remo e guarda le scie delle barche, d’oro e poi blu nella luce che non finisce mai. Le giornate si stanno allungando in crepuscoli celesti. Risale in città a rasentare gli spigoli di pietra dei palazzi respirando la primavera. Guarda le montagne ed è felice che siano là, così la vita può continuare. I sogni gli mettono i brividi, sta per cominciare un’altra estate.
A metà giugno parte per le Alpi centrali con uno studente di legge e un professore di scienze: Renato Chabod e Alfredo Corti. Il valdostano è un ragazzo con gli occhi fuori dalle orbite; ottimo ghiacciatore, alpinista accademico dal 1930, Renato ha la stessa età di Giusto e gli è caratterialmente complementare; studia giurisprudenza all’Università di Torino e smania per le scalate. Il professor Corti invece è dell’altra generazione; nato nel 1880 a Tresivio in provincia di Sondrio, insegna Anatomia comparata alla facoltà di Scienze Naturali di Torino. Porta la barba bianca di Matusalemme, ma è ben più giovane di quanto l’aspetto faccia intendere; illustre ricercatore, scrittore e fotografo, è il maggiore esperto delle montagne della Valtellina, dove ha scalato centinaia di cime e ha percorso decine di itinerari inesplorati. Il professore ha appunto in testa una via nuova sulla Cima di Valbona sopra Chiareggio, in alta Val Malenco, perché nessuno ha ancora salito lo spigolo granitico della montagna. Corti sa che con Gervasutti in testa alla cordata potrà portarsi a casa lo spigolo della Valbona, e poi vuole fargli conoscere le sue valli, severe e fascinose, a metà strada tra le Dolomiti e il Monte Bianco.
Il professore, lo studente e il capocordata salgono felicemente lo spigolo incontrando passaggi di quinto grado. Corti mostra ai due ragazzi la Valtellina in fiore, li ospita in casa, stappa una bottiglia di Sassella e poi scendono sul Lago di Como per rientrare a Torino, dove Gervasutti architetta una breve campagna dolomitica con altri compagni. L’estate è arrivata in anticipo e consente già progetti e ascensioni di buon respiro, anche a quote notevoli. Giusto ha in testa la prima ripetizione della cresta sud dell’Aiguille Noire de Peutérey, la più difficile del Monte Bianco, ma prima vuole allenarsi coscienziosamente come sempre, alternando granito e calcare per affinare la tecnica e sciogliere i movimenti. Non si fa mai trovare impreparato all’appuntamento.
Riparte per le montagne con due giovani intellettuali. Il primo ha studiato con Pavese e Bobbio nelle aule del liceo classico Massimo d’Azeglio, alla scuola di Augusto Monti, laureandosi in Lettere a ventun anni con una tesi sul melodramma di Giuseppe Verdi. Si chiama Massimo Mila e va in montagna da quando, poco più che bambino, villeggiava a Coazze con la madre e una temibile camminatrice detta tota Paganun: la signorina Paganone. Il secondo è il canavesano Piero Zanetti, laureato in Storia moderna con una tesi sul Tuchinaggio. Lo chiamano «l’esploratore» perché nel 1929 è stato al Polo Nord con la spedizione Albertini, all’infruttuosa ricerca dei dispersi del dirigibile Italia. Piero è un avvocato benestante, non è mai puntuale e ha progetti ambiziosi. Prima di partire per il Polo ha tentato addirittura la parete nord delle Grandes Jorasses.
Gervasutti, Mila e Zanetti arrivano in Val di Fassa alla fine di giugno. Le Dolomiti sono giardini rocciosi in fiore. Nel pomeriggio del 28 raggiungono la conca del Catinaccio e il Rosengarten, il giardino delle rose. «Leggende di Wolff per Luisa», si annota Giusto. Dalla Gardeccia salgono al rifugio Preuss per scalare la Torre del Vajolet, dove il temerario ragazzo tedesco Georg Winkler scrisse una pagina epica di storia dell’alpinismo prima di scomparire per sempre nei ghiacci del Weisshorn. Dopo la Winkler si spostano nella conca di Cortina per salire il classico spigolo della Punta Fiames, che si alza dai prati drizzandosi nel cielo ampezzano. Ancora quinto grado e ancora niente che assomigli alla lunga cresta dell’Aiguille Noire, ma intanto i muscoli delle braccia prendono forma, il cuore pompa sangue nelle arterie e Gervasutti cospira con Zanetti la grande estate.

(Tratto da “Il desiderio di infinito. Vita di Giusto Gervasutti”, Laterza 2017)

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